Venerdì 4 maggio, ore 16, salone Cgil Alessandria
Iniziare dagli anni della Resistenza per arrivare all’Unità europea e ai suoi attuali problemi, prendendo come punto di partenza proprio Alessandria. È questo il tema che viene proposto venerdì, alle 16 nel salone della Camera del lavoro di via Cavour 27. ‘Europa, democrazia, lavoro’ è il titolo del convegno, organizzato dal Laboratorio di storia, politica, istituzioni (Laspi) dell’Università del Piemonte Orientale in collaborazione con l’associazione Città Futura e con il patrocinio di Cgil e ‘Il Piccolo’.
I lavori saranno aperti da Franco Armosino, segretario della Camera del lavoro, e da Renzo Penna, presidente di Città Futura, che coordinerà anche gli interventi. Il convegno si articola in due parti. La prima di carattere storico intende cercare nella Resistenza e nella lotta contro le dittature fasciste e nazionaliste la radici dell’Unità Europea. E si partirà proprio da Alessandria con il pensiero europeista di Livio Pivano, imprenditore locale ma anche prefetto della Liberazione e dirigente del Partito d’Azione. Il suo pensiero in chiave federalista viene presentato da Alberto Ballerino (Laspi), già autore di un saggio sul tema pubblicato recentemente nel volume ‘Centralizzazione, decentramento e federalismo: un dibattito tra Italia ed Europa (1939-1948)’, curato da Corrado Malandrino e Stefano Quirico. Quest’ultimo porterà il tema fuori dai confini locali con un intervento su ‘Giustizia e Libertà e l’Europa’.
La seconda parte del convegno è invece proiettata sul presente. Corrado Malandrino, presidente del Laspi, aprirà gli interventi, analizzando i problemi e le prospettive dell’Unità europea oggi.
Il tema della politica economica in questi anni è stato al centro della questione Europa ed è più che mai d’attualità in particolare per l’Italia. L’argomento viene affrontato da Bruno Soro, docente dell’Università di Genova.
Anche il lavoro oggi non può più essere considerato fuori dal contesto europeo e solo nell’ambito nazionale. Di questo è ben consapevole Massimo Pozzi, segretario regionale della Cgil, che chiuderà il convegno con un intervento su questo tema.
Redazione “Città Futura”
Auto-intervista sulla Politica economica europea
di Bruno Soro
“Pertanto, un mutamento nei prezzi e nelle retribuzioni, misurato in moneta, colpisce generalmente le diverse classi in modo diseguale, trasferisce ricchezza dall’una all’altra, porta benessere ad una parte e disagio all’altra, e ridistribuisce i favori della fortuna frustrando progetti e speranze”.
J. M. Keynes, Conseguenze sociali del mutamento di valore della moneta, in Esortazioni e profezie, il Saggiatore, Milano, 1968, p. 67.
In vista del Convegno del 4 aprile su “Europa, democrazia, lavoro”, e al fine di stimolare la riflessione e la discussione sulla Politica economica europea, non ho trovato di meglio che farmi qualche domanda e fornire qualche risposta.
D. Cos’è la Politica economica?
R. è la disciplina che studia l’opportunità e il merito dell’intervento pubblico nel sistema economico. Opportunità significa che la teoria economica suggerisce di intervenire (come nel caso della teoria macroeconomica di derivazione keynesiana) oppure no (come nel caso della teoria liberista), e qualora la teoria economica ritenga opportuno intervenire (come in presenza di fenomeni quali la disoccupazione involontaria, di crisi e di inflazione), la teoria stessa indica anche le modalità dell’intervento con adeguate misure di politica fiscale e/o di politica monetaria.
D. Perché gli economisti sbagliano sempre le previsioni?
R. Gli economisti, spesso senza rendersene conto, adottano dei paradigmi che non sono adeguati a fornire una spiegazione al problema che li assilla. Ad esempio, se si adotta il “paradigma del mercato”, sulla base del quale data una certa offerta di una qualsiasi merce (e anche la moneta lo è), le variazioni dei prezzi consentono alla domanda di adeguarsi all’offerta data. Questo paradigma è adatto a spiegare come si formano i prezzi sui mercati finanziari; esso è tuttavia inadatto a spiegare il funzionamento dell’economia reale (una economia monetaria di produzione per dirla con Keynes). A differenza dei mercati finanziari in cui si cerca di scambiare una quantità (già esistente) di titoli di credito, l’attività produttiva richiede tempo (per certi prodotti anche anni), e la dotazione di una certa capacità produttiva (dovendo attrezzare un’area industriale, le imprese ricorrono al credito bancario per disporre dei capitali necessari all’acquisto di impianti e macchinari). Ragion per cui, si rende necessaria la stima di ciò che si intende produrre, il tutto in condizioni di incertezza, una situazione che perdurerà fino a quando si cercherà di vendere il prodotto finito (e non è detto che ci si riesca). Nulla di tutto ciò accade nello scambio dei titoli di credito sui mercati finanziari.
D. Come cambiano il significato, l’efficacia e i limiti della politica economica nel contesto europeo rispetto ad altri contesti?
R. Bella domanda. Cominciamo a considerare separatamente la politica fiscale e quella monetaria. Avendo riguardo agli obiettivi della politica fiscale, nella letteratura economica si fa riferimento a dieci macro-funzioni obiettivo, delle quali, le prime tre (Servizi generali della Pubblica amministrazione; Difesa; Ordine pubblico e sicurezza) identificano la presenza minimale dello Stato, mentre le altre sette (Affari economici; Protezione dell’ambiente; Assetto del territorio; Sanità; Attività culturali, ricreative e di culto; Istruzione; Protezione sociale) identificano obiettivi ritenuti più interventisti. Chiaramente misure di Welfare, come per la sanità, la scuola pubblica, ma anche per i sussidi di disoccupazione e i redditi di inclusione, appartengono a questi ultimi. Lo stato minimale, o una misura come la tassazione unica in base ad una sola aliquota (la flat-tax), va ad esclusivo vantaggio di coloro che hanno maggior potere (di solito i più ricchi). In generale, chi sostiene la dottrina dello Stato regolatore e gli obiettivi più interventisti cerca di difendere coloro che hanno un minor potere rispetto a coloro che possiedono uno strapotere derivante da posizioni di monopolio, da grandi ricchezze finanziarie o dalla proprietà degli algoritmi sui quali si fonda il potere della rete.
D. E come cambia la politica fiscale negli Stati Federali (come gli Stati Uniti) e nelle Unioni tra Stati Nazionali (come la UE)?
R. La politica fiscale, che consiste nel controllo del bilancio dello Stato, negli Stati Uniti è di competenza dello Stato Federale e i singoli stati hanno una competenza assai limitata. Per contro, il Trattato di Maastricht, fondativo dell’Unione Europea, ha lasciato la competenza della politica fiscale ai singoli Stati Nazionali, apponendo alcuni vincoli. Ciò fa sì che, ancorché nel rispetto dei vincoli – che sono più o meno stringenti a seconda del livello del Debito pubblico -, le differenze fiscali fanno sì che privati e imprese siano indotte a spostarsi laddove il sistema fiscale è più conveniente. Qualora vi fosse un Bilancio federale dell’Unione impostato all’uniformizzazione dei sistemi fiscali nazionali tale convenienza verrebbe meno, più o meno come accade per le Regioni all’interno di uno Stato Nazionale. L’esperienza di questi anni ha dimostrato come la tendenza degli Stati Nazionali ad orientare la Politica fiscale alle esigenze delle varie forze politiche (volte sempre più a soddisfare le richieste più spiccatamente populistiche), stia creando forti tensioni sociali che potrebbero portare all’implosione della UE.
D. E per quanto riguarda la politica monetaria?
R. Qui la differenza va ricercata negli obiettivi statutari delle Banche Centrali. Infatti, mentre alla FED americana è stato assegnato l’obiettivo prioritario del controllo del ciclo economico (la qual cosa significa il controllo dell’economia reale e connessa occupazione), l’art. 105 del Trattato di Maastricht stabilisce che il compito prioritario della BCE debba essere il controllo dell’inflazione. Ora, mentre il nesso logico che mette in relazione l’efficacia e i limiti della Politica monetaria finalizzata ad intervenire sull’economia reale è rintracciabile agevolmente nella descrizione del sistema economico di derivazione keynesiana, il nesso logico che mette in relazione la Politica monetaria all’inflazione è molto debole. Esso si basa su una delle teorie dell’inflazione, la cosiddetta Teoria Quantitativa della Moneta, la quale ipotizza che l’aumento della quantità di moneta in circolazione provochi un aumento dei prezzi. Una teoria che si regge su ipotesi (quali l’esistenza della piena occupazione, e l’invarianza della velocità di circolazione della moneta) che sono assai poco credibili. Per valutare l’efficacia della politica monetaria della BCE con riguardo al suo obiettivo prioritario, si pensi solo al fatto che nonostante la forte e costante immissione di moneta che ha inondato i mercati finanziari con l’adozione di quella modalità non convenzionale del Quantitative easing, (con la quale una banca centrale interviene sul sistema finanziario ed economico per aumentare la moneta in circolazione), non solo l’inflazione non ne ha risentito, ma al contrario, negli anni del dopo crisi vi è stata deflazione, ossia una riduzione dei prezzi che è l’opposto dell’inflazione, un fenomeno nei confronti del quale la Politica monetaria è risultata del tutto inefficace.
D. E allora perché il Trattato di Maastricht ha limitato in tal modo l’obiettivo della BCE?
R. Perché lo Statuto della BCE è stato fatto su misura di quello della Bundesbank tedesca alla quale è stato assegnato l’obiettivo prioritario di contrastare il fenomeno dell’inflazione: un obiettivo questo che risente della paura atavica del popolo tedesco nei confronti dell’iperinflazione che, come sottolineano gli storici dei fatti economici, avrebbe contribuito a spianare la strada al nazismo. Ma non è questa la principale influenza tedesca sulla filosofia che ha ispirato il Trattato fondativo dell’Unione Europea: l’ossessione dei responsabili della politica economica tedesca per la politica di bilancio restrittiva poggia sul fatto che nella loro lingua parole come “debito” e “peccato” suonano nello stesso modo, ragion per cui se uno Stato è debitore, i suoi abitanti (specie quelli dei Paesi mediterranei) devono essere per forza dei peccatori. In ogni caso, il debito pubblico dei singoli paesi non deve in alcun modo ricadere sulle spalle degli altri: la politica secondo la quale il ripianamento del debito favorisce la crescita dell’economia è una delle “bufale economiche” messe in circolazione dagli economisti più liberisti. Analogamente, non si capisce perché la Germania debba continuare a godere del vantaggio derivante dall’impossibilità di rivalutare la propria moneta, senza mai essere sanzionata, in considerazione del forte avanzo commerciale accumulato da quando è stata introdotta la moneta unica. La moneta unica, infatti, essendo nella sua essenza un sistema di cambi irrevocabilmente fissi, possiede vantaggi e svantaggi, tutti chiaramente messi in luce da John Maynard Keynes fin da quando, nell’autunno del 1941, iniziò ad elaborare il suo “Piano per la libertà del commercio e il disarmo finanziario”. Quel progetto che prevedeva un meccanismo automatico di compensazione degli squilibri commerciali, poi uscito stravolto dall’approvazione gli Accordi di Bretton Woods del luglio 1944, che hanno visto prevalere il piano del delegato USA Harry Dexter White suo antagonista.
D. Quindi nella Politica economica europea c’è qualcosa che non va!
R. Certamente, quelli di cui sopra sono esempi del pesante condizionamento della Germania sul funzionamento dell’Unione Europea. Non è tutta colpa dell’euro, come qualcuno sostiene, il motivo principale per cui l’Italia ha il più basso tasso di crescita della sua economia rispetto a tutti i 28 paesi dell’Unione: il cambio lira/euro a 1936,27 lire (poco meno di 2.000), con il quale è avvenuta la conversione dei salari e degli stipendi in seguito all’introduzione della moneta unica, a causa della “svalutazione interna” praticata da coloro che hanno il potere di mercato di fissare i prezzi a proprio vantaggio e che, portando il cambio a 1.000 lire per un euro, ha provocato un effetto devastante sulla capacità d’acquisto delle categorie sociali più svantaggiate. Effetto che si è sommato alle conseguenze negative della crisi (leggi disoccupazione e precarietà del lavoro). In nessun altro paese europeo è avvenuto un fenomeno simile. Va sottolineato come gli effetti politici del depauperamento della classe media (la “vendetta” del consumatore) abbiano avuto una certa influenza sull’esito populistico delle recenti elezioni politiche. Conseguentemente, la politica monetaria europea appare come un’arma spuntata, specialmente per quelle famiglie italiane impoverite dall’introduzione della moneta unica, sia con riguardo all’obiettivo prioritario di contrastare l’inflazione, sia alla sua totale inefficacia nell’agire da stimolo alla crescita economica.
D. Allora conviene ritornare alla lira?
R. Niente affatto. Quella del ritorno alla lira è un’altra bufala messa in circolazione dai soliti “furbacchioni”, non contenti di essersi arricchiti alle spalle dei “gonzi” con la svalutazione interna seguita al cambio lira/euro. “Furbacchioni” che non aspettano altro di poter approfittare di un nuovo eventuale cambio della moneta per taglieggiare ulteriormente i redditi delle categorie meno abbienti. A proposito di “gonzi” e di “furbacchioni”, l’esito delle elezioni americane che hanno portato Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti appare come un esempio da manuale circa la validità della “Prima Legge fondamentale della stupidità umana” di Carlo M. Cipolla (1922-2000) che asserisce “senza ambiguità di sorta che: «Sempre ed inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione»”. 1
Alessandria, 28 aprile 2018
1 C. M. Cipolla, Allegro ma non troppo, il Mulino, Bologna 1988. A parziale consolazione di coloro che ritenessero di non appartenere alla categoria di cui alla Prima Legge Fondamentale, il grande Storico dei fatti economici nella nota apposta all’enunciazione della Prima Legge Fondamentale, ci rammenta che: “Gli uomini del vecchio Testamento erano coscienti della esistenza della Prima Legge Fondamentale e la parafrasarono quando affermarono che: “stultorum infinitus est numerus”, ma caddero in un’esagerazione poetica. Il numero di persone stupide non può essere infinito perché il numero delle persone viventi è finito”.
Commenta per primo