Del fato delle Cassandre. Riflessioni amare sui risultati del referendum

Li amavo.
Ma amavo dall’alto.
Da sopra la vita.
Dal futuro. Dove è sempre vuoto
e da dove nulla è più facile del vedere la morte.
Mi dispiace che la mia voce fosse dura.
Guardatevi dall’alto delle stelle – gridavo –
guardatevi dall’alto delle stelle.
Sentivano e abbassavano gli occhi.

[…]

È andata come dicevo io.
Però non ne viene nulla.
E questa è la mia veste bruciacchiata.
E questo è il mio ciarpame di profeta.
E questo è il mio viso stravolto.

Così Wisława Szymborska interpreta le parole di Cassandra, la profetessa il cui destino ossimorico, inflittole da Apollo, la condanna a conoscere con lucida clarità il futuro, ma a non essere creduta da coloro cui lo disvela. E tale è, fin dal IX secolo a. C., il fato di tutti quelli che, per logica e per intuito, in politica e nella vita, scorgono vividamente il baratro, ma non sono ascoltati e intesi dai tanti che verso di esso stanno inconsapevolmente e pervicacemente correndo.

Per ottimismo della volontà, seppur con profondo pessimismo dell’intelligenza, molti di noi si sono recati alle urne in occasione del referendum sul lavoro e la cittadinanza, nel tentativo di salvare il salvabile dall’inevitabile naufragio della sinistra italiana. A nulla erano valse le grida ammonitrici che, almeno dal 1989, tentavano di evitare la deriva del viaggio periglioso del PCI verso una meta de-ideologizzata che si è rivelata essere, drammaticamente, liberista. A nulla era servito invocare un’unità con le forze riformiste socialiste, anziché l’abbraccio – che si è palesato mortale – con il cattolicesimo e i lacerti del Partito Radicale. A nulla era approdato lo sforzo di mantenere strutture partitiche, anziché confuse mimesi del precario movimentismo elettoralistico statunitense, tanto amato dall’americanismo veltroniano e riaffiorato nei vagheggi di partito liquido e proteiforme dei “giovani” quarantenni del PD, più o meno legati al movimento delle Sardine e ai programmi dei Radicali.

Dinanzi a tutto ciò, l’impegno generoso della CGIL ha tentato di costruire un argine e un inizio di svolta, ritornando con forza consapevole ai diritti del lavoro, che costituiscono il fulcro di ogni autentico programma politico progressista. Impegno generoso e consapevole, dunque, ma vano, come abbiamo dovuto constatare. E, allora, anziché inveire contro l’ignoranza e la stupidità della “gente” (comportamento tanto irrispettoso e antidemocratico, quanto significativo della perdita di lucidità della sinistra italiana), come molti ahimè stanno facendo sui social, vale la pena di interrogarsi sulle cause della sconfitta, senza tentare ridicolmente di trasformarla a parole in una attestazione di vittoria futura.

Ora, a mio avviso, le cause sono quattro e le elencherò utilizzando sottotitoli scherzosi, sia pure nel rispetto pieno per i politici di cui parlerò.

La Boccia-tura

Il sindacato (e con il sindacato tutti i lavoratori) ha pagato caro il tentativo, da parte soprattutto del capogruppo PD al Senato, Francesco Boccia, di trasformare un referendum sindacale sul lavoro, che interessava tutti i lavoratori dipendenti, di qualunque convinzione politica, in un conteggio dei voti anti-governativi. La sciagurata ipotesi di “mandare un avviso di sfratto” al governo ha sicuramente determinato una reazione negativa (e quindi l’astensione) da parte di quella frazione non piccola della classe operaia e della piccola borghesia, che, delusa e disillusa dalle politiche neoliberiste del centro-sinistra, da anni vota a destra o non partecipa al voto, perché non si sente rappresentata nei propri interessi da alcun partito. In questo senso – e mi si perdoni il calembour – il giochetto propagandistico da tifo da stadio (o, se preferite nobilitarlo, da concezione della politica come scontro amico-nemico) di Boccia si è trasformato in una Boccia-tura, purtroppo non di lui, bensì del referendum e delle proposte referendarie.

La Sardina in barile

Anche a prescindere dal fatto che da anni le Primarie del PD consentono a elettori di centro-destra o del Movimento cinque stelle di orientare pesantemente la scelta del Segretario del partito (era accaduto con Renzi, votato da molti elettori di Forza Italia; è avvenuto nuovamente con la Schlein, votata dai cinque stelle), come già era accaduto per la Serracchiani, Elly Schlein ha dimostrato di essere un’efficace propagandista nel breve periodo e nell’ambito di gruppi esigui di giovani dei centri urbani o nel contesto evanescente della rete, ma, nonostante la sua virtuosa scelta recente di inserire finalmente i diritti del lavoro nel suo abborracciato e fumoso programma politico, ha contemporaneamente evidenziato l’assenza di leadership, sia all’interno del partito (che si è spaccato dinanzi ai quesiti referendari), sia nei confronti dell’elettorato.

Era evidente, infatti, che il PD avrebbe dovuto giustificare in modo persuasivo e consapevole l’adesione al Referendum contro il Jobs Act, elaborato e imposto dal PD stesso; e che avrebbe potuto farlo soltanto riflettendo pubblicamente sugli errori che hanno contraddistinto la nascita stessa del partito e la sua assenza di riferimenti al riformismo di tradizione socialista. Invece non vi è stato che un impacciato accenno al fatto che sono trascorsi nove anni dalla legge renziana, seguito da un altrettanto impacciato silenzio. Molti elettori che avrebbero avuto interesse pieno nel votare Sì ai quesiti referendari si sono presumibilmente sentiti beffati da una lotta che è organizzata oggi, mentre il governo è nelle mani del centro-destra, quando, sia dinanzi alla legge Fornero, sia dinanzi al Jobs Act, i partiti di centro-sinistra non avevano battuto ciglio e avevano lasciato il sindacato isolato e senza sostegno.

Quel fare il pesce in barile rispetto agli errori del passato, cercando poi di arraffare i risultati peraltro modesti ottenuti dal sindacato (e ottenuti con le sole sue forze), proclamandoli come voti contro Giorgia Meloni, è stato sicuramente un ulteriore contributo al senso di estraneità di vasta porzione dell’elettorato un tempo orientato a sinistra, un’estraneità che si è tradotta e temo continuerà a tradursi in diserzione delle urne.

Lo cunto de lo Conte

Se è ben vero che soltanto con il cosiddetto “campo largo” si sono ottenuti risultati vincenti nelle elezioni amministrative, è altrettanto incontrovertibile il fatto che non è possibile governare con l’estremismo, da un lato e il populismo qualunquista, dall’altro. Che Conte sia come l’ombrello, buono per tutte le stagioni in caso di pioggia e, fuor di metafora, di elezioni, è fatto insindacabile, ma che, oltre a far da spalla una volta a destra e una volta a sinistra, il Movimento cinque stelle non sia affatto orientato a sinistra e sia un alleato pericoloso è, a mio giudizio, altrettanto palese. Ciò che tale raggruppamento rappresenta, in termini politici, non è il mondo del lavoro, bensì il sottoproletariato a-politico, ondivago e tendenzialmente parassitario, che costituisce uno dei pericoli più formidabili della democrazia liberale (e peraltro di ogni altra forma di governo). Lo spreco di denaro pubblico, distribuito a chiunque e senza alcun controllo, cui abbiamo assistito negli anni scorsi, non è compatibile con i diritti del lavoro propugnati da uno schieramento riformista-socialista coerente; né l’adesione di pancia a provvedimenti pseudo-ecologici, che sono fatti pagare soprattutto ai ceti operai e medi, può consentire sul lungo periodo una risalita dei consensi per ipotesi politiche di sinistra. Per non parlare della fuffa populistica filo-putiniana, che costituisce, se ancora non bastasse, un ostacolo alle possibilità del centro-sinistra di mantenere in politica estera un equilibrio raziocinante salvifico tra protezione della pace e prevenzione della guerra.

Ma è soprattutto nelle politiche del lavoro che l’alleanza con Conte rischia di inficiare l’azione del sindacato e dei partiti di centro-sinistra, proprio in quanto non vi è possibile alleanza e possibile compromesso politico tra chi intende rappresentare gli interessi del lavoro e chi si propone di elargire caritatevoli mancette a coloro che di volta in volta si auto-raffigurano come bisognosi. Se “campo largo” dev’essere per necessità tattiche, che almeno il PD sappia diventare egemonico e non rimanere ancorato e sottomesso all’agenda e alle parole d’ordine di Conte. Non è improbabile che sia questa una delle ragioni dell’astensione da parte di numerosi lavoratori, che hanno ceduto alla propaganda della destra, la quale con facilità ha potuto definire parassitario il “reddito di cittadinanza” e dimostrare l’incongruenza del superbonus edilizio.

Il Frato-danni

In modo probabilmente meno incisivo, ma comunque con un esito non di poco conto, anche la scelta infelicissima della manifestazione del 7 giugno ha, a mio avviso, contribuito ad allontanare parte dell’elettorato dalle urne, non soltanto per la mancanza di bon ton istituzionale, che ha indotto i politici a invocare dal palco il voto, in un referendum che è la forma costituzionalmente definita nella quale l’astensione ha un valore politico preciso ed è una delle tre opzioni possibili e nel giorno del silenzio elettorale; ma soprattutto per l’indecorosa scelta di sventolare le cosiddette bandiere “palestinesi” e striscioni vari anti-israeliani, senza neppure un cartello con la richiesta di restituzione degli ostaggi israeliani nelle mani dei terroristi da più di seicento giorni e soprattutto senza una distinzione netta – quale sarebbe prioritariamente necessaria – tra civili gazawi e organizzazioni terroristiche, in un momento storico in cui finalmente i Gazawi cominciano a rendersi conto della necessità di liberarsi dal giogo dei tagliagole islamisti. L’enfasi del cliente pentito della Tesla, Fratoianni e il negazionismo rispetto alle atrocità del 7 ottobre che contraddistinguono gran parte della sinistra estrema, nonché di fatto l’ipotesi di cancellazione dello Stato di Israele propugnata da molti, hanno costituito un danno di immagine che probabilmente ha contribuito ad allontanare dalle urne chi preferisce approcciare la geo-politica in modo razionale, senza alcun tifo calcistico e considerando le ragioni complesse di tutte le parti in gioco.

Che fare?

Senza nessuna ambizione al fare il Lenin della situazione, mi pare si possa inferire, a questo punto, una lezione sia per il sindacato, sia per il PD.

In primo luogo, è opportuno sottolineare come l’istituto referendario non soltanto abbia mostrato storicamente di non essere apprezzato dai cittadini italiani (che hanno sempre confermato le decisioni del Parlamento, fino a che l’inflazione di quesiti referendari imposta dal Partito Radicale ha indotto a disertare le urne e a far prevalere l’astensione), ma sia essenzialmente una forma problematica di democrazia diretta che, nell’epoca dei populismi e dei social, non può che arrecare danno allo schieramento progressista, giacché questioni delicatissime, quale è ad esempio la cittadinanza, non possono essere risolte a colpi di plebiscito, bensì pretendono politiche complesse e soluzioni efficaci, che soltanto lentamente e nella concretezza dei fatti possono persuadere l’elettorato. Se è vero che ciascuno ha diritto di vivere dove meglio crede e che chi nega il diritto di cittadinanza lo fa, come osserva Luciano Canfora, per non dover dividere i propri vantaggi, è altrettanto vero che la migrazione massiccia comporta problemi drammatici per chi emigra e per chi riceve i migranti e che soltanto accurati percorsi di integrazione, che accompagnino il migrante nel percorso di inserimento autentico e di identificazione nei principi della nostra Carta costituzionale, possono garantire una società realmente inclusiva e solidale. O così, o la migrazione sposterà sempre più a destra il quadro politico di tutti i Paesi occidentali, come peraltro sta già accadendo in Italia, Francia, Germania e Danimarca e come tragicamente dimostrano proprio in questi giorni gli USA di Trump.

In secondo luogo, è necessario ricordare che non è nel momento elettorale che la sinistra può vincere politicamente. Occorre una presenza sul territorio, occorre un attento uso delle Rete e dei social, occorrono molteplici momenti pubblici di riflessione sui problemi al posto delle sagre e delle festicciole da panem et circenses, occorre tornare a quella democrazia diffusa. che negli anni Settanta del Novecento aveva virtuosamente allargato la partecipazione dei cittadini al processo di deliberazione. E occorre sopra tutto e prima di tutto un programma politico ampio e coerente, che sappia riprendere le questioni concrete della vita degli individui e prospettare riforme anche radicali, ma non ideologiche ed estremistiche, da “tutto subito”, indirizzandosi verso una giustizia sociale gradualmente crescente, contrapponendosi alla visione del mondo iper-liberista e antidemocratica, che purtroppo a partire dagli anni Novanta del Novecento ha contaminato anche lo schieramento progressista, italiano e non solo. Senza la forza del consenso popolare, senza la presenza attiva dei cittadini e il sostegno alle politiche del sindacato (e del partito) non si va da alcuna parte.

Abbiamo ripetuto queste cose molte volte e sempre inutilmente, Cassandre inascoltate da chi vive di ideologie e tifoserie e non si redime neppure quando inciampa nella realtà. Davvero “è andata come dicevo io/ però non ne viene nulla”.

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