E’ chiaro che…

“In una società libera, i giornalisti sono, o dovrebbero essere, i maggiori arbitri nella grade mischia tra ignoranza e cultura. Ma cosa succede quando i cittadini chiedono di essere intrattenuti anziché informati?”

Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, LUISS University Press, Roma, 2017, p.24

Leggo sul Corriere della Sera di giovedì 7 giugno (a pagina 5) che nell’intento di difendere la proposta della tassa unica (flat tax), il Vice Presidente del Consiglio, nonché leader della Lega Matteo Salvini, nel corso di un intervento a Radio Anch’io avrebbe affermato quanto segue: “Se uno fattura di più è chiaro che risparmia di più, reinveste di più, assume un operaio in più, acquista una macchina in più e crea lavoro in più”.

La struttura logica delle connessioni presenti nella frase pronunciata da Salvini è la seguente (dove il simbolo → sta per implica): più fatturato → più risparmio → più investimento → più occupazione → maggior consumo (qui non è chiaro se chi acquista l’auto è chi ha fatturato di più oppure l’operaio che è stato assunto) → maggiore occupazione. Non ho idea di quali siano le “competenze” di Matteo Salvini in fatto di Politica economica, ma questa affermazione inanella una serie di concetti (il fatturato, il risparmio, l’investimento, l’occupazione, il consumo), nonché una serie di relazioni di causa-effetto tra di essi che manifestano la più totale ignoranza dei concetti basilari della cultura economica.

Ad uno studente che si avvicinasse per la prima volta allo studio della Macroeconomia (la disciplina che studia il funzionamento di un sistema economico visto nel suo insieme) viene consigliato di costruirsi un glossario dei termini (posto che questo non figuri, come sovente capita, alla fine del libro di testo), giacché la precisa conoscenza del significato dei termini consente di acquisire la capacità di leggere e di esprimersi correttamente, oltre al fatto di comprendere ciò che sta leggendo.

Ora, “fatturare di più” è sinonimo di aumento delle vendite, aumento che non garantisce affatto che si stia guadagnando di più. Un azionista di maggioranza di una piccola azienda produttrice di cappottini per bambini mi incaricò, appena neo-laureato in Economia, di effettuare un controllo sul bilancio societario. Gli appariva strano che nonostante da alcuni anni l’impresa aumentasse continuamente il suo fatturato, non distribuiva alcun utile. Dal controllo contabile emerse che il responsabile della tenuta delle scritture contabili non conosceva il concetto di “costo per unità di prodotto”, vale a dire l’indicatore che consente di valutare se su ciascuna unità che si produce si guadagna o si perde. Una erronea valutazione delle scorte di tessuti pregiati acquistati in anni precedenti, ormai fuori moda e pertanto inutilizzabili, faceva sì che a livello di bilancio aziendale non emergesse che ogni capo di abbigliamento venduto comportava una perdita, poiché il prezzo di vendita non copriva i costi, facendo apparire quel prezzo ai compratori particolarmente vantaggioso in quanto di molto inferiore alla qualità dei capi acquistati. E questo spiega perché le vendite aumentassero continuamente. L’amministratore era soddisfatto del favorevole andamento del fatturato, senza accorgersi che più le vendite aumentavano, più aumentavano le perdite. Conseguentemente, Il nesso “più fatturato → più risparmio”, è del tutto privo di significato economico.

Quanto all’affermazione che “Se uno fattura di più è chiaro che risparmia di più” è anch’essa priva di significato, dal momento che il flusso del “risparmio” (che alimenta lo stock della ricchezza) deriva dalla differenza positiva (posto che esista) tra il fatturato venduto e il fatturato acquistato da altre imprese fornitrici dei beni cosiddetti “intermedi” (il cosiddetto Valore Aggiunto).[1] Peraltro, non tutto il Valore Aggiunto è a disposizione dell’impresa, ma solo la porzione che resta al netto dei cosiddetti “redditi da lavoro” (ossia gli stipendi e i salari corrisposti a chi ha contribuito a produrre la merce), porzione che può essere distribuita sotto forma di profitto agli azionisti oppure reinvestita. Con il termine “risparmio” Salvini intendeva forse l’”utile netto”, utile che non è affatto detto che venga poi “reinvestito” nell’azienda. Basta leggere, in proposito, la bella inchiesta di Milena Gabanelli, sempre sul Corriere della Sera di mercoledì 6 giugno (“Quanto lavoro porta l’hi-tech”), dalla quale emerge che, con riguardo a grandi imprese come la Microsoft e IBM-Italia, “fatturati e utili s’involano verso il Nord Europa e poi finiscono in qualche paradiso fiscale”.

Il fatto poi che “più risparmio significhi più investimento” è un nesso logico da tempo desueto, essendo stato smentito da John Maynard Keynes, il quale, diversamente dagli economisti che lo hanno preceduto, i quali consideravano i due concetti come sinonimi, ha messo in evidenza come il risparmio dipenda essenzialmente dal reddito delle famiglie, mentre l’investimento, ossia la spesa delle imprese per l’acquisto di beni strumentali, dipendendo da tutt’altri fattori (come le aspettative sui redimenti futuri delle imprese) non potrà in alcun modo coincidere con il risparmio.

A prescindere da quanto sopra, la validità del nesso logico implicito nell’affermazione che “chi fattura di più risparmia di più, reinveste di più, assume un operaio in più”, dipende in gran parte dagli effetti del progresso tecnico: se le innovazioni sono “risparmiatrici di lavoro”, infatti, non è affatto detto che il “reinvestimento” comporti un aumento dell’occupazione. Anzi, sovente implica il contrario. Stando al dibattito in corso sul fenomeno della “disoccupazione tecnologica”, dovuta agli effetti delle grandi trasformazioni che stanno cambiando il modo di produrre le merci (dall’«L’industria 4.0» all’«economia della condivisione»), l’occupazione del settore manifatturiero sembra destinata a subire una evoluzione del tutto simile a quella dell’occupazione agricola, la quale, nel breve volgere di un paio di generazioni da occupazione “prevalente” è divenuta “marginale” (meno del 2% in tutte le economie sviluppate).

Quanto poi all’affermazione secondo la quale l’aumento di occupazione indurrebbe maggior consumo, che a sua volta comporterebbe un ulteriore aumento dell’occupazione, essa è la sola ad essere teoricamente fondata. E tuttavia, la decisione da parte di un’impresa di effettuare un nuovo investimento (ancorché risparmiatore di lavoro) è strettamente legata alla previsione di riuscire a vendere ciò che essa produce, cosa che non sempre accade. Un caso da manuale è la produzione della Stilo da parte della FIAT nel 2001. Ritenuto un modello tecnologicamente il più avanzato esistente sul mercato, la cui messa a punto ha richiesto alcuni anni di lavoro e consistenti investimenti, si è rivelato un flop nelle vendite, flop che ha consigliato l’immediata sospensione della produzione, dirottata sul mercato brasiliano, creando una grave situazione di crisi a livello aziendale. Infine, andrebbe rammentato che siccome la crescita dei consumi delle famiglie è legata al reddito disponibile, in quegli stessi anni della crisi aziendale della FIAT, si è verificata a causa alla “svalutazione interna” dell’euro, caso unico tra tutti i paesi che hanno adottato la nuova moneta, una consistente perdita della capacità d’acquisto da parte della classe media. Svalutazione che ha falcidiato gli stipendi e i salari del lavoratori dipendenti del 48%, provocando, unitamente agli effetti della crisi finanziaria, la più grave crisi economica del dopoguerra.

Come si ricorderà, il tasso di cambio tra la lira e l’euro è stato fissato il 31 dicembre 1998 in 1.936,26 lire per un euro. In base a tale cambio è avvenuta la conversione dei salari e degli stipendi dei lavoratori dipendenti (uno stipendio di 3 milioni è stato convertito in 1.549,4 euro). Nel giro di poco tempo, diciamo a partire dagli inizi del nuovo secolo, tale cambio ha subito una svalutazione, da parte delle categorie sociali in grado di praticare a proprio piacimento il prezzo delle loro prestazioni, scendendo a 1.000 lire per ogni euro. Solo per fare un esempio, prima della circolazione della nuova moneta, una pizza margherita costava 5.000 lire e molti giovani si ritrovavano una volta alla settimana in pizzeria, spendendo qualcosa come 20.000 lire al mese. Con il cambio a 1.000 lire il prezzo della pizza è stato alzato a 5 euro (ossia 9.681 delle vecchie lire). Il che significa che siccome in base al cambio della moneta la paghetta mensile è divenuta 10.329 euro, nel giro di poco tempo ci si è accorti che ci si poteva permettere al massimo due pizze al mese. Meno pizze vendute ha comportato che meno pizzaioli fossero necessari e meno ingredienti per fare la pizza venissero acquistati dalle pizzerie. Stando alla logica delle connessioni salviniane, meno consumo → minore incasso → eccesso di capacità produttiva → meno occupazione → minori consumi. Ecco spiegata la crisi. Colpa dell’euro o di chi ci ha praticato la svalutazione interna?

E’ chiaro, vero? Ma chi lo va a spiegare al Vice Presidente del Consiglio, nonché leader della Lega Matteo Salvini? D’altra parte, è chiaro che… se “i cittadini chiedono di essere intrattenuti anziché informati”, è giusto che vi sia chi li intrattiene.

Alessandria, 8 giugno 2018

 

[1] Il concetto di Valore Aggiunto, inteso quale differenza tra il fatturato venduto e il fatturato acquistato da altre imprese non è sinonimo di “utile” in quanto incorpora sia i “redditi da lavoro” corrisposti a coloro che hanno contribuito alla produzione, sia i cosiddetti “altri redditi” intesi quale remunerazione degli altri fattori produttivi in aggiunta al fattore lavoro. Il concetto di Valore Aggiunto assume un’importanza rilevante nell’ambito della Contabilità Nazionale in quanto costituisce uno dei metodi di misurazione del Reddito Nazionale che in virtù di definizione serve a misurare nel contempo il Prodotto Interno Lordo (il PIL).

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