Io e Dio da Cartesio a Kant. Note sui prodromi dell’Idealismo

Proviamo a procedere nell’approfondimento dell’ipotesi che una possibile mente infinita sia “presente”, cioè “immanente” (o “prevalentemente” immanente, o “anche” immanente: sarà da vedere), alla prima radice di noi stessi. La cosa ha molte conseguenze non solo per noi stessi, ma sul nostro modo di concepire il mondo. Se, infatti, la dimensione dell’infinito è in noi, essa deve comprendere in sé stessa, potenzialmente, tutta la natura, e anzi tutto il cosmo vivente. La vita è tutta in noi e noi tutti in essa, e a noi umani, sin dalla prima radice del nostro essere pensanti, è dato di saperlo, ed è quindi dato di interiorizzare tale consapevolezza in massimo grado. L’”empatia” in tal caso “dovrebbe” logicamente e naturalmente conseguire, almeno tra esseri umani; e con gli altri viventi “dovrebbe” esserci, logicamente e naturalmente, almeno “simpatia”, cioè condivisione del “pàthos”, consapevolezza del fatto che quasi tutti possono non solo gioire, ma soffrire come noi, sicché dovremmo desiderare – come dice l’augurio più caratteristico dei buddhisti – “che tutti gli esseri viventi possano essere felici” (ove appunto sia possibile, il che come ben sappiamo non può accadere sempre; ma quello è l’assetto cui sempre dovremmo e potremmo tendere, per ciascuno di noi, per tutti noi e per tutti i viventi, dai più affini ai più differenti). Lì va a parare la coscienza del fatto che la nostra finitezza in noi è compresente con l’infinità, e viceversa, e che non dovremmo scordarcelo neanche per un secondo, almeno nella misura in cui siamo coscienti di essere appunto un composto tra finitezza e infinità, tra “animale” e “dio”, sin nelle più intime fibre, in quanto siamo animali coscienti della nostra finitezza-infinità, cioè del nostro essere umani; o almeno lo potremmo, anzi lo possiamo.

L’ipotesi è audace ed ha molte conseguenze (psicologiche, morali, sociali, politiche ed ecologiche), ma è da verificare, almeno per quel che sia consentito a esseri umani quali siamo (sempre con un che di finito mentre siamo aperti all’infinito, e con un che d’infinito nella nostra finitezza). Ma non volendo fare alcun gioco di bussolotti concettuale, partiamo da quella che Dewey avrebbe chiamato “situazione problematica”[1], ossia da ciò che possa inquietare o un credente intelligente o un ateo che sia riflessivo, ossia i tipi coscienti della fallibilità di ogni soluzione metafisica (materialistica o scientista come pure idealista o neospiritualista), per quanto ben argomentate e vitalmente necessarie per chi ne sia profondamente persuaso, perché ciascuno di noi non può fare a meno di rispondere a tali quesiti, meglio che possa.

L’aporia del dualismo

Una difficoltà molto grave, in proposito, è rappresentata dal dualismo: anima e corpo, spirito e materia, Dio e cosmo, e così via. Questo dualismo, ora attenuato e ora radicalizzato – per quanto sempre fondamentale per tutte e tre le grandi religioni monoteistiche (giudaica, cristiana e musulmana) – è diventato sempre più difficile da sostenere scientificamente; e per ciò anche filosoficamente; e per ciò pure “esistenzialmente”, man mano che ci si è inoltrati nella Modernità. Ormai non c’è campo del sapere – si tratti di fisica, chimica, o biologia, o medicina, o economia, o sociologia, o politologia, o diritto, e così via – in cui si accetti di far giocare un ruolo alla dimensione religiosa. Ne sono ormai convintissimi anche i “religiosi” d’oggi, quantomeno di fede giudaica o cristiana.

Le ultime ridotte della fede concernono semplici, o anche ardui, problemi morali, come: il rifiuto, da parte della Chiesa cattolica, della dissolubilità del matrimonio (che oggi potrebbe farci sorridere, se non fosse che ancora attualmente i divorziati, nelle chiese di tale confessione, non possono fare la comunione, il che “per i fedeli” coinvolti sarà un problema); la negazione dell’aborto (persino per evitare che nascano individui con forti handicap, mongoloidi o simili, quando lo si sappia nel periodo legalmente utilizzabile per l’aborto, com’è oggi possibile); la fine della vita fattasi vegetativa, o la stessa eutanasia (anche se il tema del decidere la morte altrui, pure di fronte a una vita da tempo in stato di coma profondo, o anche del poter decidere la propria morte, sia effettivamente drammatico: fermo restando il diritto del potere legislativo di deliberare anche su tali materie, ascoltando doverosamente tutti, ma decidendo in totale autonomia, almeno per come la vedo io). Ma a parte l’ultimo punto (“forse”), sono battaglie perse già dentro il cosiddetto “popolo dei credenti” nella società moderna in cammino. Le indicazioni della “dottrina” vengono puramente disattese, come la prescrizione della Chiesa di non fare all’amore prima del matrimonio. Prima o poi anche i cattolici dovranno raggiungere quantomeno i protestanti su tali terreni[2], dando qualche “calcio”, pur delicatamente inferto e cercando di nascondere il piede come sanno fare da molti secoli, alla loro pur rispettabile “tradizione”, per altro sovrapposta in più casi alla “rivelazione”.

Tuttavia questi sono casi limite, nel più vasto ambito dei saperi specifici, riconosciuti come autonomi nel loro campo pure dalla chiesa cattolica (in riferimento a quella che a partire dal concilio Vaticano II è stata chiamata “autonomia del mondano”). I credenti – indotti dalla forza della logica, e delle cose, a non interferire in ogni campo del sapere, e quasi dell’agire, con i diversi saperi – si rifugiano nell’apparentemente facile teoria della secolarizzazione, per cui ad esempio si può sostenere il big bang, o il puro evoluzionismo biologico, sul piano “secolare”; e, per fede, il creazionismo, o l’esistenza di un Dio personale, che nel mondo non si capisce che cosa abbia da fare se non l’ha “direttamente” creato, e neppure lo governa direttamente, almeno dal punto di vista delle scienze (il che ovviamente solleva questioni religiose sempre più gravi, o dovrebbe sollevarle nella misura in cui una fede fosse una cosa importante).

Queste questioni ruotano soprattutto attorno all’antico problema del male nel mondo, che ha sempre tormentato teologi e filosofi religiosi, generalmente risolto da un lato con la teoria, risalente a Sant’Agostino, del male come “privazione di bene” (privatio boni, a partire dal massimo Bonum, che per il credente naturalmente è Dio stesso): teoria che nega al male il carattere ontologico, cioè d’”essere” in sé e per sé (che ne farebbe un Anti-Dio pari a Dio, come se potessero esserci due infiniti, oppure dovrebbe vedere il male “anche” in Dio), mentre da Sant’Agostino in poi il cristiano vede appunto il male come frutto di un offuscamento di una coscienza, che come un vetro sporco potrebbe sempre essere “lavata”, previo pentimento sincero e profondo, perché non può mai essere malvagia per natura come creatura, oltre a tutto fatta “a immagine e somiglianza” di Dio; e, dall’altro, e soprattutto – come spiega ogni parroco – come frutto della libertà di scelta, che Dio ci avrebbe dato proprio creandoci appunto a sua immagine e somiglianza, col “suo” soffio, che è puro spirito[3], in ultima istanza superiore e indipendente dalla materia cui inerisca: noi, insomma, come animali anche “spirituali”, possiamo dominare la nostra natura bestiale (anche Caino l’avrebbe potuto, come gli disse prima che commettesse fratricidio, Dio[4]). Sono due nozioni – quella del male come “privazione di bene” e come frutto della libertà di noi stessi in quanto esseri “anche” spirituali, non certo peregrine (a dimostrazione del fatto che le idee più importanti di una grande fede religiosa sono sempre più profonde di quanto creda il semplicismo dei negatori).

Tuttavia il male dei neonati, oppure di folle di innocenti mandate al macello, non impedito da nessun Dio, non si spiega né con la spiritualità né con la libera scelta dell’uomo: tanto che persino filosofi ebrei legati alla loro fede, come Hans Jonas – che è stato anche un pensatore ecologista originale – si sono chiesti come si possa credere in Dio dopo Auschwitz: confermando sì, alla fine, la vecchia – ma non per questo assurda – tesi della libertà creaturale “umana”, che può pure arrivare a compiere olocausti degli innocenti del genere, ma sostenendo anche che per tale ragione Dio non può più essere detto onnipotente, non potendo evidentemente impedire il male.[5] In un certo senso questo rilievo sulla non-onnipotenza di Dio potrebbe pure essere molto bello, confermando che “il Padre” (o/e “Madre”) ha come noi dei limiti, come sapevano quanti hanno insistito sul carattere teomorfo dell’essere umano, da taluni grandi umanisti a Hegel[6]; confermando che Dio, come noi in quanto siamo esseri finiti e infiniti al tempo stesso, è coinvolto direttamente nella finitezza, che si mostrerebbe nel suo disperato amore per i suoi figli (o fratelli), che saremmo noi; il divino non si mostrerebbe solo nella gloria, ma anche nel limite. Dio, anzi, sarebbe tale, per taluni teologi che accentuano la sua umanità entro la nostra finitezza, non tanto nella “gloria”, com’era ancora per la nostra divino-umanità teorizzata da Hegel, quanto nell’impotenza, nella croce, come sostenuto da Bonhoeffer, teologo e pastore luterano fatto impiccare dai nazisti in campo di concentramento, ritenuto fondamentale anche dai cattolici; ma come già si vedeva nel Cristo di Masaccio, o nel Cristo morto di Hans Holbein che tanto impressionava Dostoevskij (e Myskin, in uno dei capitoli più toccanti del meraviglioso Idiota)[7]. Perdonate la mia eresia, voi beati possidentes di una sancta fides che io apprezzo e non deprezzo né disprezzo, ma io mi rivolgo soprattutto a individui aperti al Sacro inquieti, quale sono io dai sedici anni (in certe fasi più portato alla fede e in altri alla negazione della fede, e molto spesso a “tutte e due insieme”), ma se Dio soffre davvero, sudando persino sangue, con buona pace di San Paolo non l’ha fatto apposta (come del resto pure Matteo ci mostra)[8], ma gli è capitato suo malgrado, perché è stato seviziato e assassinato, e non ha potuto evitarlo. Le tenebre hanno rifiutato la luce[9].

E in termini logici c’è persino di peggio. Se in Cristo-Dio c’è impotenza (come ci dice Jonas, come ci dice Bonhoeffer); se Egli può soffrire in noi come noi (“come Dio”), come fa a non esserci, in Lui, anche un quid di male? Se può soffrire sino alla morte come noi, ha dei limiti, e quindi, nel lato “finito” del suo essere infinito, come noi “infinitizzanti” nella nostra prevalente finitezza deve poter fare il male. (Del resto in più punti dell’Antico Testamento, come nel libro di Giosuè[10], si vede persino troppo bene). Era il grande problema che angustiava Giobbe, tanto che Lutero dubitava che quel libro potesse essere davvero accettabile come “parola di Dio”. In Dio, che potrebbe anche non essere “tutto infinito” quanto sembra, potrebbe esserci pure un lato tenebroso. La questione è stata tematizzata in modo straordinario da Jung, ma persino dal marxista di sinistra, di formazione giovanile profondamente cattolica, Antonio Negri, quando era in prigione (entrambi tramite commento del libro di Giobbe).[11] Siccome non possono esserci due infiniti, sembra che Dio, se esiste, non possa essere tutto buono. Jung ne era assolutamente convinto[12]. Del resto la contiguità tra il bene e il male si vede pure nella fratellanza spirituale tra Myskin e Rogozin nell’Idiota, e nella fratellanza reale tra il santo Alioscia e Ivàn Karamazov: l’Ivàn che ispira il parricidio, nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, e che pure alla fine risulta avere torto marcio[13]; ma non precipitiamoci subito alla conclusione edificante, senza cogliere la complessità estrema della problematica morale sottesa. Ragionare della fede dopo Kierkegaard, dopo Nietzsche, dopo Dostoevskij, dopo Auschwitz, significa accettare in pieno di affrontare questi terribili nodi filosofici, e provare a scioglierli, o con dita pazienti o anche con un taglio netto. Ecco la “situazione problematica” di partenza: un ragionare “disincantato”, da epoca della secolarizzazione, se non porta necessariamente alla negazione di Dio, porta a mettere radicalmente in discussione la sua onnipotenza e, in taluni “casi limite” (risultano tali, lo vedo bene), la sua totale bontà.

Il limite della secolarizzazione

In ogni caso il punto chiave è che la secolarizzazione, l’autonomia dei saperi “mondani” dalla religione (e della religione dai saperi mondani), è stata accettata dal popolo dei credenti monoteisti, quantomeno cristiani e specialmente cattolici (ma pure giudaici). La secolarizzazione, che distingue tra il vero per la scienza e il vero per la fede – pur cercando poi ovviamente i possibili punti di concomitanza – sembra però essere una benefica foglia di fico, perché i moltissimi che pensano ormai così non si accorgono che si faceva la stessa cosa sin dal Basso Medioevo, ad esempio da parte di Averroè o comunque di altri che intendevano in tal modo le sue idee: solo che allora quest’approccio non si chiamava teoria della secolarizzazione, ma della “doppia verità”, per cui si poteva avere una verità sul piano concreto, negando ad esempio l’immortalità dell’anima individuale o dell’anima della stessa umanità, e un’altra verità opposta, che si diceva creduta per fede (anche perché allora questa “fede” garantiva meglio la “sopravvivenza”, data la mala sorte riservata ai “negatori” della fede stessa). Se ne sono accorti anche i teologi più avvertiti, come ad esempio Wolfhart Pannenberg, che in Epistemologia e teologia (1973), riprendeva una parabola filosofica di Antony Flew del 1955 su due esploratori che giungevano nella foresta in una radura in cui, oltre che erbacce, c’erano bellissimi fiori. Uno dei due (evidentemente l’uomo religioso), notava: “Ci deve per forza essere un giardiniere che ha cura di questa radura”. L’altro lo negava. Allora si accampavano lì per verificare, ma non compariva alcun giardiniere. Quello che credeva ci fosse osservava che si trattava certamente di un “giardiniere invisibile”. Tuttavia a dispetto di ogni appostamento non solo questo giardiniere non veniva visto, ma non si trovava la minima traccia di lui. Alla fine l’incredulo diceva all’altro: “Ma che cosa rimane della tua primitiva asserzione? Vuoi dirmi in che cosa, quello che tu chiami giardiniere invisibile, impalpabile, eternamente sfuggente, differisce da un giardiniere immaginario o perfino da un giardiniere inesistente?”[14]

La lunga, seppure sempre contrastata, epoca del trionfo del materialismo nel campo delle scienze

L’idea del Dio che negli ambiti reali è come se non ci fosse ha, insomma, dei limiti molto forti e sempre più tali, man mano che la ricerca si complica. E infatti da oltre due secoli pare iniziata la lenta morte di Dio; e insieme – o persino prima di tale “morte” – la scristianizzazione dell’Occidente. Si può discutere se sia proprio così, ma molti indizi vanno in quella direzione.

La questione ha avuto ed ha moltissimo a che fare con la storia della scienza moderna, meccanicistica sin da Galileo, e poi sempre di più sino a Newton, ma addirittura sino a Einstein. Anche se in verità il “meccanicismo” ha sempre avuto i contestatori “intelligenti” del suo paradigma, da Leonardo (ora rivalutato anche in scienza da Fritjof Capra), nel Rinascimento; a Goethe e Alexander von Humboldt, per non dir di Hegel, tra Illuminismo e Romanticismo; a Bergson rispetto a Einstein, e poi a Heisenberg rispetto ad Einstein, e con l’ulteriore fisica quantistica (e così via), nell’era della reazione al positivismo, o decadentismo, che è stata in competizione con l’altra dagli anni Ottanta-Novanta del XIX secolo sino ai giorni nostri.[15] Ma siccome nell’insieme il modello meccanicistico è risultato vincente, confermato mille volte nei risultati (specie applicativi), pur senza escludere che in base a un antico filo logico scientifico di tipo spirituale che viene da molto lontano (addirittura dai pitagorici) un giorno potrà venir fuori un altro paradigma di sapere razionale, alternativo a quello meccanicistico che considera tutto come una macchina matematicamente costruita e decostruita, e sin che si può riparabile nei “pezzi”, dai nostri corpi ai fondamentali mezzi di produzione, dobbiamo ragionare nella consapevolezza del fatto che in scienza il modello cosiddetto meccanicistico ha vinto (pur senza disprezzare – lo ribadisco – la ricerca ad esso alternativa, o le idee non dimostrate, ma che non siano assurde in partenza, né al passato né al futuro). Comunque per ora dobbiamo tenerci stretto il meccanicismo, come fosse certo: infatti viviamo tanto di più dei nostri antenati perché quel meccanicismo è andato sempre avanti.

Ora, però, dobbiamo aggiungere che per secoli questo modello “meccanicistico” è stato ritenuto compatibile con il teismo (ad esempio da Galileo come da Newton); ma quando si vide che il modello “macchinistico” valeva in tutti gli ambiti possibili e immaginabili – in cui si doveva ragionare “come se Dio non fosse” (aveva già detto il primo grande teorico del diritto internazionale, il calvinista Grozio, nel XVII secolo[16]) – la dimensione religiosa divenne la Cenerentola della cultura.

A mio parere ci furono solo due grandi tentativi di salvare la dimensione religiosa superando il dualismo di cui sopra: il post-cartesianesimo da un lato e l’idealismo romantico dall’altro.

Da Cartesio a Leibniz

Alcuni fondamenti furono posti da Cartesio, ma suo malgrado: nel senso che vennero soprattutto dai suoi continuatori-superatori, Spinoza e Leibniz. Cartesio non poteva più fondare la scienza o la religione sulla vecchia metafisica delle essenze (“forme”), in specie aristotelica, che da Dio come “causa di sé stesso” (causa sui) – prima “forma” o essenza – discendeva alle cause o “forme” specifiche come essenze delle diverse specie di esistenza. Su quel versante, basato sulla ricerca delle essenze o forme interne degli enti, la battaglia sarebbe stata persa in partenza, sia per la fisica meccanicistica (cui Cartesio moltissimo teneva, essendo pure un vero scienziato), sia per la religione (che gli stava pure molto a cuore). Provò a risolvere la cosa riconoscendo in campo un solo principio operante, ma attraverso due sostanze (o realtà in sé compiute). Sostenne che c’erano due soli tipi di “cosa” (res), o realtà in sé e per sé, o “sostanza”, cioè di essere del tutto autosufficiente: la materia, che non sa affatto pensare, ed è mera estensione (res extensa), cioè massa da pesare, dividere e misurare quanto si possa e voglia, perché senz’anima, dal momento che di per sé non sa pensare, non sa ragionare, è una cosa e basta; e il pensiero pensante, l’anima razionale, o realtà pensante (res cogitans), in-corporea. Ognuna delle due sostanze non interferirebbe con l’altra, anche se il pensiero può ovviamente ragionare sulla materia, e servirsene: ma senza “esserla”. Il principio base che ci direbbe che le cose stanno così, autorizzandoci a vedere e a trattare la materia come un che di meramente “materiale”, meccanico, eccetera, è individuato nell’autonomia del pensiero ragionante in noi, successivamente detto “Io”, che da Kant, e soprattutto Fichte in poi sarà la base dell’idealismo, verso la fine del XVIII secolo. Ecco il perno del discorso.

Nel suo celeberrimo Discorso del metodo, Cartesio diceva in pratica: posso dubitare di tutto, ma non del fatto che sto pensando: per cui il raziocinante, il pensante, deve essere considerato come la base di tutto, come una specie di punto alfa, pure della fede in Dio, che trovato come corollario della propria realtà spirituale, pensante, dal pensiero, è poi garante dell’assolutezza del pensare ragionevole, quando “Lo” riteniamo con evidenza tale (cioè del retto pensare di noi esseri spirituali, pensanti): anche se così – come gli fu ben presto fatto osservare – faceva dipendere Dio, che dovrebbe star sopra l’Io, dall’Io, e la bontà dei ragionamenti dell’Io da Dio, dando luogo a quello che fu detto il suo “circolo vizioso”, per cui il vero dell’Io, nel carattere non ingannevole della sua scienza, è garantito da Dio, e Dio dall’Io. L’Io, o meglio la realtà pensante, tutta spirito, può fare quel che ritiene razionalmente valido sulla, con e della materia, che tanto non sente niente, essendo pura massa estesa (sicché gli animali, in quanto privi di ragione, e “quindi” di spirito, sarebbero solo macchine automoventisi, automi creati da Dio, e i loro lamenti sarebbero come “cigolii di cinghie”, dirà a un certo punto inorridendo tutti i pensatori ecologisti del nostro tempo: “cigolii” che a suo dire non dovrebbero turbarci affatto[17]).

Ma ben presto – non senza mille problemi con l’autorità pure nella sua libera Olanda (o più libera che altrove) – un genio senza uguali, ebreo, Baruch (Benedetto) Spinoza, specie nella sua Etica – però base di sue opere politico-religiose, e anche puramente politiche, decisive – fece notare che “la sostanza”, cioè la realtà del tutto autosufficiente, “cui nulla manca per esistere”, può essere solo una e non due, e che per la sua infinità necessaria deve coincidere con Dio: per cui materia e spirito, “res extensa” e “res cogitans”, materia e spirito, debbono appartenere a Dio, risultando solo due “attributi” dell’eterno, alias della Natura (Deus sive Natura, “Dio, ossia la Natura”). Faceva così irruzione il panteismo (Dio è “il tutto”), ma questo era ben difficilmente distinguibile vuoi da chi mirava a identificare Dio con la mente umana (idealismo), vuoi da chi voleva assolutizzare la materia (materialismo). E infatti Spinoza sarà studiato appassionatamente dai romantici, che nel Tutto vedevano Dio (l’Uno-tutto), da Lessing e Herder a Goethe, Schelling e Hegel, tutti sostanzialmente idealisti; ma anche dai materialisti, come lo stesso Marx, e poi, nel nostro tempo, dall’ipermarxista Antonio Negri, che su di lui ha scritto un libro notevole[18].

Un grande scienziato, matematico, e politico e filosofo tedesco, Wilhelm Leibniz, che scoprì il calcolo infinitesimale, provò ad evitare le implicazioni anche materialistiche, che infatti avevano fatto studiare la politica, a Spinoza, con un realismo brutale, quantunque democratico in modo assoluto, non inferiore a quello di Machiavelli. Mentre per Spinoza la materia era pura materia, e da intendere meccanicisticamente, seppure fosse da considerare come il polo esteso, materiale, a lato di quello spirituale, di Dio, alias della Natura, Leibniz provò a spiegare che la sostanza era sì una, ma tutta puramente spirituale, fatta di punti “senza estensione”, e quindi senza materia (“unità”, “monàdes”, monadi, infinitesimi, che aggregati sembrano materiali, ma che sono gli atomi spirituali irradiati da Dio, come prima monade). A me è sempre parsa una visione grandiosa.[19]

Solo che in un mondo sempre più borghese (tanto più dopo che nel 1789 fu scoppiata la Rivoluzione francese), e comunque sempre più tecnicistico (dalla grande rivoluzione industriale, la più importante dal Neolitico in poi, scoppiata pure in quel secolo a partire dall’Inghilterra), il materialismo – il macchinismo, il meccanicismo – venne a prevalere.

Tuttavia prima che esso prevalesse definitivamente, almeno come cultura egemone epocale, si sviluppò un’altra scuola di pensiero non meno importante di quella di Cartesio-Spinoza-Leibniz: appunto l’idealismo, prima illuministico e poi, e soprattutto, romantico (che avrà pure propaggini importanti nel Novecento, che potremmo dire neoromantiche).

La centralità dell’Io nell’Idealismo gnoseologico di Kant

La cosa comincia con il maggior filosofo dell’Illuminismo, Immanuel Kant, che nella sua maturità intellettuale propone un genere di filosofia che è detto idealismo gnoseologico, ossia un’impostazione idealistica in materia di teoria della conoscenza. Kant risolve i contrasti laceranti tra piani incompatibili di cui si è detto attraverso una sorta di distinzione tra ambiti della conoscenza. Nella decisiva Critica della ragion pura riprende il tema cartesiano del primato dell’Io, ma mettendo fuori gioco Dio e il dualismo (ma solo, si badi bene, nel sapere puramente scientifico, di puro pensiero o di pensiero applicato, sensibile e intellettuale). La conoscenza scientifica, insomma, ha da essere post-metafisica. Essa, ad esempio nelle scienze, tra cui le più obiettive sono per lui matematica e fisica (per la loro stessa evidenza, che però per lui andrebbe spiegata filosoficamente), non può più avere la vecchia ambizione di conformità all’oggetto, ma deve prendere atto di essere una costruzione umana, fatta di giudizi dell’Io: costruzione che non ruota più intorno all’oggetto da conoscere: è l’oggetto da conoscere, invece, che ruota attorno all’Io (che diventa il sole attorno al quale ruotano gli oggetti, come in una sorta di nuova “rivoluzione copernicana”, diceva il filosofo). Ciò è reso possibile perché nella mente ci sono intuizioni sensibili, o anche funzioni di rielaborazione intellettuale, che sono “a priori”, cioè che non dipendono dall’esperienza ma la dominano, come la spazialità, la temporalità e lo stesso intelletto raziocinante, con le sue categorie, tutte raccolte attorno al suo punto focale a priori, vera categoria di tutte le categorie, l’”Io penso”, o Io pensante, che rende possibili, soprattutto proiettando una dimensione di causalità che non è tra cose, ma prima in lui, congrue applicazioni del matematico intuire alle relazioni tra cose, come in fisica. La verità diventa la sintesi a priori, cioè l’unificazione dei dati intuiti (matematica) e applicati ai rapporti tra cose (fisica).

Sullo sfondo però restavano, come un residuo, i problemi che avevano turbato tutti i filosofi: l’oggetto “com’è” a prescindere dal soggetto che lo pensa, cioè la “cosa in sé”, che lì Kant diceva inconoscibile, noumeno. Infatti, diceva, la nostra ragione – la terza funzione dopo la sensibilità e l’intelletto, basi delle sintesi a priori della matematica e della fisica – vorrebbe sì conoscere il reale “a prescindere” dall’Io, cioè dalle funzioni unificatrici dello spazio, del tempo e dell’intelletto. E con la sua bimillenaria metafisica ci prova da 2000 anni. Ma non può. Non può uscire dallo spazio e dal tempo, delizia e croce del suo pensare, e quindi realizzare la sintesi a priori di quel che sta al di là del pensiero, al di là dell’Io – al di là dello spazio, del tempo e degli Io, che sono in noi a priori – con cui filtriamo l’esperienza. Quel che ne prescinde, il reale in sé, e non come lo percepiamo noi, è inconoscibile. Come sarà mai la realtà in sé, a prescindere dal filtraggio del nostro pensiero?

C’è qualcosa in noi, che chiamiamo ragione (da non confondere con la sensibilità e con l’intelletto, di cui si è detto), che vorrebbe appunto rispondere, ponendosi domande ragionevoli sulla realtà ultima, e facendo pure ipotesi di risposta paradigmatiche possibili, proprie di un sapere filosofico che diciamo “metafisica”; ma nonostante le pretese dei filosofi che se ne occupano, dagli antichi greci ai giorni nostri, non ce la fa. Le sue tesi restano controvertibili, reciprocamente opposte, come se sulla “realtà in sé” si potesse dire tutto e il contrario di tutto, come nella dialettica, propria degli antichi sofisti greci. Come quel Gorgia di Lentini, presso Siracusa, che un giorno faceva tutto un discorso su Elena per dimostrare che quella donna, scappata via da Sparta mollando il re suo marito Menelao per seguire l’ospite suo amante, il bellissimo principe Paride di Troia, provocando così la guerra decennale narrata da Omero nell’Iliade, era stata la più grande donna perduta della storia umana; e poi dimostrando che la colpa era stata tutta degli dèi, che avevano voluto così.[20] Insomma, sul reale si potrebbero predicare cose opposte (dialettica), ma ciò per Kant stava a significare che la metafisica – gran limite per uno ancora illuminista, e anzi maggior filosofo dell’illuminismo, come lui – era una pseudoscienza. Tesi e antitesi si scontrano infatti, nella pretesa prima filosofia o metafisica, senza possibile sintesi a priori, senza poter unificare i dati tramite l’a priori, senza poter trovare una soluzione a tutti comune. Si può sì impostare correttamente l’aut aut, ma la soluzione è impossibile, sicché l’illuminista Kant ci dice che a dispetto dell’indubbia sovranità dell’Io nel mondo delle cose rappresentabili, che cadono sotto la nostra esperienza, la pura ragione – la parte che pure fa le sue eterne domande in noi sulla prima realtà o realtà “in sé”, cioè la metafisica – risulta appunto una pseudoscienza. Non possiamo “scientificamente” sapere se il cosmo sia eterno o creato (antinomia cosmologica), se la nostra mente sia immortale o mortale (antinomia psicologica), o se Dio esista o non esista (antinomia teologica). Accontentiamoci delle scienze certe, come la matematica e la fisica.

Però Kant sapeva che a questo mondo non c’è solo la scienza oggettiva. In altro ambito disciplinare ed esperienziale, non scientifico puro, come nella vita morale, possiamo rispondere razionalmente alle domande senza risposta ragionevolmente sicura della metafisica: nel senso che quando arriviamo a un livello di moralità incondizionata, in cui agiamo per tutti e per ciascuno, vincendo almeno temporaneamente tutti gli impulsi sensoriali, irrazionali, animaleschi, che pure premono in noi; e operiamo quindi, quando ci riusciamo, da esseri assolutamente liberi e ragionevoli, oltre la nostra stessa materialità, oltre il nostro interesse limitato, palesemente svincolandoci dalla nostra materialità, quello che per il puro ragionamento era impossibile, si fa – almeno finché siamo a quel livello morale (ma certo poi non ce lo scordiamo più) – evidente come un postulato: come qualcosa di ovvio per chi abbia avuto accesso al “bene più alto” (la virtù come è stata intesa: come un operare per ciascuno e per tutti, che è “il bene più alto”), che per tal via ci apre al “sommo bene”, cioè a una gioia perfetta, ad una “vita beata”, eterna, oltre la vita materiale, che si compirà in Dio.

Inoltre Kant, nella terza parte del suo sistema, o “terza Critica”, nella Critica del giudizio, ammette che in noi, oltre al piano dei giudizi puramente scientifici (Critica della ragion pura), o morali razionali, pratico-razionali, etici (Critica della ragion pratica), ci sono “giudizi riflettenti”, di tipo intuitivo, ma non per questo irrazionali, che sembrano superare la rigida contrapposizione tra un piano meramente dominato dalla ragione, ma tutto spazio-temporale, matematico-fisico, scientifico puro, materiale (prima Critica) e un piano morale valutativo, che s’impone con la sua spiritualità a ciò che è materiale e sensibile, come dover essere all’essere (Critica della ragion pratica). Questa terza modalità è un intuire razionale (o solo ragionevole?) che relativizza, insomma, la contrapposizione tra essere e dover essere, tra un piano tutto materia e niente spirito, pur sotto l’Io, e un piano che è tutto spirito, ma in quanto oltrepassa la materialità. Infatti nelle sue lezioni di metafisica, alla fine del XVIII secolo, dopo la “terza Critica”, Kant poteva osservare: “Già la semplice coscienza mi offre la distinzione dell’anima dal corpo; perché quel che io vedo esternamente di me è palesemente distinto dal principio pensante che è in me; e questo principio pensante è a sua volta distinto da tutto ciò che può essere solo oggetto dei sensi esterni. Un uomo cui è stato squarciato il corpo può vedere le sue viscere e tutte le sue parti interne; perciò queste parti interne sono solo un essere corporeo e del tutto distinto dall’essere pensante. Un uomo può perdere molte sue membra, eppure egli rimane e può dire: Io sono. (…) Egli, però, resta sempre immutato e il suo Io pensante non perde nulla. Ciascuno, quindi, capisce senza difficoltà, anche solo col senso più comune, di avere un’anima distinta dal corpo.”[21]

Nel XX secolo un importante teologo cattolico, Hans Urs von Balthasar, su ciò, rettificando il punto-chiave del pensiero cartesiano, dirà: “Lo spirito finito si sperimenta come abbracciato e preso in consegna, sperimenta la sua ‘assoluta dipendenza’ (nel senso di Agostino e Schleiermacher) senza potere afferrare da cosa dipende; sperimenta ancora che il suo piccolo pensiero è contenuto di un pensiero infinito che lo sovrasta anche infinitamente (cogitor ergo sum), per cui tutta la sua personalità infine non può in ultima analisi compiere un solo passo spirituale nella libertà o nella servitù senza imitare un archetipo libero e inafferrabile, perché assoluto e infinito.”[22]

In Kant, e ancor più nel grande teologo che cogliendo l’infinità dell’Io passava dal cartesiano “Cogito ergo sum” (“Penso, dunque sono”) al”Cogitor ergo sum” (“Sono pensato, dunque sono”), restava un residuo dualista (pensiero, per quanto a priori e autonomo, da una parte, e materia dall’altra). Ma nel contesto immediatamente post-kantiano, ma anche ormai romantico e mistico, degli inizi del 1800, sarà irresistibile la tendenza se non alla totale identificazione dell’Io con Dio, ad una sorta di identità tra Io e Dio e Dio e l’Io. Inizierà l’avventura “religiosa” del grande idealismo romantico del XIX secolo. Quella sarà pure, persino suo malgrado, la matrice di Marx. Egli la supererà, ma trascinandosi dietro i problemi dell’idealismo, che a mio parere arrivano ai giorni nostri. Come si vedrà.

di Franco Livorsi

  1. Quest’approccio è uno dei punti chiave in: J. DEWEY, Logica come teoria dell’indagine (1938), Einaudi, Torino, 1949.
  2. Per la posizione della Chiesa cattolica su tali questioni, è da vedere: Catechismo della Chiesa Cattolica. Testo integrale e commento teologico, Direzione e coordinamento del Commento teologico a cura di R. Fisichella, Per il testo: Libreria Editrice Vaticana, 1992, e per il Commento, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria), 1993.
  3. Bibbia: Genesi, 1:26 (per l’uomo a immagine di Dio). Per la problematica di AGOSTINO sul male sono da vedere soprattutto i suoi scritti: De Genesi adversus Manichaeos (388/389) e più in generale Le Confessioni (397/400), con Introduzione di Christine Mohrmann e tr. di C. Vitali, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2010.
  4. Bibbia: Genesi, 4:7. Caino, invidioso del favore che Dio dà al fratello Abele, gira a capo chino. Dio gli dice: “Se agisci bene, non dovresti tenerlo alto (il capo)? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta: verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo.”
  5. Hans Jonas è pure, non a caso, il maggior studioso internazionale dello gnosticismo, con cui alle origini il cristianesimo dovette confrontarsi molto (facendo i conti con i suoi Vangeli apocrifi). Questo gnosticismo – nel cupo pessimismo sulla vita mondana e materiale del mondo tardo antico, che sul piano filosofico si espresse nella grande filosofia neoplatonica di Plotino e di Proclo, e sul piano religioso nella religione di Mani, basata sulla lotta continua tra dio del bene e dio del male, e della quale Sant’Agostino fu esponente di primo piano, e poi, come pensatore diventato cristiano, grande avversario teologico-filosofico) – teorizzava appunto il dominio, e addirittura la creazione, del mondo da parte del dio malvagio, contro uno opposto buono (che avrebbe poi vinto alla fine dei tempi), e la liberazione come ripudio della vita mondana e materiale, considerata male in sé. Ma su ciò si veda appunto: H. JONAS, Lo gnosticismo (1958), SEI, Torino, 1973. Di Jonas ha un grande significato ecologico, oltre che filosofico, l’opera: Il principio responsabilità (1979), a cura di P. P. Portinaro, Einaudi, Torino, 1990. Per la riflessione su Dio e l’olocausto si veda, dello stesso Jonas: Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica (1984), a cura di G. Angelino, Il Nuovo Melangolo, Genova, 1993.
  6. Si veda, per quest’aspetto, per gli umanisti: PICO della MIRANDOLA, Oratio de hominis dignitate (1486), in: Antologia, a cura di G. Barone, Virgilio Editore, Milano, 1973. Ma si veda: G. F. W. HEGEL, Lezioni di filosofia della religione, a cura di R. Garaventa, S. Achella, Guida, Napoli, 2001 (1823, ma postumo, da confrontare con l’ugualmente postumo, ma un po’ meno attendibile perché non ricavato da un solo quaderno, o gruppo di quaderni, di un solo allievo, e di un solo corso, qui del 1823, ma da più quaderni di più allievi, dei corsi dal 1822 al 1831: Lezioni sulla filosofia della religione, del 1822/1831, postumo 1837, e a cura di G. Lasson, e in it. di E. Oberti e G. Borruso, Laterza, Roma-Bari, 1983, tre voll.).
  7. D. BONHOEFFER, Resistenza e resa: lettere e altri scritti dal carcere, Queriniana, Brescia, 2002; ; Gli scritti (1928-1945), Queriniana, Brescia, 1979.

    F. DOSTOEVSKIJ, L’idiota (1869), Traduzione e cura di G. Pacini, Feltrinelli, 1998.

  8. MATTEO, 25: 46, 26:36, 27: 46; MARCO, 12: 29/34.
  9. GIOVANNI, 1: 1-18.
  10. Nel libro biblico di Giosuè emergono ordini tremendamente stragisti di Dio nel corso della conquista della terra promessa. Nel libro di Giobbe emerge l’accordo tra Satana e Dio nel mettere a prova la fede di Giobbe infliggendo a quel giusto terribili sciagure.
  11. C. G. JUNG, Risposta a Giobbe (1952), in “Opere”, XI, 1979, pp. 337-457; Bene e male nella psicologia analitica (1959), ivi, pp. 469-481. Ma si veda pure: A. NEGRI, Il lavoro di Giobbe. Il famoso testo biblico come parabola del lavoro umano, SugarCo, Milano, 1990.
  12. C. G. JUNG, Bene e male nella psicologia analitica (1959), in “Opere”, XI, cit., pp. 469-481.
  13. F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov (1878(1880), tr. a cura di A. Poliedro, Mursia, Milano, 1941. Si veda pure: F. LIVORSI, Archetipi del padre in “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij, in: AA.VV., “Il Padre. Parola Silenzio Trasformazione. Atti dell’XI Convegno nazionale del Centro Italiano di Psicologia Analitica”, Vivarium, Milano, 2002, pp. 45-72.
  14. A. PANNENBERG, Epistemologia e teologia, Brescia, 1975, pp. 34-35. Il pensatore riteneva però dimostrabile, con approccio teologico hegeliano religioso, che Dio si manifesti nella storia umana, in cui a tratti la sua presenza si farebbe manifesta, nella nostra divino-umanità, quasi come luce nella notte.
  15. Sul mutamento, per ragioni socioculturali – e non puramente epistemologiche come per Popper – dei paradigmi, o visuali generali della scienza nelle diverse epoche, è fondamentale: T. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), Einaudi, 1995. Per la visione non newtoniana del mondo tra fine del XVIII e primi decenni del XIX secolo, si veda: R. SAFRANSKI, Il Romanticismo, Longanesi, Milano, 2011. Per la ricerca – sull’onda del principio di non determinazione di Heisenberg, e delle idee sul cosmo dell’Oriente filosofico brahmanico shivaita e buddhista, a me sono parse quasi tutte importanti le opere di F. CAPRA: Il tao della fisica (1975), Adelphi, 1982; Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente (1982), Feltrinelli, 1984 (che ritengo l’opera fondamentale dell’ecologia contemporanea); Verso una nuova saggezza: conversazioni con G. Bateson, I. Gandhi, W. Heisenberg, Krishnamurti, R. D. Laing, E. Schumacher, A. Watts e altri personaggi straordinari, Feltrinelli, Milano, 1988 (un libro che ritengo pieno di straordinarie intuizioni e di gradevolissima lettura); La scienza universale: arte e natura nel genio di Leonardo, Rizzoli, Milano, 2007. Mi sono occupato molto di Fritjof Capra anche nel mio libro: Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, Giuffré, Milano, 2000, pp. 297-318..
  16. Hulg van Groot, nome latino latinizzato in H. Grotius, donde U. GROZIO, è l’autore del primo moderno trattato rigoroso di diritto internazionale: De jure belli ac pacis (1625), da confrontare con: Prolegomeni al diritto della guerra e della pace, a cura di G. Fassò, Zanichelli, Bologna, 1969. Lì sostiene appunto di volersi basare su norme puramente razionali, “come se Dio non esistesse”.
  17. R. DESCARTES (latinizzato in Cartesius, cioè “R. Cartesio”), Discorso sul metodo (1637), a cura di I. Cubeddu, Editori Riuniti, Roma, 1978. Per le critiche, basate pu precise citazioni, si veda: F. CAPRA, Il punto di svolta, che a p. 54 cita la seguente affermazione di Cartesio: “Vediamo orologi, fontane artificiali, mulini e altre macchine simili le quali, pur essendo state fatte da uomini, nondimeno hanno la forza di muoversi da sé in parecchie maniere diverse. Io non riconosco alcuna differenza fra le macchine fatte da artigiani e i vari corpi composti dalla natura sola,” La cosa era spiegata ancora più diffusamente in: C. MERCHANT, La morte della natura (1980), a cura di E. Donini, Garzanti, Milano, 1988.
  18. B. SPINOZA, Etica (1677, postumo), a cura di S. Giannetta, Boringhieri, Torino, 1980; Trattato teologico-politico (1674), a cura di S. Casellato, La Nuova Italia, Firenze, 1971; Trattato politico (1677, postumo), a cura di L. Pezzillo (1677, postumo), Laterza, Bari, 1991. Ma si veda pure: A. NEGRI, L’anomalia selvaggia, Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza, Feltrinelli, Milano, 1981.
  19. W. LEIBNIZ, Monadologia (1714), a cura di G. De Ruggiero, Laterza, Bari, 1937.
  20. Per i riferimenti a Gorgia, Discorso su Elena compreso, si veda: I sofisti. Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, 1967, quattro voll.
  21. I. KANT, Critica della ragion pura (1781 e infine 1787), a cura di G. Gentile e G. Lombardo Radice, rivisto da V. Mathieu, Laterza, 1959; Critica della ragion pratica (1787), a cura di F. Capra, rivisto da E. Garin, ivi, 1965; Critica del giudizio (1790), a cura di M. Marassi, Bompiani, 2004; Realtà ed esistenza. Lezioni di metafisica, a cura di A. Rigobello, San Paolo Editore, Cinisello Balsamo (Milano), 1998 (ma io traggo il brano cit. da: K. LŐWITH, Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche, 1960, e Morano, Napoli, 1966, pp. 26-27).
  22. H. U. von BALTHASAR, Gloria. La percezione della forma (1961), Milano, 1975, p. 420.

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