«Gli economisti non possono più permettersi d’essere meteorologi che non capiscano le tempeste».
Mark Buchanan, Previsioni. Cosa possono insegnarci la fisica, la meteorologia e le scienze naturali sull’economia, Malcor D’ Edizione, Catania 2014, p.265.
«La grande crisi che stiamo attraversando, prima di essere economica e sociale, è dunque una crisi politica e culturale che ha investito tutta la nostra società».
Francesco Sylos Labini, Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi, Editori Laterza, Bari 2016, pp. XI-XII.
Per gli storici dei fatti economici la Grande Depressione che ha colpito gli Stati Uniti alla fine degli anni ’20 del Novecento, poi diffusasi all’economia del mondo intero, è stata preceduta da una crisi di valori: l’egemonia del Partito Repubblicano privilegiava “l’accumulo della ricchezza privata a scapito di opere in favore delle classi più povere” e, al tempo stesso, “una diffusa ondata di conservatorismo (…) investì le minoranze nazionali e razziali, con leggi limitative all’immigrazione per impedire la contaminazione della popolazione yankee (…) e la diffusione di ideologie sovversive europee, come il bolscevismo”. [1]
La storia non si ripete mai nelle medesime condizioni, tanto più che il bolscevismo è mutato in altre forme, come nel caso dei regimi totalitari diffusi nell’Eurasia. Oltre a ciò, a partire dalla fine degli anni ’70, l’ideologia neoliberista, sia al di qua che al di là dell’Atlantico, si è imposta nella quasi totalità dei Paesi Occidentali (nonché nelle stesse Organizzazioni Internazionali accomunate dal “pensiero unico” del «Washington Consensus»), vuoi nella forma del thatcherismo, a seguito dell’elezione di Margaret Thatcher a Primo Ministro nel Regno Unito nel 1979, vuoi in quella della reaganomics, con la successiva elezione, due anni dopo, di Ronald Reagan a Presidente degli Stati Uniti. In questo contesto ideologico, la diffusione e la raffinatezza dei modelli di previsione elaborati dagli economisti lasciavano infatti intendere, stando a quanto affermato dal Premio Nobel per l’Economia Robert Lucas, che il “problema della prevenzione di depressioni (…) [sia] stato risolto per molti decenni”.[2] La crisi finanziaria ed economica che quattro anni dopo, a partire dagli Stati Uniti si è propagata all’economia mondiale, ha provveduto a smentire quell’affermazione del Nobel, e la sua mancata previsione è stata etichettata da un altro Premio Nobel, Paul Krugman, come la “disfatta degli economisti”, imputabile ad “una visione idealizzata del capitalismo in cui gli individui sono sempre razionali e i mercati funzionano sempre alla perfezione”.[3]
Ma è proprio vero che tutti gli economisti non hanno previsto quella crisi sfociata in «depressione»? In quegli stessi anni, dominati, sempre secondo Krugman, dalla certezza che “una crisi del genere non potesse verificarsi”, non sono mancate le voci di autorevoli economisti che, a partire dai loro studi sullo sviluppo economico e sull’instabilità del capitalismo, hanno sostenuto per contro sia l’inevitabilità delle crisi cicliche, sia la possibilità di una nuova Grande Depressione.
Su il Manifesto è stata recentemente ripubblicata una intervista rilasciata a Valentino Parlato (1931-2017), in occasione del cinquantenario della Grande Depressione, da Federico Caffè (1914-1998)[4] – tra i maggiori economisti italiani del Novecento, misteriosamente scomparso nella primavera del 1997 –, alla domanda «Ci sarà o no un nuovo 1929?» rispondeva che «nel ‘29 siamo già, ci viviamo dentro (…) non nelle forme catastrofiche di allora, ma in modo endemico, nella forma di un ristagno acquisito nella nostra coscienza, al punto che neppure ce ne accorgiamo».
Tre anni dopo quell’intervista, l’economista statunitense Hyman Minsky (1919-1996), autore di una delle più pregevoli interpretazioni della Teoria Generale di Keynes nell’ottica della instabilità finanziaria[5], in una raccolta di saggi sull’instabilità e la finanza, presagiva l’imminenza di una nuova Grande Crisi,[6] e in quello stesso anno, vale a dire cinque anni prima dello scoppio dell’ultima Grande Recessione scaturita dalla crisi finanziaria e immobiliare statunitense, un altro grande economista italiano, Paolo Sylos Labini, esprimeva “gravi preoccupazioni sulle prospettive dell’economia americana”.[7] A completare la rassegna degli «economisti dissenzienti», due mesi prima dello scoppio di quella crisi, in un seminario tenuto dall’economista turco-italo-statunitense Nouriel Roubini[8] presso il Fondo Monetario Internazionale (IMF), nel quale, tra lo scetticismo dei presenti, Roubini illustrava le condizioni di rischio che si erano venute a creare nel settore immobiliare che lasciavano presagire una crisi incombente.
Non so voi, ma personalmente prenderei molto sul serio, quindi, l’allarme sulle possibili ripercussioni della pandemia del Covid-19 lanciato qualche settimana fa, in un articolo pubblicato su The Guardian il 28 aprile scorso, dallo stesso Nouriel Roubini, nel quale ha elencato le “Dieci ragioni per le quali una ‘Grande Depressione’ nel 2020 è inevitabile”. Provo a riassumerle. In primo luogo, il fatto che le misure poste in essere per contrastare la pandemia, improntate sulla fiscalità, assunte in un contesto in cui il debito pubblico di molti paesi è già molto elevato, comporteranno un ampliamento delle posizioni debitorie, sia del settore pubblico che di quello privato, e ciò non può che far aumentare i rischi di insostenibilità debitoria con possibili default.
In aggiunta c’è la “bomba demografica” (invertita dal lato della vecchiaia) incombente sulle economie avanzate, , con riguardo alle quali la pandemia del Covid-19 ha evidenziato che, stante l’età più avanzata delle loro popolazioni, “una maggiore spesa pubblica da allocare nei sistemi sanitari, unitamente ad altri rilevanti beni pubblici (welfare) è divenuta una necessità, non un lusso”.
Al terzo posto c’è il rischio crescente di deflazione, dal momento che la crisi sta causando un eccesso di capacità produttiva, con conseguente disoccupazione, e tutto ciò lascia presagire un collasso dei prezzi delle merci, del petrolio e delle materie prime (peraltro già in atto).
In conseguenza della necessità dei governi di “monetizzare i deficit fiscali”, le banche centrali saranno costrette a mettere in atto politiche monetarie non convenzionali, misure che, contestualmente agli shock negativi dell’offerta aggregata, in conseguenza della de-globalizzazione e del rinnovato protezionismo, “renderanno la stagflazione inevitabile”.
Al quinto posto, in seguito alla pressione sulla riduzione dei salari dovuta alla “distruzione digitale dell’economia”, che indurrà le imprese a ricollocare l’attività produttiva nelle regioni a basso costo del lavoro, con conseguente aumento delle tensioni sociali, faranno aumentare il rischio della diffusione dei populismi, dei nazionalismi e della xenofobia.
Il sesto maggior fattore di rischio è la de-globalizzazione. Siccome gli Stati Uniti e la Cina adotteranno crescenti misure protezionistiche, il mondo dopo la pandemia assisterà alla restrizione nei movimenti delle merci, dei servizi, del capitale, del lavoro, della tecnologia, dei dati e dell’informazione. Cosa che sta già capitando con riguardo ai prodotti farmaceutici, alle forniture medicali e ai generi alimentari, con i governi che imporranno restrizioni alle esportazioni e adotteranno misure protezionistiche in risposta alla crisi del Covid-19.
Dal momento che i leader populisti spesso traggono beneficio dalla crisi economica, dalla disoccupazione di massa e dall’aumento delle disuguaglianze, il contraccolpo di tutto ciò sui sistemi democratici rinforzerà questa tendenza. Le condizioni di insicurezza economica accrescono gli impulsi a cercare negli stranieri il capro espiatorio che ha causato la crisi, e le classi medie tenderanno a diventare maggiormente suscettibili alla retorica populistica sull’immigrazione e sul commercio.
Ciò conduce ad un ottavo fattore: l’aumento della strategia geopolitica di distanziamento geostrategico tra gli USA e la Cina, con conseguente ulteriore intensificazione dell’allentamento dei rapporti Sino-Americani nel commercio, nella tecnologia, negli investimenti, nell’accesso ai dati e negli accordi monetari.
Un nono fattore è il rischio di una rottura diplomatica tra USA e Cina che comporterà una nuova “guerra fredda” tra gli Stati Uniti con i suoi paesi rivali, non solo la Cina, ma anche la Russia, l’Iran, e la Corea del Nord. Nell’imminenza delle elezioni presidenziali c’è l’ulteriore rischio di una guerra-cibernetica, condotta mediante attacchi informatici potenzialmente in grado di provocare azioni militari tradizionali. Inoltre, siccome la tecnologia è l’arma strategica per contrastare future pandemie, il settore industriale privato statunitense diverrà sempre più integrato nell’ambito della sicurezza nazionale.
Ultimo e decimo fattore di rischio è la distruzione ambientale che, come la pandemia del Covid-19 ha evidenziato, può causare all’economia più danni di una crisi finanziaria. Pandemie e i segnali in atto dei cambiamenti climatici diverranno sempre più frequenti, con conseguenti maggiori costi economici, ai quali faranno seguito, negli anni a venire, migrazioni epocali incontrollabili.
Nouriel Roubini conclude il suo articolo con la seguente considerazione: “Dal 2030 la tecnologia e leader politici più competenti possono consentire di ridurre, risolvere, minimizzare molti di questi problemi, favorendo l’affermazione di un più inclusivo, cooperativo e stabile ordine mondiale. Ma qualsivoglia lieto fine presuppone che si trovi il modo per sopravvivere alla imminente Grande Depressione”. Auguri.
di Bruno Soro
- Cfr. F. Gallo, Crisi del 1929: storia e caratteristiche della Grande Depressione, https://www.studenti.it/crisi-1929-storia-caratteristiche-grande-depressione.html. ↑
- R. Lucas, Macroeconomic Priorities, «The American Economic Review», March 2003, p. 1. ↑
- P. Krugman, La disfatta degli economisti, la Repubblica, 16 settembre 2014. ↑
- Pubblicata su il Manifesto il 14 novembre 1979, l’intervista di Valentino Parlato a Federico Caffè, è stata recentemente riproposta da quello stesso quotidiano il 5 maggio scorso. ↑
- H. Minsky (1975), John Maynard Keynes, Columbia University Press, New York, tradotto nell’edizione italiana con il titolo Keynes e l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, Torino 1981. ↑
- H. Minsky (1982), Can It Happen Again?: Essays on Instability and Finance, M.E. Sharpe, Armonk, ripubblicato nella collanna Routledge Classics nel 2016. ↑
- P. Sylos Labini, “Le prospettive dell’economia mondiale”, Il Ponte (maggio 2002), ripubblicata su Moneta e Credito, vol. 62, 2009, pagine 61-89. ↑
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Nato a Istanbul nel 1958, si legge su Wikipedia, Nouriel Roubini si è laureato con lode in Economia all’Università Bocconi di Milano nel 1982 ed ha ottenuto il dottorato in Economia internazionale presso l’Harvard University avendo avuto come relatore l’autorevole economista Jeffrey Sachs. Per inciso, già consulente del Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, Nuoriel Rubini è noto per aver previsto, tra lo scetticismo del Fondo Monetario Internazionale (FMI), la crisi finanziaria statunitense del 2007. ↑
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