Guerre e Stati nel mondo d’oggi

Viviamo in tempi che possiamo ben dire “tristi”, sia come plurale di triste che di tristo.

Non ci sono mai “i buoni” da una parte e i “cattivi” dall’altra, come nei romanzetti d’appendice o nei giornalini a fumetti (come Tex contro Mefisto), ma ci sono i “più responsabili”, o se si vuole “irresponsabili”, da colpire a dovere. Nella guerra russo-ucraina, la Russia è l’aggressore, nazionalista, imperialista e pure sanguinario, e talora omicida; ma l’Ucraina era stata per secoli Russia, e l’idea di circondare la Russia, certo per volontà di ex popoli oppressi dalla Russia stessa, di Stati aderenti all’alleanza militare euro-americana della NATO (invece che neutrali), per il nazionalismo russo, ma pure semplicemente per lo Stato russo rinascente come grande potenza qual è stato da parecchi secoli, era inaccettabile. Tuttavia la via dell’invasione di Stati sovrani per risolvere i problemi territoriali, è sempre pessima. Sono cose che portano sempre male, come capitò quando l’Iraq di Saddàm Hussein nel 1991 invase il Kuwait, e poi Saddàm finì come finì, barbaramente impiccato nel dicembre 2006.

Per altra via la Russia avrebbe potuto, con trattative e pressioni, e aspettando il momento ad essa più favorevole – internazionalmente, come in Ucraina – ottenere “parecchio” (come diceva inascoltato un grande statista liberale italiano, Giovanni Giolitti, nel 1914, cercando invano di convincere i nostri connazionali a non entrare nella devastante Prima guerra mondiale).

La guerra russo-ucraina ha già mietuto duecentomila morti, e forse ne mieterà almeno altri centomila prima di finire. Non si può accettare senza far niente. Non me ne importa niente che i “veri riformisti”, dentro e fuori del Partito Democratico – con cui concordo totalmente su premierato e doppio turno – siano filoucraini, sino alla morte. Io una sinistra meno attiva del papa nel cercare la pace, in qualunque scenario mondiale, non la comprendo.

Il grande conflitto russo-ucraino è segnato pure dalla vicenda tragica di Vladimir Putin. Su ciò lasciate fare a un vecchio junghiano come me anche un po’ di psicopolitica. Putin vuole riportare la Russia allo stato di grande potenza mondiale che aveva avuto per secoli, non già invadendo tutto l’impero ex sovietico, ma tutto il territorio che era stato dell’ex URSS in quanto Stato di Stati, dal più al meno (salvo alcune propaggini tipo Lituania o Estonia, che aveva annesso solo come vincitrice della Seconda guerra mondiale). A parte una parentesi storica impersonata da Medvedev al suo posto, Putin è al potere da oltre vent’anni e vorrebbe concludere in bellezza realizzando quest’arduo compito. Si tratta di un disegno strategico non dappoco, basato però su ambizioni che difficilmente potrà realizzare, anche se non è impossibile. Egli sembra incarnare la classica figura del “Duce” che si sente grande, e anzi grandissimo, e oltre a tutto gravato di un compito storico immane dal “Cielo”, senza però essere all’altezza del proprio disegno, o comunque dotato di forze e occasioni per realizzarlo. Lo scopo è molto arduo, e scommesse del genere sono sempre ad altissimo rischio.

Ma se sei un condottiero e capo storico epocale devi avere non solo di fronte a te stesso, ma di fronte a immense masse del tuo popolo, un carisma vero e un fiuto politico sicuro. Dopo oltre vent’anni di prepotere o potere, può essere che tanto il carisma quanto il “fiuto” si siano molto ridotti. Mentre sembrano cresciuti i tratti di nevrosi spinta. E per quanto uno possa essere in gamba come primo timoniere di un grande Stato, non può essere nevrotico e ossessionato mentre è al potere; o almeno deve dimostrare di avere la capacità di tenere sotto controllo i suoi complessi, le sue fobie, la sua volontà di potenza, i tuoi tratti di paranoia: in una parola le sue ossessioni. Questo è facile a dirsi, ma non a farsi, sia perché la politica marcia sulle gambe degli uomini, che hanno sempre i loro problemi – salvo che nei libri di storia per bambini – e sia perché ogni regime politico ha il suo rovescio della medaglia.

Nei regimi autoritari il “rovescio” è l’inadeguatezza e inaffidabilità dell’élite del potere del “Capo”. Così si è visto che invadendo l’Ucraina, Putin credeva di fare una passeggiata militare di giorni o settimane, perché nessuno dei suoi era riuscito a trovare il coraggio di dirgli chiaramente che da anni l’Occidente aveva addestrato e militarizzato gli ucraini, che perciò gli avrebbero dato del filo da torcere (e se non l’avevano saputo è ancora più grave). A me Putin ricorda moltissimo Mussolini, fatte naturalmente le debite differenze tra un italiano sanguigno cresciuto nelle aie della “Romagna solatia” e un pietroburghese malinconico, cresciuto nelle strade e stradine del Raskolnikov di Delitto e castigo (1866) di Dostoevskij, che nel 1997 io visitai, soffermandomi a lungo nella casa dello scrittore, ma anche presso la scrivania del palazzo della ballerina Krescinskaia, sede del partito bolscevico, in cui Lenin nell’aprile 1917 aveva pronunciato le sue famose Tesi in cui proponeva “tutto il potere ai soviet degli operai, dei contadini e dei soldati”.

Putin mi ricorda comunque anche Mussolini. Pure “il Duce” non coglieva lo scarto tra ambizioni e forze che aveva. Ricordate il “Noi spezzeremo le reni alla Grecia?” di Mussolini tra 1940 e 1941? Ora l’Ucraina è la “Grecia” di Putin (e senza un Hitler che possa cavare le sue castagne dal fuoco come fece il dittatore tedesco per impedire la più vergognosa sconfitta del dittatore italiano, entrato palesemente con ridicola preparazione militare nella guerra più devastante della storia scommettendo sulla sua rapida fine; qui i cinesi hanno sì sostenuto e sostengono Putin, ma senza volersi bruciare le dita in una partita che poteva avere tremende conseguenze).

Putin aveva evidentemente fatto i conti senza l’oste, e prigioniero dei demoni che aveva tirato fuori dal baule, come l’apprendista stregone della favola (e di Fantasy di Disney), non ha più potuto ricacciarveli. O meglio, forse ci riuscirà, ma con grandi difficoltà, e non in modo certo.

L’ex ebreo tedesco emigrato in America nel 1938 e poi diventato il sottilissimo ex segretario di Stato di Nixon e Ford, Henry Kissinger, prima di morire a cent’anni, pochi mesi fa, ha detto che Putin non andava paragonato a Hitler, come spesso gli statisti dei paesi già “liberati” dai sovietici facevano, ma ai personaggi di Dostoevskij. Lì era la chiave. Certo pensava a Raskolnikov di Delitto e castigo, che sognando di diventare come Napoleone aveva assassinato una strozzina, o all’Ivan ispiratore di parricidio dei Fratelli Karamazov (1880), e più di tutto ai Demoni (1872). Come sempre il vecchio Henry – quale sia il giudizio su talune pagine fosche della storia specie latino americana cui certo contribuì – vedeva lontano. Anche la solitudine di Putin fa pensare a uno dei tragici eroi intimamente inquieti mentre lottano per i loro sogni e incubi nella vita. Pure l’ossessione per un grande avversario come Aleksej Navalny, prima sottoposto a tentato avvelenamento e da anni sepolto in un lontano carcere duro in Siberia, sentito più o meno come Stalin sentiva Trockij, fatto esiliare nel 1927 e che poi riuscì a far assassinare, dopo vari tentativi, in Messico, il 21 agosto 1940, a picconate in testa, da un sicario infiltratosi tra i suoi seguaci, fa pensare. La morte di Navalny del 16 febbraio 2024, in una remota prigione siberiana, ha più di una somiglianza con quella di Trockij. Aleksej Anatolevic Navalny era anche lui sorto nell’humus del signore del Cremlino (in tal caso in un humus nazionalista grande russo, e non bolscevico come quello di Stalin e Trockij); e alla fine è morto, come Trockij, dopo che il dittatore per anni ne aveva temuto il ritorno o l’avvento al potere al suo posto in un’eventuale ora tragica per il Paese.

Se però c’è stato, qui, assassinio, ciò proverebbe forse la prevalenza delle ragioni dell’ossessione su quelle della politica, prima delle elezioni in Russia (per quanto addomesticate) e col mondo in subbuglio (con grossi problemi per “gli altri”), come in Medio Oriente. Ma con le ossessioni si ragiona poco, o spesso non si ragiona affatto; e con esse, anzi, si fa il male ad altri, ma pure a sé stessi.

Ciò posto dobbiamo pure prendere atto del fatto che la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina prosegue in modo devastante. Ha già fatto – questa volta in Europa, o alle sue porte – oltre duecentomila morti senza che almeno qualcuno dei “nostri”, amici degli ucraini, dica: “Si apra un negoziato senza condizioni, in cui la Russia non pretenda di tenere o prendere tutto il territorio occupato, e l’Ucraina di conservarlo tutto. Cominciamo a sospendere le ostilità e a trattare senza condizioni”, magari decretando una lunga tregua a termine per trattare. Piaccia o meno a questo o quel contendente, noi europei, e noi italiani, dovremmo apertamente proporre proprio questo. Dovremmo certo seguitare a sostenere l’Ucraina aggredita, ma chiedendo apertamente e con forza, anche con risoluzioni proposte nel – e possibilmente dal – parlamento italiano ed europeo, che l’Ucraina cominci a fare qualche proposta minimamente realistica di pace, oppure ad aprirsi ad una trattativa senza condizioni. Anche nella storia, come nella natura secondo il Barry Commoner del Cerchio da chiudere (1971), “non si forniscono pasti gratis”. Quando sembra che si forniscano “pasti gratis”, c’è qualcuno che racconta frottole e qualcuno che se le beve. Purtroppo sulla pelle di tanta povera gente (e in tali caso “pelle” in senso stretto).

Probabilmente sull’Ucraina si tratterà dopo le elezioni americane. È una cosa tristissima che la vita di immense folle di innocenti dipenda anche dalle elezioni in America.

Se vince Trump prevarrà una tendenza che ha precedenti forti nella storia americana, chiamata “isolazionismo”, e che oggi si chiama in tutto il mondo “sovranismo”. Ma è un sovranismo che – salvo talune grandi e pericolose eccezioni come la Russia di Putin – non consiste più nel vecchio approccio basato sulla politica di potenza degli Stati, ciascuno aspirante alla massima potenza economica, politica e soprattutto militare nella propria area, nel proprio continente e nel mondo intero: “vecchio sovranismo” teorizzato profondamente, e con assenso, come un che di “naturale” per gli Stati, da Heinrich von Treitschke intorno al 1918 nella vasta opera, edita allora anche in Italia, La politica, e discusso a fondo da Friedrich Meinecke e altri, sempre più criticamente, prima e soprattutto dopo le grandi disfatte tedesche del Novecento (in: Cosmopolitismo e Stato nazionale, del 1908, e in La catastrofe della Germania, del 1946). Quel “vecchio sovranismo” caratteristico della politica mondiale specie dalla guerra franco-prussiana del 1870 al 1945, fu segnato da due guerre mondiali spaventose, dopo le quali sembrò impresentabile (anche se senza teorizzazione formale, restò sempre più o meno sotterraneamente operante).

Il “sovranismo d’oggi” è invece un sovranismo soprattutto a preteso beneficio interno, che consiste nel tentativo di ogni Stato nazionale che si creda “sovrano” di chiudersi a riccio, in nome della propria sovranità, facendo quasi esclusivamente i fatti propri, cercando di non farsi condizionare più dello strettamente indispensabile né da poteri sovranazionali (tipo Unione Europea nei Paesi europei, o Nazioni Unite ovunque) né, soprattutto, dall’immensa massa degli immigrati che vogliano entrare “in casa”: in America dall’America Latina, dal Messico; e nei nostri Paesi specialmente dall’Africa: immigrati che ogni sovranismo vorrebbe – “per forza”, e anche con la forza – tenere fuori dalla porta del proprio Paese. A quanto pare molti in Israele provano a fare così anche con i palestinesi, stranieri nativi, visti dai “coloni” e dal governo che li protegge pervicacemente, come i “sioux” e altri indiani dagli americani del XIX secolo.

Ma in questo contesto mondiale taluni sovranismi basati su istituzioni interne autoritarie da secoli – sotto l’aquila imperiale o il dragone imperiale, con o senza la bandiera rossa, come la Russia di Putin o la stessa Cina di Xi Jinping – possono tornare a praticare, oltre al sovranismo per così dire interno, pure il vecchio sovranismo imperialista, aggressivo, a scapito di Stati vicini che ritengano parte integrante o del proprio Paese, o della propria area d’influenza, o del proprio “spazio vitale”. Così la Russia nel febbraio 2022 ha scatenato una guerra per riprendersi l’Ucraina, da cui nacque il suo Stato, o almeno per avere a Kiev un governo amico (vassallo), com’era stato sino al 2014, e per annettere talune zone russofone di confine. E la Repubblica cinese vorrebbe, come “ab ovo”, prendersi Formosa (Taiwan); e del resto ha agito così da una vita con piccoli antichi, e spiritualmente ricchissimi, paesi come il Tibet, o come i territori abitati da minoranze interne musulmane, in quest’ultimo caso direi in stato di necessità. Ma la Cina ha una visione di lunghissimo periodo della politica del proprio Stato, essendo potenza imperiale da cinque millenni, nonostante le fasi di declino. Nel 1971 ha ottenuto, al tempo di Nixon e Mao, e Kissinger e Chou En Lai, il riconoscimento dell’unicità della Cina (sua). Farà il passo per realizzare il fine dell’unità, che essa ritiene imprescindibile, annettendosi Taiwan, solo quando gli Stati Uniti non saranno in condizione di opporsi o lo accetteranno, magari sotto banco, e ufficialmente persino protestando blandamente.

Intanto da mesi abbiamo anche un vero orrore alle porte di casa, in Medio Oriente, a Gaza e dintorni. I terroristi di Hamas il 7 ottobre 2023 hanno fatto un’infame e spaventosa strage di circa duemila israeliani innocentissimi. Israele è passato al contrattacco, deciso a chiudere i conti con Hamas una volta per tutte, ma provocando una guerra senza quartiere che ha già portato al massacro di trentamila palestinesi, tra cui migliaia e migliaia di donne e bambini. A quanto pare il governo di Israele di Netanyahu ha deciso di togliere ogni possibilità di attentati gravi nel suo Stato e a danno della sicurezza dei suoi cittadini seguendo il vecchio criterio delle lotte contro il terrorismo: togliere l’acqua ai pesci pirana terroristi, che, senza una rete di protezione contigua ai combattenti veri e propri (“l’acqua”), non possono agire con un minimo di efficacia e di probabilità di successo. In genere “l’acqua” dei terroristi è una rete di attivisti o simpatizzanti più vasta, ma limitata; ma a Gaza e in Cisgiordania “l’acqua”, per il governo israeliano, è la grande maggioranza del popolo palestinese, con conseguenze inaccettabili e devastanti sotto gli occhi di tutti.

Questa politica di Israele, che comporta terribili massacri di palestinesi, non è accettabile nemmeno per l’alleata America. Ingenera non solo accuse di massacro da parte dei palestinesi, che sono ovvie, ma di genocidio (anche se una tale definizione sarebbe da evitare in quanto comporta una grave confusione con il progetto nazista volto a cancellare gli ebrei dalla faccia della terra): comunque se ne discute nel Tribunale internazionale dell’Aja o ai vertici dell’ONU. E ciò rafforza tendenze orrendamente antisemite, in un mondo musulmano che è un quarto del genere umano. Queste tendenze antisemite purtroppo riprendono forza, per ora limitatamente, anche a Occidente, vuoi per la forte presenza di minoranze musulmane interne ormai tra i cittadini stessi, e vuoi per orrore dei massacri dei palestinesi, anche a Occidente: massacri che non diffondono certo simpatia per gli “ebrei” (anche se moltissimi ebrei del mondo sono contrari alla politica bellicista ed espansionista del governo di Israele). Mentre un po’ di pace innescherebbe processi opposti, già iniziati tra diversi paesi musulmani e Israele prima del massacro di israeliani innocenti del 7 ottobre.

Comunque la prassi stragista da parte di Israele, seppure innescata da un’orrenda strage di Hamas, non è accettabile neppure da parte dell’alleato americano. Anche perché il rischio di coinvolgere nella guerra l’Iran, innescando una terza guerra mondiale o qualcosa del genere, non è da poco, ed è continuo. Israele opera evidentemente con rischio calcolato, ritenendo che nessuno vorrà “morire per i palestinesi”, come nel ’39 si pensava, ad esempio da parte di molti francesi, che nessuno avrebbe voluto “morire per Danzica”. Forse pure Putin aveva pensato che nessuno avrebbe voluto – se non proprio morire – rovinarsi economicamente per Kiev. Ma proprio la storia mostra che questo scherzare col fuoco è un gioco molto pericoloso. Quasi sempre nelle grandi guerre, infatti, si slitta (per una specie di reazione a catena).

Le vere grandi potenze e i grandi Stati lo sanno. Per ora è vero che i paesi arabi moderati, e persino l’Iran, non vogliono affatto morire per i palestinesi. Lo sanno i palestinesi come Israele. Ma i quotidiani episodi fuor di controllo potrebbero sfuggire di mano e scatenare l’inferno. E infatti gli americani da molte settimane cercano di persuadere Israele a non attaccare di continuo Hamas senza curarsi del fatto che i continui attacchi e bombardamenti che vengono motivati da ragioni di strategia antiterrorista comportano il massacro della popolazione civile palestinese, compreso un numero terribile di donne e bambini. Gli Stati Uniti e i loro alleati vorrebbero indurre Israele a trattare garantendo la nascita di uno Stato palestinese. Il governo di Israele rifiuta, ritenendo che ciò farebbe il gioco di Hamas. Forse una ripresa della prospettiva dei due Stati contigui e in pace – l’uno ebraico e l’altro palestinese – potrà darsi solo con la caduta del governo “nazionalista di destra” di Benjamin Netanyahu, molto contestato da frazioni importanti del popolo di Israele. Tuttavia sembra che la grande maggioranza del popolo di Israele, traumatizzata dalla grande strage degli innocenti del 7 ottobre, sostenga la causa di guerra del governo, il cui leader, che era quasi fallito, proprio guerreggiando così riprende quota.

Ma perché il piccolo Israele può dire di no alle continue pressioni del suo maggior alleato al mondo, gli Stati Uniti?

Qui emerge un altro fattore importantissimo di preoccupazione: la crisi della grande potenza americana. Come il crollo del comunismo nel mondo dell’uomo bianco del 1989-1991 non fece bene alla socialdemocrazia mondiale, che si sarebbe potuta ritenere vincitrice nei confronti del comunismo di stato, ma segnò invece la lenta crisi dello statalismo di sinistra anche democratico, così il crollo dell’URSS non equivalse al trionfo degli Stati Uniti. Ci fu sì, “a caldo”, un importante politologo, Francis Fukuyama, in La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), che l’affermò, ma mai previsione fu più errata; e poi fu ammesso pure da lui. Invece fu l’inizio pure della crisi dell’impero americano, che oggi sembra essere terribilmente manifesta. Lemme lemme stiamo assistendo a un fenomeno storico grandioso come il crollo dell’URSS del 1991: la crisi della superpotenza americana, di cui, inascoltato, lo statista italiano Francesco Saverio Nitti nel primo dopoguerra aveva segnalato – non creduto né dai bolscevichi da Lenin a Stalin né dai nazifascisti come Hitler – il primato nel mondo (come in: La decadenza dell’Europa, del 1922, e in La tragedia dell’Europa. Che farà l’America?, del 1924).

Bene (anzi, male). Ora si è visto che tra le due superpotenze emerse dalla seconda guerra mondiale, URSS e USA – di cui la seconda era certo la più forte in tutto – vigeva il principio del “Simul stant et simul cadent” (“insieme stanno e insieme cadranno”). Gli Stati Uniti, che avevano e hanno immensa potenza, non sono caduti, ma dal 1991 hanno subito tanti colpi, e oggi sono palesemente in grande crisi (anche se ovviamente come prima potenza, però democratica, e perciò “flessibile”, e sempre potentissima, non potranno cadere; ma potrebbero diventare “un’altra roba” rispetto al loro grande passato, che era sempre stato democratico nonostante tutto). E il mondo è sempre più instabile. La cosa è persino plasticamente visibile osservando che in vista delle elezioni presidenziali del novembre 2024 si confrontano due vecchietti più o meno balordi, come alla fine della gerontocrazia sovietica era la nomenklatura russa: il democratico ottantaduenne Biden e il repubblicano di destra settantasettenne Trump. Federico Rampini, sul “Corriere della sera”, pochi giorni fa diceva che molti in America parlano del grande scontro tra un imbecille e un delinquente.

Se vincerà Trump, come per ora pare (anche se non è scontato), avremo tre conseguenze di grande momento: I) Su scala mondiale in gran parte l’Europa militarmente dovrà difendersi e armarsi da sé, perché quell’America sarà impegnata soprattutto “in casa” e nel Pacifico (sul che Putin molto spera); II) l’Ucraina indipendente dalla Russia sarà finita, dovrà cedere definitivamente, alla Russia, la Crimea e una parte di confine russofona; III) la “democratura” – il mix tra democrazia e dittatura che sembra connotare la nuova destra mondiale (democrazia salva, ma con assetti basati sul primato molto forte del potere esecutivo non solo sul potere legislativo, ma persino sul potere giudiziario, e con una politica interna xenofoba, di totale chiusura agli immigrati), prevarrà internazionalmente. Trump potrebbe configurarsi storicamente come un fenomeno alla Franklin Delano Roosevelt alla rovescia. Roosevelt fu un keynesiano e democratizzatore senza precedenti, che cambiò persino la natura del federalismo americano qual era stata dal 1788 al 1931, facendolo diventare da federalismo territoriale, con competenze ben distinte tra governo federale e Stati membri autogovernantisi, un federalismo cooperativo tra governo nazionale e Stati membri, assai interventista in economia, e anche “in guerra”. Trump, insomma, potrebbe configurarsi come un “de-democratizzatore” di destra, deciso per quanto possibile a concentrare tutto sullo sviluppo interno e sul blocco a ogni immigrazione, facendo nascere un repubblicanesimo da “Fratelli d’America”. Certo gli Stati Uniti non crollerebbero, ma “quegli Stati Uniti” conosciuti dal 1932 al 2024, da Roosevelt a Biden (nonostante il variare dei governi), muterebbero profondamente l’identità. Gli Stati Uniti non crollerebbero come l’URSS, ma risulterebbero un’altra roba: una “democratura”, che in tal caso si realizzerebbe non già in Ungheria o Polonia, o in Turchia, ma nel Paese chiave del mondo.

Ora in teoria la soluzione “razionale” e “ragionevole”, per noi europei, ci sarebbe. Di fronte a uno scenario del genere l’Unione Europea potrebbe avere un ruolo immenso. Anche d’interposizione tra russi (e cinesi) da una parte, e americani dall’altra. Dovrebbe sostenere l’Ucraina contro la Russia, ma dialogando molto attivamente anche con la Russia, come Unione interessata alla pace. Non credo neanche che servano “inique sanzioni” contro la Russia. Quello che mi auguro è la ripresa del ruolo che i migliori statisti democratici dell’Europa continentale – in specie francesi, tedeschi e italiani – avevano sempre cercato di esercitare al tempo della guerra fredda tra Russia e America e verso il Medio Oriente, e che invece non era e non è mai stato gradito né ai governanti inglesi né a quelli americani, che non hanno sempre gli stessi interessi e la stessa apertura dei buoni europei. Come dimenticare in materia De Gaulle? Come dimenticare Willy Brandt, ma pure Angela Merkel? Come dimenticare Enrico Mattei e Fanfani, ma persino Andreotti, Craxi e talora pure Berlusconi?

Ora, però, ciò può avvenire solo tramite l’Unione Europea. O sarebbe comunque meglio che lo facesse innanzitutto l’Unione Europea. Insomma, bisognerebbe fare un grande sforzo di interposizione tra i contendenti.

Ma perché ciò accada l’Unione Europea dovrebbe fare in politica estera un passo importante come lo fu l’introduzione della moneta unica con Banca Centrale Europea comune (evento di portata immensa, che ha impedito “sino ad oggi” al secondo Paese più indebitato del mondo, il nostro, di fare la fine dell’Argentina, e gli ha consentito di ricevere, con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, già 102 dei 194 miliardi di euro richiesti, da restituire in cinquant’anni: una roba superiore al Piano Marshall; e se poi moltiplichiamo per 2000 vecchie lire i 194 miliardi di euro avremo l’idea del carattere colossale della faccenda (400.000 miliardi di vecchie lire).

Ora, però, l’UE dovrebbe fare appunto un altro passo della stessa portata di quello compiuto sul terreno dell’unificazione monetaria; e ciò addirittura se l’Unione Europea vuole evitare di abortire nel nuovo scenario mondiale, rischiando persino di disgregarsi, in tal caso fatalmente soppiantata dai vecchi Stati-potenza, con tutti i rischi annessi e connessi. Dovrebbe darsi un esercito sovranazionale e un ministro degli esteri comune, smettendo di avere una politica estera francese, tedesca e così via. Se non lo fa riprenderà su larga scala, e non solo in modo strisciante, la lotta tra Stati-potenza teorizzata da Treitsckhe.

C’è però una terza possibilità, da greci della decadenza del mondo antico: una progressiva decadenza dell’Europa con tutti i suoi Stati, in un mondo in cui i paesi chiave sono ormai altri. Può darsi che accada, ma non riesco a credere che una potenza come la Germania alla fine potrà rassegnarsi a questa sorta di dolce estinzione o eutanasia. Tuttavia non si può escludere: paradossalmente “per fortuna” (perché una reazione “nazionale” sarebbe per noi, italiani ed europei, “il peggio”).

Ma l’Europa purtroppo non farà il passo indispensabile di cui si è detto (il darsi un esercito sovranazionale solo, e un solo ministro degli esteri, senza più politica estera dei singoli Stati): non solo perché stare sotto l’ombrello militare, e quindi politico-militare, americano, costa molto meno, ma anche perché l’idea che i grandi Stati, e pure un’Europa di ventisette Stati, possa avere una politica estera comune, cozza troppo con la tendenza degli Stati nazionali a non privarsi di poteri nazionali essenziali. Gli Stati Uniti ce l’hanno fatta, ma perché erano un paese immenso ricco, lontano dal continente europeo e poco popolato quando cominciò ad accadere, tanto che dati certi ci dicono che nel 1790 gli USA contavano quattro milioni di abitanti in tutto; e, soprattutto, perché passarono da uno “Stato di Stati” in dottrina, come nella Costituzione del 1787 e nelle straordinarie teorizzazioni del Federalist di Hamilton, Madison e Jay del 1788 (sempre da leggere e meditare, specie nei contributi di Madison), a un federalismo effettivo in senso hamiltoniano (“Stato di Stati”, e non mera confederazione, o Grande Alleanza, tra Stati), solo dopo la sanguinosissima guerra di secessione del 1861-1865, in cui perirono settecentomila persone su trentun milioni di abitanti.

Fanno benissimo i federalisti europei, dal Manifesto di Ventotene (1941) di Altiero Spinelli e altri ai giorni nostri, a voler rendere razionale il reale (volendo l’Europa come “Stato di Stati”, vera patria comune), ma purtroppo nel reale, negli Stati e tra gli Stati, troppo spesso il kràtos (il potere puro e nudo), prevale sull’éthos (il bene comune), cioè sul “razionale”. Il reale non è affatto razionale e quasi sempre i “grandi realisti” della storia si sono rotti le corna, purtroppo coi loro popoli, vedendo smentite previsioni che loro apparivano assolutamente logiche, mentre “l’errore” nella Storia vera, e forse in ogni vita, è sempre da mettere in conto.

Sia come sia, gli Stati non mollano poteri fondamentali se non “costretti” – peggio delle forze produttive dominanti, alias dei “padroni”, molto meno coriacei dei “padroni” degli Stati, anche ultrademocratici, nel mollare poteri “loro” – anche perché, per me, la vera chiave di volta è la Forma Stato: ogni Stato sul territorio suo e da esso dominato. E non perché lo Stato sia chissà quale “struttura della storia” (che per me non esiste), o addirittura dio in terra, autoritario e se possibile autoritario liberale, come in Hegel, dalla Fenomenologia dello spirito del 1807 a Lineamenti di filosofia del diritto del 1821, e oltre; infatti la società civile, cioè il mondo economico-sociale-culturale in cui tutti campiamo, conta sempre molto, ma molto di più del “suo” Stato, a mio parere, forse sotto ogni regime (a quel che opino compreso il cosiddetto o preteso totalitarismo), ma perché lo Stato è la forza normativa più grande nel suo territorio. Non è il padrone di tutto, ad esempio dell’economia, o della vita quotidiana delle persone (e quando accade sono immensi guai, e alla fine non dura, neanche in economia), ma perché lo Stato è quello che dà e impone le regole del gioco a tutti, individui e forze economiche e sociali. Poi la partita la fanno i giocatori, ma le regole – costituzione o leggi – le dà e impone lo Stato (e se non lo fa, sono guai grandi come case per tutti). Adam Smith, nella Ricchezza delle nazioni (1776) diceva che il mercato si autoregola come se fosse diretto da “una mano invisibile” (apoteosi del liberismo nascente, alias dell’economia di libera concorrenza più o meno allo stato puro); ma a mio parere il grande economista liberale liberista Smith non vedeva la vera mano invisibile (la “manina” segreta), che era proprio lo Stato, senza la cui normatività, bon gré mal gré, nessuna forza economica può realizzarsi o almeno farlo stabilmente. Magari la Compagnia delle Indie arrivò prima, ma poi arrivò lo Stato. Può però darsi che a furia di passettini pure l’Unione Europea diventi un vero Stato di Stati, ma ciò richiederebbe almeno una nuova pace come quella decretata dal congresso di Vienna del 1815 dopo Napoleone, o come quella dei Patti di Yalta del 1944 tra le potenze che stavano sconfiggendo il nazifascismo e che è entrata in crisi nel 1991 e oggi è in frantumi. Occorrerebbe almeno un duopolio mondiale tra Stati Uniti e Cina come quello che funzionò, nonostante conflitti fuori dall’Occidente, al tempo del duopolio USA e URSS: ma oggi è una cosa talmente contro la realtà da essere molto improbabile. Anche se qualora non vi fosse alcuna nuova grande guerra dentro le maggiori potenze europee, si potrebbe essere certi che entro alcuni decenni arriverebbe pure lo Stato di Stati, gli Stati Uniti d’Europa, sia che passino venti o trenta o cinquant’anni.

di Franco Livorsi

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