“Il Rosso e il Verde” e “Psiche e eternità”. Una postfazione (seconda parte)

II)

C’è stato un quinquennio della mia vita, tra la prima fanciullezza e la prima adolescenza, tra gli undici e i sedici anni, tra il 1952 e il 1957, in cui anch’io mi sono sentito un fervente cattolico, che si confessava e comunicava spesso, con mistica partecipazione al rito, e prendeva totalmente sul serio il “grande comandamento” di Gesù sull’amore per Dio, che è infinito amore, e per il prossimo – nemici compresi -come per sé stessi[1]. Ben presto, però, mi persuasi che per moltissimi quelle fossero “parole, parole e solo parole”, e che prenderle molto sul serio, mentre gli altri non lo facevano affatto, era assai disagevole. Imitare il Cristo, “l’agnello di Dio”, era forse una bella cosa, ma si poteva pure correre il rischio di inverare il proverbio più popolare, e ben poco cristiano (e, anzi, inconsapevolmente nietzscheano) dei siciliani, che dice che “chi pecora si fa, il lupo se lo mangia”. (Vi si potrebbe persino cogliere un residuo dell’antico paganesimo greco-siculo).

Lettore appassionato di libri sin dall’infanzia, abituato a pensare che quel che facciamo e quel che pensiamo e vogliamo siano un tutt’uno, cercai di spiegarmi la contraddizione tra atti e parole dei “veri cristiani” che conoscevo andando alla fonte dottrinaria, immergendomi totalmente nella lettura del Vangelo. Avevo sedici anni. Stavo allora in una piccola città del Veneto, in cui mio padre era arrivato come direttore provinciale dell’INAM (come dall’estate del 1961 sarebbe poi giunto in Alessandria: da oltre sessant’anni la città del mio e nostro personale destino, da cui mi sono allontanato per il mio lavoro di professore universitario per diversi anni, ma in cui sono poi tornato a stare, e che è certo oramai destinata a restare la mia città, e la città della mia famiglia d’origine, come di quella formata da me, “in saecula saeculorum”, quando la corsa della nostra vita sarà terminata, e uno ad uno raggiungeremo la tomba di famiglia nel sobborgo di Casalbagliano).

In quel 1957 lessi e rilessi attentamente tutto il Vangelo due volte da cima a fondo senza dir niente a nessuno, come se fosse stato un romanzo. Mi appassionò molto in più punti. Non erano pochi i momenti in cui traspariva una grande saggezza, un amore vero per tutti, una trasfigurazione mistica, e persino la gioia di vivere, e la vera volontà di unione tra umano e divino. Così era pur stata la vita di Cristo e dei suoi amici. Ma mi parve anche di vedere che persino il “Figlio di Dio”, e “Figlio dell’uomo”, in tanti momenti decisivi aveva dovuto amaramente subire il misconoscimento (dapprima pure in famiglia, dove all’inizio della sua missione dicevano che era “fuori di sé”, e tra i compaesani nazareni[2]), e l’incomprensione, l’ingratitudine, il tradimento, e infine la crocifissione da parte degli stessi connazionali e addirittura correligionari “ferventi”, mentre i suoi fedelissimi – quando lui se l’era vista veramente brutta essendo stato arrestato e condannato a morte – l’avevano rinnegato scappando a gambe levate da tutte le parti (pur tornando poi sulla buona strada). Perciò l’idea che ciascuno dovesse “prendere la sua croce” e seguire il Cristo mi parve un’assurdità. Di tanto in tanto quest’idea dell’ingiustificabilità della “croce” in me fa capolino, come un’eco di un tempo remoto. E ancora alcuni anni fa, chiacchierando amichevolmente con uno stimabilissimo sacerdote, e ancor di più grande educatore da poco scomparso, Giorgio Guala, che era venuto ad una riunione di Città Futura come di tanto in tanto allora faceva, su un episodio contenuto in un libro che tra l’altro io considero cristianamente bello quasi come il Vangelo (lo porrei subito dopo), e che inviterei ciascuno a leggere o rileggere integralmente, I fioretti di san Francesco, laddove si parla di San Francesco che spiega a frate Leone che sopportare ogni fraintendimento con santa pazienza è “perfetta letizia”, “e volentieri per l’amor di Cristo sostenere pene, ingiurie, obbrobri, disagi” perché significa “vincere se medesmo”, sicché “nella croce della tribolazione e della afflizione ci possiamo gloriare”[3], a me scappò detto, un po’ sul serio e un po’ celiando, ma ribadendo qualcosa che veniva da quella mia lontana adolescenza ribelle che ogni tanto in me fa capolino, che quello era “il lato masochistico del cristianesimo” (il sacrificio dell’innocente accolto non semplicemente come un brutto accidente, che a chi lotta può suo malgrado capitare, ma come suprema virtù o “cristificazione”). Giorgio Guala naturalmente mi contraddisse, ma a me venne bene citare proprio il libro che dai miei diciassette anni, per parecchio tempo, avevo contrapposto al Vangelo, il Così parlò Zarathustra di Nietzsche, laddove sin dalle prime pagine aveva detto: “Non è la pietà la croce cui viene inchiodato colui che amò gli uomini? Ma la mia pietà non è una crocifissione.” Quell’ottimo prete dal suo punto di vista aveva ragione perché quell’idea in fondo misconosceva il senso stesso della crocifissione. Io, però nella crocifissione dell’innocente, che l’accetta e anzi ritiene necessaria, avevo trovato sin dall’adolescenza una vera pietra d’inciampo.

Il cristiano vero però su ciò ha le sue ragioni, per me un po’ difficili da intendere: perché per il cristiano convinto dopo quella morte atroce del Cristo arriva la resurrezione, che svela Cristo, nella Pasqua, addirittura come il Logos, partecipe dell’unicità divina del Padre, cui è consustanziale. (Così come per il virtuoso perseguitato arriverebbe il paradiso). Ma questa resurrezione, che molti anni dopo l’adolescenza ho compreso essere la chiave di volta del cristianesimo, in quei miei sedici anni mi appariva non credibile: un “Arrivano i nostri” volto a dare un senso a un’atroce tragedia, che in concreto a me sembrava puramente e semplicemente l’assassinio dell’uomo “divino” che aveva più amato gli esseri umani (e mal gliene era incolto). In tale mio giudizio, o “pregiudizio”, pesava certamente – senza che io potessi ancora comprenderlo – una relativa, seppure mai assoluta, miscredenza dei miei avi. Mio padre citava sempre con favore il detto del suo nonno omonimo – un intraprendente Filippo contadino poeta e spiritista di un paesello della Sicilia di fine Ottocento e del primo Novecento – che diceva: “Miracoli e santità se ne credono sempre la metà della metà”, mentre il figlio di quel “saggio”, il mio nonno omonimo Francesco, aggiungeva: “E un piezzu”, come a dire che credere “la metà della metà” era pure troppo. Perciò per me la vera vita del buono assoluto, Gesù Cristo, era terminata in croce. E da ciò ricavavo una morale non certo cristiana.

Allora avevo infatti scoperto – naturalmente dapprima in modo adolescenziale, ma con totale e incredibile empatia per più di quattro anni – dal 1958 al 1961, tra i diciassette e i vent’anni almeno – appunto l’opera di Nietzsche.

In quel quadriennio sostenevo con forza l’idea che Dio fosse “morto”, inesistente e ormai scomparso nella coscienza contemporanea. Certo senza Dio – e senza la connessa idea del Bene e Vero in sé e per sé, senza quell’Amore infinito che tutti ama e che tutti dovrebbero amare amandosi l’un l’altro – l’uomo avrebbe pure potuto peggiorare, precipitando nel nichilismo, nella vita senza senso, in un edonismo fine a sé stesso (“miserabile benessere”), avvalorando la possibilità involutiva dell’ànthropos enunciata da Nietzsche, nel Così parlò Zarathustra, tramite il mito negativo (o anti-mito) dell’”ultimo uomo” (il rovescio del suo mito “positivo” del superuomo: Übermensch che oggi giustamente si preferisce tradurre col termine “Oltreuomo” perché “superuomo” sa troppo di Hitler, o di Nembo Kid).

Quell’”ultimo uomo” sarebbe poi stato ripensato da Marcuse come “uomo a una dimensione”, o uomo del consumismo e vacuità senza limiti: l’uomo medio “americano” del neocapitalismo estremo, detto poi di nuovo “ultimo uomo” dal politologo Fukuyama dopo il crollo del comunismo da Vladivostok a Berlino del 1989-1991, e considerato come destino ormai segnato del genere umano.

Ma la “società liquida”, come oggi la diciamo, per Nietzsche non era il solo possibile destino (in tal caso nichilistico). Per lui c’era pure un’altra strada. Senza l’Assoluto, senza il Bene, senza Dio, l’essere umano avrebbe pure potuto imparare non già a degradarsi, ma a superarsi: ad accettare la propria natura in tutte le sue polarità, come fa ogni animale, che non è intimamente scisso e infelice, ma vive sanamente l’armonia dei contrari che lo compongono. Questa nostra coscienza avrebbe inoltre potuto mirare ad esprimere l’infinità, che connota il nostro umano pensare e volere (appunto il nostro possibile “indiarci”, ma nella contingenza del mondo), invece di seguitare ad alienarci proiettando invano la nostra umanissima infinità su un immaginario Dio creatore. Allora pensavo che ciascuno avrebbe dovuto cercare di essere sé stesso esprimendo in massimo grado la propria creatività umana: l’essere creativo dell’uomo o – come dicevo con ingenua enfasi – il proprio essere “un creatore”. Benché io creda di non aver mai voluto far male proprio a nessuno, ritenevo io pure la vita naturale “al di là del bene e del male”[4].

Da sessant’anni sul piano politico (dal 1962), e da oltre cinquant’anni su quello morale e religioso, non la penso più così, ma allora era quello il mio pensiero “profondo”. Siccome ora ho più di ottant’anni, riconoscerlo non mi fa più né caldo né freddo.

Al culmine di quel tempo remoto, nel 1960-1961 e forse 1962 – specie dopo aver letto e meditato con forte empatia il libro di Karl Löwith Da Hegel a Nietzsche nel 1960[5], che allora ebbe su di me una grande influenza – giunsi a ritenere che si dovesse fare una grande rivoluzione spirituale, politica e sociale contro quello che allora chiamavo “il mondo borghese-cristiano”: una rivoluzione nella quale Nietzsche e Marx avrebbero dovuto darsi la mano, certo al pari dei loro continuatori. Su ciò nel 1961 scrissi, o meglio pretesi di scrivere, pure un libro, intitolato: Con Nietzsche oltre Nietzsche. Prolegomeni a un’etica neopagana. Lo inviai a Feltrinelli. E Brega mi rispose che l’avevano letto “con interesse”, ma che non potevano pubblicarlo perché non rientrava nella loro “linea editoriale”. (Lo credo bene). Mi invitarono, se volevo, a ritirare io stesso il dattiloscritto. Lo feci, e presso l’ascensore nella sede storica di via Andegari, in quell’inizio d’autunno del 1961 in cui io avevo vent’anni, incontrai Giangiacomo Feltrinelli, con i suoi enormi baffi, che mi disse di non fermarmi a quella prima prova andata male. Più oltre, diventato socialista e marxista, il testo mi parve espressione di quello che Marx chiamava “socialismo reazionario” e lo distrussi, nel mio stupido atteggiamento da pentito del nietzscheanesimo e con perbenismo di sinistra, non raro in Piemonte. E feci male, molto male, ma la frittata ormai era fatta.

Comunque dal 1962, a ventun anni, divenni socialista di estrema sinistra (subito segretario della Federazione Giovanile Socialista, e poi fondatore del PSIUP), sin dal principio attratto totalmente dal pensiero di Marx, su cui nel 1968 mi laureai nel migliore dei modi, col filosofo Carlo Mazzantini, presso l’Università di Torino. E subito dopo mi abilitai per concorso nazionale quasi nel migliore dei modi in Storia Filosofia Pedagogia e Psicologia, tra i primissimi della graduatoria nazionale, iniziando la mia vita come professore di Filosofia, prima nella scuola media superiore, dal 1969 al 1974, e poi all’Università, dal 1974 al 2010, quando andai in pensione.

Da Marx mi vennero, sin dal 1962, mille suggestioni (perché certo venivo scoprendo un pensatore grandissimo, anche se ora credo che la sua dottrina non regga), ma per decenni i punti del marxismo che più influirono su di me – animale filosofico – furono tre.

Il primo punto era quello in cui Marx affermava che la religione è “l’oppio dei popoli”: asserzione perentoria del 1844 accompagnata dalla precisazione che “la critica della religione”, sua e dei suoi amici a partire da Feuerbach, non era volta a togliere la speranza all’uomo, ma ad indurlo a spostarla dall’aldilà all’aldiquà: dall’illusorio paradiso in cielo al paradiso in terra (Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Introduzione), “paradiso” presto visto da lui come comunismo, inteso però quale società senza classi e senza Stato, in cui tutto diventasse di tutti (Manoscritti economico-filosofici del 1844).[6] Questo punto per me si conciliava benissimo con la polemica contro le religioni e contro il cristianesimo che era stata di Nietzsche. E per molti aspetti era vero (e dapprincipio mi ero rivolto a Marx proprio per questo, cercando l’uomo che supera sé stesso, al di là del mondo “borghese cristiano”).

Il secondo punto che per me risultò decisivo era quello in cui Marx diceva che “non è la coscienza a determinare l’essere sociale, ma è l’essere sociale a determinare la coscienza”.[7] Questo andava molto al di là del valorizzare, o svalutare, soprattutto i modi di pensare e volere dei singoli, che avevo sempre messo al primo posto, prima come cristiano e poi come anticristiano nietzscheano. Per cambiare l’uomo – superandone un egoismo, una meschinità e una bassezza che avevo sempre detestato – bisognava lottare per un mondo senza padroni e per l’autogoverno dei lavoratori; la nuova coscienza umana, cui sempre anelavo, ne sarebbe scaturita. La trasmutazione che avrebbe reso tutti liberi, solidali e creativi non sarebbe, “velleitariamente”, venuta dunque da un’interiorità rinnovata, da una nuova coscienza a monte, ma semmai “a valle”, come conseguenza del superamento del capitalismo, ossia realizzando via via un mondo dominato dai lavoratori stessi, subito spalancato su una società senza classi e senza Stato. Ma già nel corso della lotta per abolire il capitalismo, la nuova coscienza – libera, solidale e creativa, a nessuno asservita – sarebbe stata “en marche”. Essere tra gli operai in lotta non solo serviva loro, ma consentiva di percepire la liberazione umana in fieri, che sarebbe dipesa dalla loro-nostra lotta.

Il terzo punto per me determinante, in Marx, fu quello che vedeva la dialettica della storia tutta incentrata sul Negativo, o antitesi, con schema dello sviluppo già scoperto da Hegel (tesi-antitesi-sintesi). Marx, in particolare nel Poscritto alla seconda edizione del primo libro del suo Capitale (1873) diceva che a dispetto del “guscio mistico” in cui avvolgeva le sue idee, Hegel con la dialettica – con la teoria del divenire tramite l’urto degli opposti verso la sintesi – aveva compreso che proprio il dissolvere la realtà data era la chiave di volta del divenire: perciò – diceva – nella “sua forma razionale la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e pei suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente la comprensione della negazione di essi, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche nel suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è rivoluzionaria per essenza.” Per almeno vent’anni questa per me fu la mia pagina preferita di Marx: quella – tra l’altro – che spiega pure il famoso grido marxiano del suo Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852) “Ben scavato, vecchia talpa”, in cui il soggetto del divenire diventa la Rivoluzione stessa, la potenza dell’antitesi, in tal caso proletaria, che non solo tramite la rivoluzione democratica, ma pure attraverso la reazione, fa sempre cadere le gallerie scavando di sotto (cioè facendo crollare ”l’ordine” preesistente).[8]

Su ciò lessi e meditai moltissimo leggendo già tra i venti e i venticinque anni tutti i libri importanti di Marx, ma pure di Lenin, di Rosa Luxemburg e di Vittorio Foa: un Foa i cui discorsi e saggi d’indirizzo marxista operaista mi persuadevano in sommo grado. Per Foa, che prima e dopo la nascita del PSIUP aveva a Torino e Biella i compagni che più si riconoscevano nelle sue idee (da Gianni Alasia a Fausto Bertinotti, e soprattutto da Franco Ramella e Clemente Ciocchetti a Pino Ferraris), la società via via senza classi avrebbe potuto sorgere solo dall’azione autonoma dei lavoratori stessi in produzione, come esperienza diretta di libertà e liberazione sociale in atto, o partecipando ad essa. In Occidente la rivoluzione proletaria non sarebbe venuta né dall’assalto bolscevico contro il “Palazzo d’inverno”, cioè contro il centro del vecchio Stato, né tantomeno da una nuova maggioranza parlamentare, ma dall’espansione del potere operaio nella fabbrica e nella società tutt’intorno, come vita nuova dentro e contro la vecchia vita e società. Questo era il nucleo forte del nuovo marxismo operaista, espresso in autori che in taluni casi erano miei amici estremisti dalla grande anima (come Gianfranco Faina e Gianfranco Dellacasa, e poi, nel PSIUP, Clemente Ciocchetti, Pino Ferraris, Franco Ramella e compagni), ma soprattutto come Raniero Panzieri (“Quaderni rossi”), Mario Tronti (“Classe operaia”, ed oltre), e pure Antonio Negri (da cui ho sempre dissentito, ma che leggo e medito volentieri ancora adesso)[9].

Ma io mi sentii sempre impegnato a tenere insieme l’idea della liberazione totale dallo sfruttamento e dall’autoritarismo ed il realismo politico, per cui, pur attratto dal neo-marxismo rivoluzionario, ritenni sempre fondamentale mantenere il radicamento di tali istanze nel contesto, che dicevo “storicamente determinato”, dei partiti “storici” della sinistra e del sindacalismo confederale. Questo del resto era pure l’approccio caratteristico di Foa. La lotta marxista operaista per il potere operaio, i consigli di fabbrica, l’azione operaia autonoma, e la formazione di giornalini di fabbrica che facessero sentire la voce degli operai stessi, avrebbero dovuto rinnovare partiti e sindacati lavorandoli ai fianchi, ma senza mai ripudiarli (cadendo in tal caso, volenti o nolenti – semmai l’avessero fatto – nell’avventurismo, vanamente violento e vanamente omicida, come poi si vide).

Leggevo e meditavo moltissimo, con apprezzamento, anche Gramsci, e ancor più Togliatti, da cui per anni mi sentii distaccato, ma che mi pareva, sin dall’inizio, uno dei più grandi leader politici del comunismo del mondo (in fondo la più grande fortuna del PCI, anche se certo non era sbucato come un fungo). L’humus comunista, quando nel 1971 compresi che “il Sessantotto” stava fallendo, e che per molto tempo un’alternativa democratica di sinistra sarebbe stata l’obiettivo più avanzato possibile, prese ad attrarmi irresistibilmente.[10]

La pensai così, a diversi livelli di approfondimento e con le ovvie giravolte tattiche, per un buon quarto di secolo dal 1962. Ma poi compresi, tramite molti decenni di lotte sociali e politiche, e di riflessioni storiche e filosofiche profonde per altrettanti anni, che i tre punti richiamati da me presi come stelle polari erano stati falsificati, cioè confutati, dalla Storia: la negazione della religione non aveva prodotto nessun paradiso in terra, almeno “en marche”, e per ciò, fondata o meno che essa fosse stata o fosse, era sterile; i conflitti nell’esistenza sociale palesemente non portavano a una società senza classi e senza Stato; e la visione del divenire come una sorta di distruzione o rivoluzione permanente “in fieri” o manifesta, generava o alibi per la repressione dei movimenti dei lavoratori o dittature invece che giustizia e libertà.

Che dedurre dal triplice scacco?

In fondo era stata confutata la nostra logica troppo “estroversa” invece che “introversa”. Si era cercato fuori di noi ciò che può essere solo in noi, e poi venire da noi, dal nostro essere e divenire più interiori, fuori di noi e tra noi. La principale alienazione o fuga dalla realtà più umana era risultata proprio quella dall’interiorità all’esteriorità; dal “Regno di Dio” nei nostri “cuori” all’umano sempre troppo umano “sociale”. Non si poteva forse trovare Dio nei cuori, ma neppure considerare l’interiorità come una scatola vuota invece che come la prima linea nel processo di “disalienazione” di sé.

Tramite la lotta del tutto sociale e politica, o quasi solo tale, il mondo senza sfruttamento né autoritarismo, senza classi e senza Stato – per cui decine di milioni di persone del mondo avevano lottato appassionatamente, moralmente e spesso eroicamente dal 1848 in poi – infatti non era mai arrivato (o era stato una breve apparizione subito travolta dalla storia, dopo l’aurora delle rivoluzioni); e, quel che è peggio, non era per strada, ma semmai si allontanava. E l’uomo – dopo mille rivoluzioni e lotte – restava sempre lo stesso almeno dal Neolitico ai giorni nostri. E la negazione totale dell’esistente collettivo dato, troppo spesso produceva frutti marci (dittature o burocratiche o anche liberticide, e pure riformismi troppo proni allo sputtanamento con il potere “borghese”). Giunsi a tali amare conclusioni a piccoli passi, dal 1971 al 1987, ma poi non le abbandonai più.

La nostra lotta però – nonostante l’erroneità di quei tre punti, che erano stati le mie tre stelle per la navigazione nella Storia, e pure per interpretare la Storia – non era stata inutile perché il mondo del lavoro, tramite le sue e un poco nostre lotte dal 1848 in poi, era diventato meno schiavo e miserabile di generazione in generazione. Inoltre tutti quei “buoni libri”, saggi, articoli, discorsi, dialoghi e pensieri che ruotavano attorno al marxismo mi avevano fatto quantomeno toccare con mano che il mondo dominante era ed è invivibile; che così non si poteva né può andare avanti; che era ed è necessaria una diversa civiltà, libera e solidale (e salubre), senza strapotere padronale come burocratico: una civiltà che però non deriva né dalla svalutazione della vita puramente spirituale (come “oppio dei popoli”), né da un mutamento puramente o primariamente economico sociale, che o non arriva mai, o porta nuove forme di servitù, di tipo neocapitalistico (anche socialdemocratico riformista) o burocratico autoritario, (“comunista”).

Ma se l’alternativa al mondaccio che ci ritroviamo non è puramente o primariamente sociale, la vita nuova o è impossibile oppure ha da nascere prima nei “nostri cuori”, Deve avere a che fare, quantomeno in primo luogo, con istanze che siano presenti – più o meno a priori, cioè in modo archetipico, come latenze – nella nostra mente profonda, già alla prima radice. Fu così – detto in due parole – che intorno al 1979 cominciai a diventare junghiano[11], scoprendo che est deus in nobis. Il deus – compreso il “paradiso perduto” – sta al fondo di ogni essere umano come archetipo. È una sorta di grande speranza di una vita infinita in noi a priori[12]. Si tratta di un bisogno ancestrale, o, come avevano detto i romantici intorno al 1800, di Sehnsucht, o “anelito all’infinito” di tipo antropologico, approssimandoci al quale diventiamo sempre di più quello che nel profondo siamo: cioè ci individuiamo. Ciascuno può trovare in sé l’infinito suo, diventare sé stesso, rinascere a sé stesso: con il che il vecchio Nietzsche, messo in frigorifero intorno al 1962, cacciato dalla porta rientrava dalla finestra, ma con molti pensatori “compagni”. Lo si coglie bene, in me, a partire dalla poesia La sorte, del 1978, da me pubblicata tanti anni dopo in Anima e Mondo. Il poema sulla storia e sui sogni (2018).[13]

Quanto al mutamento dell’essere sociale, pur avendo a che fare ben poco con quello della coscienza (perché l’ànthropos muta a ritmi di decine di migliaia di anni), esso restava e resta fondamentale. Infatti è sì vero, come diceva Myskin ad Aglaia nell’Idiota di Dostoevskij, che “anche nell’oscurità di una prigione si può trovare una vita immensa”[14]; ma è pure vero che una libertà e solidarietà, e pure percezione dell’infinità, di tipo solo personale e interiore, per quanto decisive, e di null’altro bisognose per trasformarci, lasciano l’uomo servo nel vissuto esterno, se mai egli sia costretto a dipendere da altri – padroni o burocrati – per campare; e questo guasta sempre la vita interpersonale, e quindi è da risolvere per dare alla vita interiore libera, solidale e infinita, cui abbiamo accesso in qualunque condizione sociale, anche un completamento necessario nel vissuto inter-soggettivo. Il fondamento del liberarsi è interiore e personale, ma il coronamento, che fa vivere la libertà “di dentro” anche nel mondo “di fuori”, ha da essere sociale, anzi politico-sociale.

Da un certo punto in poi questo nuovo approccio ha molto segnato, prima in modo parallelo, e poi in modo sempre più intenso, la mia ricerca, in parecchi miei libri quali: Psiche e storia. Junghismo e mondo contemporaneo (1991); Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo (2000); Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva ne pensiero politico contemporaneo (2003); Politica nell’anima. Etica, politica, psicanalisi (2007); Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo (2010); L’avventura di Jung. Romanzo verità (2012); Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo (romanzo distopico, del 2014); Anima e Mondo. Il poema sulla storia e sui sogni (2018); L’Ombra che uccide. Romanzo psicologico analitico (2020); Il Rosso e il Verde (2021), di cui ho detto nella prima parte di questo piccolo saggio[15]. Non parlo qui di tanti miei saggi e articoli in proposito.

Il lettore, a questo punto, noterà da un lato la centralità della dimensione psichica nell’evoluzione del mio pensiero; dall’altro il suo esplodere in più direzioni, anche di tipo letterario, come in L’avventura di Jung, Kali Yuga, Anima e Mondo e L’Ombra che uccide (e infine in Psiche e eternità, “poema” ora alla prima tra tre “cantiche”).

In questi cinque libri la dimensione letteraria fa la parte del leone (e in quello che vengo presentando molto di più). Potevo e posso esprimermi ormai a tutto campo, in modo alternativamente o congiuntamente “oggettivo” e “ultrasoggettivo”, mentre l’approccio scientifico, o preteso tale, detto anche accademico, deve sempre porre la soggettività tra parentesi, come se non esistesse o fosse ibernabile perché non alteri il rigore “impersonale” della ricerca. Come studioso ho sempre cercato di seguire questa norma minima del rigore analitico, trattenendo l’anima per le ali (per la verità sempre a fatica). E “inter academicos” ancora lo faccio, di tanto in tanto. Ma in linea generale da tanto tempo ho compreso che il pensatore e lo scrittore e poeta – tutti e tre – hanno delle ragioni che nessuno studioso “oggettivo”, o impersonale, ha mai potuto o potrà mai comprendere od accettare. Secondo me non far giocare la soggettività nel filosofare significa non essere uomini “autentici”; significa separare funzioni che in noi sono inseparabili, come il sentire, percepire, avere sentimenti e passioni, e non solo fare ragionamenti “oggettivi”. Le dimensioni non oggettivabili – sensazioni, sentimenti, passioni, sogni, e quant’altro – si possono rimuovere, ma non spegnere: ove si ricerchi non già il modo di fabbricare edifici che non crollino, o farmaci dosati a dovere, ma il significato, il fine e pure la via per realizzare il significato e fine della nostra vita (ossia ove si cerchi di filosofare, e di vivere filosofando, cioè nella pienezza della nostra umanità, che vive a suo modo in ciascuno di noi; e vale pure nella sfera morale e politica, oltre che estetica o “religiosa”). E se a taluno questo modo di procedere non dovesse piacere, a me non interessa assolutamente niente. Non legga e stia sereno. Per me il pensare che libera deve coinvolgere tutto l’essere; deve essere insieme eros, pathos e logos. Io comunque sono così, specie da quando ho potuto, nell’accademia, non tenere tanto conto dell’accademia, o, più oltre, andato “a riposo”, non tenerne nessun conto. La mia analisi è rigorosa, spero, ma non separo più eros, pathos e logos. Piaccia o non piaccia a lorsignori.

Sono dunque pervenuto da un lato a cercare di nuovo nella soggettività, mia e altrui – come da giovanissimo – l’origine di quel che in me, in noi e nella nostra vita, vada o non vada; dall’altro a correlare la soggettività, mia e altrui, ai grandi problemi esistenziali e sociali da risolvere. In ciò, e forse solo in ciò, sto con Kierkegaard e Nietzsche, e non solo. Per me in certo modo è “l’oggettività” a dover “eccedere” la soggettività: una soggettività che ha pure bisogno di ratio, studio e argomenti forti per andare avanti, ma come longa manus di ciò che più intimamente è “lei” e “in lei” (in me, ma pure in noi; anzi, il “me” che interessa e “mi” interessa, è sempre un “tutti noi”, seppure compreso me).

Ma se puntiamo la barra sulla nostra soggettività, l’istanza dell’infinità si coglie alla nostra prima radice. Si manifesta già in Jung, come archetipo di tutti gli archetipi: Dio nell’Io e Io in Dio: archetipo di tutti gli archetipi da Jung detto Sé, “vero dio e vero uomo” in ciascuno di noi. Era già stato detto dall’idealismo romantico hegeliano (parlando di “Spirito assoluto” immanente in noi), sia pure con un eccesso di oscurità. Inoltre Jung attesta ciò su un piano che se non era tanto scientifico quanto egli avrebbe voluto, era certo segnato da innumerevoli analisi psicologiche profondamente persuasive, oltre a tutto a partire dal più profondo inconscio.

Perciò la religiosità a quel punto in me è balzata in primo piano. Intorno al 1989 l’ho fatta sempre più uscire dalla cantina in cui l’avevo relegata sin dal 1962 in nome del socialismo e poi comunismo marxista. Non l’avevo mai del tutto negata, nonostante la mia lotta giovanile, nietzscheana e poi marxista, contro il “mondo borghese-cristiano”: lotta in nome della quale si poteva pure proclamare la “morte di Dio” (Nietzsche) e la religione come “oppio dei popoli” (Marx); infatti avevo sempre saputo che “sotto” c’era un grande mistero ontologico (ad esempio nel pensiero della morte, ma pure nel mistero del grande amore), a dispetto delle più totali negazioni, come Myskin aveva detto a Rogozin, nell’Idiota, in un grande dialogo sulla “fede”[16].

Nel mio primo articolo “filosofico”, del 1963, Ateismo etico storico e problema dei cattolici, citavo con assenso la risposta data dal grande regista Luis Buñuel, a chi gli chiedeva se credesse in Dio: “Grazie a Dio sono sempre stato ateo”. Sull’Essere o Non-Essere dell’Essere ero un dubitante, oscillante tra fede e negazione della fede. Non ritenevo che il pendolo, nella psiche, si potesse arrestare, ad esempio con l’agnosticismo. Oscillando tra i due facevo lì la scelta, pretesa etica, della non-fede, dell’ateismo “umanistico”: soprattutto perché allora la fratellanza cristiana mi sembrava la negazione di un antagonismo cui molto credevo, “classe contro classe”.[17]

Così la religiosità, però di tipo immanente – l’infinito nella psiche e nella natura, e però pure la psiche e la natura nell’infinito, in Dio – uscì dallo stanzino segreto in cui dal 1962 come uomo engagé l’avevo relegata come una mia istanza insopprimibile, ma tutta mia e solo mia, e passò nel mio studio, in tinello, in tutta la casa, e poi dappertutto. Infatti questa infinità interiore, diversa in ciascuno ma presente in tutti, risultò essere anche – per come presi a pensarla – il vero presupposto per una vita libera, solidale e naturale.

Su ciò già il cristianesimo ha detto molto: sia se prendiamo alla lettera, come io credo si debba fare, il Padre “nostro” (est Deus in nobis, e noi “lo siamo” proprio come essere, né più né meno di Gesù Cristo, ed è questo ad affratellarci); sia il “voi siete dèi” del salmo citato da Gesù in Giovanni; sia il cosiddetto “grande comandamento” che connette amor di Dio e del prossimo; sia il fatto che “Il regno di Dio” è nei nostri “cuori” e non “qua o là”.[18] Ma certo un indirizzo che vede lo spirito nel corpo e il corpo nello spirito porta lontano, sino alla visione cosmoteandrica di Panikkar o alle meditazioni recenti, ecologico-teologiche e neo-francescane di Leonardo Boff sullo Spirito Santo come la persona più importante nella Trinità di Dio, e pure a importanti encicliche di papa Francesco[19]. Ma io non mi spingo a tanto, sino a Teilhard de Chardin o Boff, perché non mi considero “teista”, bensì “panenteista”: “tutto è in Dio”, ma anche Dio è nel Tutto[20]. Forse però Panikkar concorderebbe. In certo modo Tutto è Uno, Tutti sono Uno, come diceva il liberalsocialista mazziniano e gandhiano Aldo Capitini[21]. E chi fa il male nega il suo profondo Essere, si autonega, e mal ne deriva, ma pure gliene deriva.

In sostanza io mi colloco, nel mio piccolo, in un punto esattamente a mezza strada tra panteismo e teismo. Come Fritjof Capra, pensatore che amo e su cui ho scritto, considero Dio non come il creatore dell’universo, ma come la sua mente interna[22]. In certo modo l’universo è il dio visibile e dio è la mente invisibile dell’universo, di cui in noi possiamo cogliere come minimo l’archetipo (in Jung il Sé). Oggi la pensa così pure l’inventore dei microprocessori, il fisico Federico Faggin, che ritiene la coscienza “irriducibile” ad altro[23].

Con ciò però sto anticipando la fine del discorso che volevo fare su “Psiche e eternità”. Ormai del tutto libero, e deciso a pensare quel che mi pare e come mi pare, quanto più sinceramente e profondamente mi sia possibile; e cosciente di essere ottuagenario, e quindi di essere precipitato nel tempo dell’“Ora o mai più”, ad un certo punto sono stato preso dal bisogno, quasi ossessivo, di prendere per le corna la questione religiosa, che per me è pure morale, una volta per tutte. Mi è venuta l’ispirazione, in me non nuova (sol che si pensi al mio libro Anima e Mondo), a scrivere sulla mente infinita – che mi pare la base di tutto e di tutti, ma IN tutto e IN tutti – un poema, un testo fatto come mi detta il cuore unito al cervello (e viceversa), senza freni inibitori: un’opera filosofica che esprima il mio spirito del profondo: meditata e intima; mediata e immediata, che suoni tutti gli strumenti e toni, appunto con cuore e cervello “uniti nella lotta”.

Così ho abbozzato una trilogia (che nell’insieme s’intitolerà Psiche e eternità), di cui ora è uscito il primo volume: Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto. Ma gli altri due – Nietzsche dopo la follia. Romanzo dionisiaco e Il dio nella vita. Lo svelamento dell’Essere nel tempo della “morte di Dio” – usciranno con cadenza annuale, e ho già dato disposizioni perché escano anche se io dovessi morire (a ottant’anni non è da escludere mai, anche “più del solito”). Sono tre volumi di una sola opera poematica, diversi per stile, ma con un percorso predefinito.

Il primo volume or ora edito, Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto, è un libro psicologico-filosofico, che però, dopo un Prologo discorsivo, è tutto in prosa poetica, anche se di tanto in tanto il ritmo prosastico poetico mio malgrado si spezza in prosa discorsiva; ma l’insieme è in prosa poetica, qual sia il suo valore. Per tal via ho provato a non separare ciò che in me è emozionale e ciò che in me è razionale: l’eros, il pathos e il logos. Ho voluto parlare dei massimi problemi come miei problemi intimi, ma di uno la cui stessa riflessione intima è piena di riflessioni che concernono tutti, con tutti i rimandi del caso.

Volendo mantenere tale approccio mi sono triplicato, come se in me stesso fossimo tre in uno e uno in tre (perché è così). L’esplicita triplicazione è facile, espressa in tre tipi, o volti, pure miei: Religiosus, Atheus e Psychicus. Infatti il mio pendolo oscilla tra il dare a taluni problemi una risposta religiosa (Religiosus), oppure francamente ateistica (Atheus), o di congiunzione tra i due momenti su un piano psicologico, in cui fede e negazione della fede possano convivere come momenti opposti, ma complementari, della mia mente (Psychicus). I quesiti sono tre, e i tre-uno si pronunciano in materia l’uno dopo l’altro: “Dio vivo o morto?”, “La morte oltre la morte” e “Il male oltre il male”.

Dio è vivo, vita da vita, eterno presente (Religiosus). Dio è morto e non vederlo è una vile fuga dalla realtà (Atheus). Dio è un archetipo presente nella nostra mente, e che perciò potrebbe esistere pure fuori di essa, ma che in essa è reale (Psychicus).

La morte non esiste perché ogni vivente è nell’eterno, è eterno nell’eterno (Religiosus). L’esistente è contingente e perciò la morte è la fine di tutto (Atheus). Per l’inconscio la morte non esiste affatto e ci sono molti indizi di una vita continua, prima di noi e dopo (Psychicus).

Il male è frutto di distacco dall’essere che ci comprende, perdita del senso di coappartenenza all’essere da parte degli esseri in esso inclusi (Religiosus). Il male non esiste nella natura, in sé al di là del bene e del male. Bene e Male sono solo giudizi costruiti di volta in volta dall’uomo (Atheus). Noi abbiamo una natura al tempo stesso infinita e finita già nella psiche, per cui viviamo naturalmente tra il bene e il male (Psychicus).

Si capisce che i tre sono “uguali”, ma tra i tre “uguali” uno è per me “più uguale degli altri”: è Psychicus, che infatti su tutti e tre i quesiti parla per terzo, studiandosi di comporre in se stesso i contrari. Ma alla fine della fiera anche Psychicus risolve i contrari in modo che non conclude, perché un vero solo come convinzione soggettiva (psichico) potrebbe pure essere falso. Allora “Religiosus” alla fine, in dialogo diretto con gli altri due, si propone di tornare all’approccio filosofico, naturalmente sempre in modo ultrasoggettivo, e sempre “sulla fede e non fede”: tornando a interrogare “l’uomo del punto di partenza”, il tragico filosofo della morte di Dio.

Che cosa avrebbe potuto dirci Nietzsche, seguitando a filosofare a partire dal punto filosofico cui era arrivato del gennaio 1889 quando impazzì a Torino, se “un dio” l’avesse svegliato dalla sua follia e sotto sotto avesse saputo quel che è capitato dopo? E questo sarà, in forma di romanzo d’idee, e di dialogo, il tema del secondo volume della Trilogia: Nietzsche dopo la follia. Romanzo dionisiaco.

Ma Nietzsche, per quanto spinto al limite ha da essere nietzscheano, mentre io sono “livorsiano”. Così il dialogo del “dio” con Nietzsche si sposta direttamente a quello con me nel terzo volume, Il dio nella vita. Lo svelamento dell’Essere dopo la “morte di Dio”. Qui l’anima deve cantare filosoficamente, mettendosi pure a nudo in termini di autobiografia interiore, ma per parlare poi a tutti e per tutti. E chi sa qualcosa dei presocratici non potrà stupirsi vedendo che tutto questo terzo volume è in versi.

Ma qui faccio “punto”.

di Franco Livorsi

  1. Matteo 22: 37-40.
  2. Marco 3: 21.
  3. I fioretti di San Francesco, A cura di G. Davico Bonino, Einaudi, Torino, 1964.L’opera fu in gran parte scritta dal frate francescano Ugolino da Monte Santa Maria, morto intorno al 1350. Il libro fu scritto tra il 1370 e il 1385 (pp. IX-X). Per il riferimento vedi il capitoletto VIII, incentrato sul dialogo tra il “santo Francesco” e frate Leone, alle pagg. 25-27.
  4. Il mio punto di partenza, in tempi in cui Nietzsche era ancora considerato un filosofo “maledetto”, fu un grosso volume che acquistai negli ultimi giorni del 1957, e che ancora posseggo: F. Nietzsche, “Il meglio”, introdotto e curato da Liliana Scalero, uscito da Longanesi nel 1957, e che comprendeva in forma integrale La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872); Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1883/1885); Ditirambi di Dioniso; Ecce homo. Come si diventa quello che si è (1888, ma 1905). Lo stesso Zarathustra fu poi ripubblicato, a sé, dallo stesso editore nel 1979. Quel libro per quattro anni divenne la mia Bibbia, e Nietzsche rimase per me un autore molto amato anche quando – diventato, nel 1962, socialista e marxista – lo ibernai. Non sono un germanista, ma credo di aver letto e meditato tutte le sue opere, edite e inedite, nel corso degli anni. Già nel 1961 avevo letto non solo i quattro testi compresi nel “Meglio” citato, ma tutte le principali opere, allora introvabili in libreria, edite negli anni Venti e Trenta del Novecento dagli editori Bocca e Monanni, che trovavo nelle bancarelle di via Po a Torino. In seguito credo di aver letto tutte le opere di Nietzsche nella grande edizione Adelphi diretta internazionalmente da G. Colli e F. Masini.Il riferimento alla pietà che non sia crocifissione e all’antimito dell’ultimo uomo, e al mito filosofico dell’oltreuomo (tradizionalmente detto “superuomo”) sono nell’edizione dello Zarathustra del 1979 alle pagg. 38-43.Ma si vedano pure: H. Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), Einaudi, Torino, 1967; F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), rizzoli, Milano, 1992; Z. Bauman, La modernità liquida (1999), Laterza, Roma-Bari, 2015.
  5. Karl Löwith Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX (1949), Einaudi, Torino, 1949 e 1964. Tra l’inverno 1960 e l’estate 1961, interrotto il mio Liceo Classico quasi alla Maturità (in Seconda Liceo), feci praticantato come giornalista alla “Gazzetta Padana” di Ferrara, città in cui allora presi in prestito e lessi molti libri, tra cui questo per me importantissimo, alla Biblioteca Estense.
  6. Per il testo di Marx sulla religione “oppio dei popoli”, si veda: K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Introduzione (1844), in: “Annali franco-tedeschi”, a cura di G. M. Bravo, Edizioni del Gallo, Milano, 1965, pp. 125-142. Il tema del comunismo svolto col significato cui qui ho accennato è in: K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, in: “Opere filosofiche giovanili”, a cura di G. Della Volpe, Editori Riuniti, Roma, 1963, pp. 143-278. Vi sono specifici capitoli sul “comunismo” così intesi. Il tema è ripreso e approfondito pure in: K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (1845-1846, ma 1932), ivi, 1958, specie in riferimento al comunismo come società in cui è superata la “divisione del lavoro”. Oggi è di moda, tra i “marxisti”, considerare il comunismo così inteso come la nobile utopia di Marx, ma Marx vi credette totalmente, e sino al 1919 pure Lenin e Rosa Luxemburg. Dopo una fase “mossa” lì si sarebbe “necessariamente” dovuto andare a parare. Egli pensava che la rivoluzione proletaria mondiale avrebbe segnato un nuovo inizio, più o meno come la rivoluzione agricola nel neolitico, dando vita via via, ma in tale direzione dall’inizio, ad una società in cui i beni avrebbero smesso di essere merci al mercato, fosse o non fosse esso regolato dallo Stato (uno Stato che avrebbe dovuto ben presto “estinguersi” nella società civile, come ente artificiale che ha sempre protetto i padroni dell’economia dall’inizio della Storia).
  7. Il punto in cui Marx insiste sul carattere derivato della coscienza dall’essere sociale è svolto nelle Tesi su Feuerbach del 1845 (in appendice a: F. Engels, Ludico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, del 1886, Edizioni Rinascita, 1950), compare ed è svolto ampiamente nell’Ideologia tedesca (di Marx e Engels) del 1846, ma 1930 (a cura di F. Codino, Editori Riuniti, Roma, 1958), ed è spiegato con maturo approccio sociologico nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica del 1859 (ivi, 1959).
  8. K. Marx, Poscritto del 1873, in: Il Capitale. Critica dell’economia politica, I (1867 e poi 1873), tr. di D. Cantimori e Prefazione di M. Dobb, Editori Riuniti, Roma, 1972, pp. 37-45, ma soprattutto p. 45.
  9. V. Foa, Sindacati e lotte operaie. 1943/1973, Loescher, Torino, 1975 (notevole antologia da lui curata sull’argomento); Per una storia del movimento operaio, Einaudi, Torino, 1980 (importanti saggi); Il Cavallo e la Torre. Riflessioni di una vita, Einaudi, 1991 (che considero uno dei grandi libri memorialistico-teorici del Novecento). Foa scrisse pure l’articolo di fondo della rivista semestrale “Quaderni rossi”, uscita dal 1961 al 1966 per sei numeri diretta da Raniero Panzieri (e che nel n. 5 del 1965 contiene un importante contributo di Pino Ferraris, poi segretario del PSIUP di Torino e tra i protagonisti del Sessantotto). Di R. Panzieri sono da vedere almeno: Spontaneità e organizzazione: gli anni dei Quaderni rossi, 1959-1964, a cura di S. Merli, BFS Edizioni, Pisa, 1994. Mario Tronti, già tra i maggiori teorici dei QR, fondò e diresse il mensile “Classe operaia” dal 1964 al 1966. Il suo libro più importante è: Operai e capitale, Einaudi, 1966 e infine 1971; ma di lui è da vedere pure: Il demone della politica. Antologia di scritti (1958/2015), Il Mulino, Bologna, 2018. La produzione di Antonio Negri – che al pari di Tronti è in primo luogo un filosofo politico – è sterminata, e però sempre interessante, anche se il confine tra comunismo e anarchismo nel suo pensiero è sottile; e, inoltre, ha una fortissima vocazione all’”attivismo” anche eversivo, che probabilmente è il vero tallone d’Achille del suo pensiero. Per la comprensione dell’operaismo marxista trovo molto interessante, di Toni Negri: Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di P. Pozzi e R. Tommasini, Multhipla, Milano, 1989; e dello stesso A. Negri con M. Hardt, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, cit.; sempre con Hardt, Assemblea, Ponte alle Grazie, Milano, 2018. Ma si veda pure la fluviale autobiografia Storia di un comunista, in tre densi volumi, sempre a cura di G. De Michele, presso lo stesso editore, tra 2015 e 2020. Ho sempre dato molta importanza a tale corrente marxista operaista perché mi è parsa e pare, sebbene io ne abbia respinto l’estremismo (e infatti mi riconoscevo in Foa), la sola alternativa alla socialdemocrazia riformista o ultrariformista da un lato e leninista-stalinista dall’altro.
  10. Naturalmente, in base a quanto qui detto nella nota precedente, quello che mi interessò di più fu il Gramsci del settimanale “L’Ordine Nuovo” di Torino, che voleva essere espressione del movimento dei consigli di fabbrica, nel 1919-1920, in particolare: A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, 1954 e poi 1987. Ma sempre decisivo è: Quaderni del carcere (1929/1935), prima pubblicato negli anni Cinquanta in volumi tematici a cura di Togliatti e poi nell’edizione critica del 1975 già cit. Di P. Togliatti si veda: “Opere scelte”, Editori Riuniti, 1974.
  11. Proprio nel 1979 lessi e meditai, anche con molti appunti, il grande volume XI delle “Opere” di C. G. Jung “Psicologia e religione”, In precedenza, sin dal 1970, avevo letto la notevole raccolta di scritti scelti da e di Jung “Realtà dell’anima”, ivi, 1969. In seguito avrei letto tutte le opere.
  12. Questo motivo della speranza redentiva come un tratto forte dell’uomo è presente soprattutto nel filosofo marxista “religioso” Ernst Bloch, specie in: Il principio speranza (1942/1962), Mimesis, Milano, 2019; Ateismo nel cristianesimo (1968), a cura di F. Coppellotti, Feltrinelli, Milano, 2008. Il filosofo considerava Jung un reazionario, ma questo non ha alcuna importanza da un punto di vista teorico. Le assonanze teoriche, al di là della politica, sembrano evidenti.
  13. Golem Edizioni, Torino, 2018.
  14. 9 F. Dostoevskij, L’idiota (1869), tr. E cura di G. Pacini, Feltrinelli, Milano, 1998, pp.
  15. F. Livorsi, Psiche e storia. Junghismo e mondo contemporaneo, Vallecchi, Firenze, 1991; Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, Giuffrè, Milano, 2000; Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva ne pensiero politico contemporaneo, Giappichelli, Torino, 2003); Politica nell’anima. Etica, politica, psicanalisi, Moretti & Vitali, Bergamo, 2007; Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo, ivi, 2010; L’avventura di Jung. Romanzo verità, Falsopiano, Alessandria, 2012; Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo, Moretti & Vitali, 2014 (romanzo distopico); Anima e Mondo. Il poema sulla storia e sui sogni, Golem, Torino, 2018; L’Ombra che uccide. Romanzo psicologico analitico, Moretti & Vitali, 2020; Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo, Golem, 2021.
  16. F. Dostoevskij, L’idiota, cit., pp.
  17. Questo articolo comparve sull’importante rivista mensile del cattolicesimo del dissenso “Il gallo”, a. XVII, n. 12, dicembre 1963, pp. 13-16. Per la verità fu pubblicata solo la prima parte. Tutto il testo è nel mio Archivio. L’articolo mi era stato chiesto da un intellettuale cattolico dal grande cuore e dalla mente straordinariamente libera e aperta, Pietro Lazagna.
  18. Per il Padre Nostro: Luca 11:2-4; Matteo 6: 9-13. Per il tema “voi siete dèi”, Giov. 10:34; per il Regno di Dio nei cuori: Luca 13: 18-21.
  19. R. Panikkar, La realtà cosmoteandrica. Dio – Uomo – Mondo, Jaca Book, Milano, 2014; L. Boff, Soffia dove vuole. Lo Spirito Santo dal Big Bang alla liberazione degli oppressi, EMI, Milano, 2019; Papa Francesco (J. M. Bergoglio), Laudato si’, Libreria Vaticana, 2015; Fratelli Tutti, ivi, 2020.
  20. Il termine-concetto di “panenteismo” è stato introdotto dal filosofo neokantiano tedesco F. Krause, già allievo degli idealisti Fichte e Schelling, in opera non tradotta del 1834 sull’Assoluto nella filosofia della religione, proprio con l’intento di conciliare panteismo e teismo, tramite l’idea per cui Dio non è il tutto, ma il tutto è “in Dio”.
  21. A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, Laterza, Bari, 1937; Il potere di tutti, a cura di P. Pinna e con Introduzione di N. Bobbio, La Nuova Italia, Firenze, 1969.
  22. F. Capra, Il Tao della fisica (1975), Feltrinelli, Milano, 1982; Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente (1982), ivi, 1982, che considero la sua opera fondamentale; L’anima di Leonardo. Un genio alla ricerca del segreto della vita, Rizzoli, 2012. Rinvio alle pagine su Fritjof Capra nel mio libro Il mito della nuova terra, cit., pp. 297-318.
  23. F. Faggin, Irriducibile. La coscienza, la vita, i computer e la nostra natura, Mondadori, 2022.

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