“Quando gli operai volevano studiare il clavicembalo”

Pubblichiamo la prefazione di Pietro Causarano al bel libro di Monica Dati sull'esperienza delle 150 ore: "Quando gli operai volevano studiare il clavicembalo".

L’esperienza delle 150 ore nell’Italia degli anni ’70 come movimento auto–educativo di massa

Noi siamo rispettosi della cultura, entriamo in punta di piedi ma abbiamo le scarpe antinfortunistichee un po’ di rumore lo facciamo.
Angelo Zorzoli (consiglio di fabbrica della Necchi e responsabile corsi monografici), dal documentario 150 ore a Pavia

La definizione di movimento auto–educativo di massa a proposito della vicenda delle 150 ore è figlia di due distinte riflessioni: una di un pedagogista attento e sensibile come Filippo Maria De Sanctis, protagonista della svolta nell’educazione degli adulti e nell’avvio delle moderne esperienze di lifelong learning nell’Italia degli anni ’70[1]: l’altra di un attore di primo piano della lotta sindacale, un dirigente di grande cultura e intuizione prospettica come Bruno Trentin, il quale più volte anche successivamente, ripensando a quegli anni, tornerà sul tema centrale della formazione dei lavoratori adulti, un processo culturale e civile prima ancora che professionale, e sulla sua dimensione non meramente strumentale, collettiva e non solo individuale, capace di attivare risorse solidaristiche e di potenziare soggettività[2].

Fu un’utopia? Sicuramente, ma produttiva di risultati molto concreti già allora e foriera di prospettive e di aperture successive, sia sul piano delle sperimentazioni didattiche e di nuove formule e metodologie nell’apprendimento sia sul piano effettivo di un’acculturazione rapida e diffusa di cui i primi beneficiari, significativamente, furono proprio le organizzazioni sindacali e le rappresentanze dei lavoratori in termini di capacità partecipativa e riflessiva.

Come mostra questo libro di Monica Dati, che riprende una serie di studi sparsi e dall’andamento carsico che hanno affrontato il tema negli ultimi anni, le 150 ore però non furono un fenomeno pedagogico di nicchia né investirono solo rade avanguardie sindacalizzate. Fra gli anni ’70 e ’80 centinaia di migliaia di lavoratori adulti, soprattutto manuali e esecutivi, ebbero modo di recuperare l’obbligo scolastico acquisendo la licenza media inferiore. Per la prima volta le donne furono protagoniste di un’esperienza collettiva che consentì loro di definire la specificità e individualità della loro condizione di lavoro e di vita. Le 150 ore furono un radicale sommovimento — non solo urbano — rispetto all’accesso popolare alla cultura e all’istruzione, alla conoscenza e all’acquisizione del linguaggio e degli strumenti della comunicazione, che non a caso coinvolse intellettuali di varia estrazione, favorì iniziative editoriali, permise ai giovani laureati ma anche agli studenti — prima conseguenza della scolarizzazione di massa — di mettersi in gioco secondo prospettive inconsuete che poi riportarono nella scuola ordinaria o all’università (non a caso una parte di questo libro è proprio dedicata al profilo dei docenti delle 150 ore).

Sicuramente questo istituto contrattuale — ed è stato un limite che non si sia evoluto in qualcosa di più cogente e meno condizionato dalle circostanze — è legato ad un decennio irripetibile che cambiò definitivamente il volto della società italiana, facendo lievitare un bisogno di riconoscimento e identificazione collettiva attraverso una valorizzazione dell’individuo come persona formata nel legame sociale[3]. Le contraddizioni di questa trasformazione sarebbero emerse successivamente e avrebbero investito proprio la formazione adulta, facendola diventare un’altra cosa da quella che provò ad essere allora: dopo, dagli anni ’80 e ’90 in poi, è venuta meno «l’idea di una formazione indipendente dagli scopi immediatamente professionali […], l’idea insomma che il tempo dello studio possa avere valore sociale», della sua gratuità, che imparare a suonare il clavicembalo sia importante per l’operaio (come mostrava la copertina di un famoso numero congiunto delle riviste «Inchiesta e Fabbrica e Stato» nel 1973), che abbia un significato politico e sociale, che non sia solo «un affare del tutto privato, socialmente (e quindi politicamente) irrilevante»[4].

Non dimenticare queste dimensioni, ridare vita a emozioni, pensieri, azioni, significati che si mobilitarono attorno a questa esperienza e che furono espressione di persone che trovarono finalmente la possibilità di vedersi riconosciuta un’individualità compressa e oppressa, che trovarono la voce per poterla rappresentare nella protezione del collettivo, è il primo pregio di questo libro. Nella prima parte il volume è anche una ricca sintesi di quanto è emerso nella letteratura e di quanto sbalza fuori dalla ricca documentazione archivistica, multimediale, a stampa che fiorì attorno alle 150 ore.

Monica Dati, in questo libro che è il risultato di un approfondimento per un lavoro che ha costituito la sua tesi di laurea magistrale, si sofferma su due elementi fondamentali. L’innovazione didattica e relazionale resa necessaria dal rapporto con adulti lavoratori e nello stesso tempo dalla ricostruzione dell’autostima in soggetti che dalla scuola (e non solo dalle circostanze) si erano sentiti respinti. La cosa è assai evidente nel caso delle donne e, ancor di più, quando la componente femminile, già alla fine degli anni ’70, sarà costituita non solo da lavoratrici dell’industria o dei servizi ma anche da casalinghe, disoccupate e da quell’universo femminile precario della sotto – occupazione, del lavoro nero intermittente e a domicilio che costituiva anche allora un diaframma tale da nascondere la vera condizione lavorativa della donna[5]. C’è anche un altro elemento che però si tende a sottovalutare, più squisitamente sindacale, che l’autrice richiama nel primo capitolo: l’acculturazione generale proposta dalle 150 ore è speculare alla creazione di vere e proprie competenze trasversali, come diremmo noi oggi, di cui il compimento dell’istruzione di base (ma anche nei corsi sperimentali della scuola secondaria superiore e nei seminari universitari) era prerequisito e che avrebbe permesso di agganciare stabilmente la formazione individuale con la programmazione nei termini di educazione permanente, le trasformazioni organizzative delle imprese e la valorizzazione del soggetto al lavoro (flessibilità, polivalenza, il nascente tema della professionalità).

Il lascito maggiore delle 150 ore resta forse sul primo versante, quello sperimentale dell’innovazione didattica che avrà conseguenze nella scuola — grazie anche alle biografie personali dei docenti dei corsi 150 ore transitati poi nel sistema educativo ordinario — e sul piano di nuovi strumenti di comunicazione e di ricerca, come l’uso ad esempio delle autobiografie e delle storie di vita che costituiscono una preziosa fonte del libro di Monica Dati[6]. Il secondo lascito è molto più flebile da rintracciare o meglio è stato reinterpretato nel passaggio di secolo in altro modo rispetto ad un modello che puntava ad umanizzare le strutture organizzative e le condizioni lavorative anche attraverso la formazione, sostenendo un’autonomia del soggetto che permettesse di valorizzarlo anche sul lavoro: ma era un’idea tutta interna all’industrialismo novecentesco e alla sua cultura che proprio gli anni ’70 e ’80 sarebbero entrati irrimediabilmente in crisi, avrebbero cambiato pelle, si sarebbero profondamente trasformati, facendo declinare quella dimensione collettiva di adesione ai percorsi di formazione e rinviandola di nuovo all’individualismo[7].

C’è un altro elemento di originalità in questo libro, nella sua parte finale: fare propria nella ricerca una caratteristica dell’esperienza delle 150 ore, la sua fisionomia molecolare e diffusa a livello territoriale, non come vincolo di frammentazione ma come opportunità di indagine. Il territorio non come luogo indifferenziato su cui si appoggiano proposte e azioni che circolano ad un altro livello (come propone una delle classiche letture delle vicende del 1968–’69, quasi che solo alcuni centri principali avessero mobilitato, mobilitandosi, una società informe e quasi in attesa); ma invece il territorio come contesto spaziale socialmente costruito di espressione di queste azioni, di una società insediata e radicata in quei luoghi con tutti i conflitti e le contraddizioni che le sono proprie e che sono propri a tutti i luoghi. Quindi l’ultimo capitolo, dedicato alla Toscana e in particolare alla lucchesia, mostra una periferia che si sente e si fa centro, almeno per sé stessa, recependo, reinterpretando e adattando quanto altre situazioni vengono producendo e le istituzioni intermedie della società vanno sostenendo e diffondendo. E per la Toscana, come per le altre regioni “rosse” della Terza Italia che anche su questo si costruirà[8], non si tratta solo dei sindacati ma anche del sistema delle autonomie locali, potenziato e innovato dalla contemporanea regionalizzazione[9].

Pietro Causarano

  1. F.M. De Sanctis, L’educazione degli adulti in Italia. Dal “diritto di adunarsi” alle “150 ore”, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 320–325.
  2. Cfr. la sua lectio doctoralis all’università di Venezia Ca’ Foscari nel 2004 (ora nel volume curato da A. Casellato, «Lavoro e conoscenza» dieci anni dopo, Venezia–Firenze, Edizioni Ca’ Foscari–Firenze U.P., 2014). Ma già il tema affiorava in Bruno Trentin, Autunno caldo, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 75.
  3. M. Tolomelli, Azione collettiva e movimenti per i diritti di cittadinanza, in F. Balestracci, C. Papa (a cura di), L’Italia degli anni Settanta. Narrazioni e interpretazioni a confronto, Soveria Mannelli (CZ), Rubettino 2019, pp 87–102.
  4. P. Causarano, G. Zazzara, Le 150 ore del Veneto, in «Venetica», 2015, n. 31, p. 11 (fasc. monogr. La scuola delle 150 ore in Veneto).
  5. A. Pescarolo, Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea, Roma, Viella 2019; E. Betti, Precari e precarie: una storia dell’Italia repubblicana, Carocci, Roma 2019.
  6. D. Demetrio, 150 ore e diritto d’alfabeto. Alfabetizzazione degli adulti e realtà operaia, Guaraldi, Rimini–Firenze, 1977. La storia orale dei subalterni e dei senza voce, cui l’Italia ha dato un contributo pionieristico significativo proprio dagli anni ’80, ha un legame con le esperienze di intervista collettiva e di scrittura autobiografica sperimentate nei corsi delle 150 ore; B. Bonomo, Voci della memoria. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica, Carocci, Roma 2015.
  7. G. Berta, L’Italia delle fabbriche. Genealogie ed esperienze dell’industrialismo nel Novecento, il Mulino, Bologna 2001, pp. 258–268.
  8. F. Bartolini, La Terza Italia. Reinventare la nazione alla fine del Novecento, Carocci, Roma 2015.
  9. D. Ragazzini, M.G. Boeri, P. Causarano, Rimuovere gli ostacoli. Politiche educative e culturali degli Enti locali dopo la regionalizzazione, Giunti, Firenze 1999, pp. 66–68.

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