II) Ricordi e riflessioni su Rudi Dutschke e il Sessantotto

Già a caldo, e anche ora, ho considerato il Sessantotto, ossia il periodo storico di cui quell’anno fu il culmine, come effettivamente rivoluzionario. Analogamente al 1848 europeo, sebbene ovviamente in un contesto totalmente diverso. Nel 1848 entrò in crisi l’ordine mondiale stabilito con il congresso di Vienna del 1815 dalle potenze che avevano sconfitto Napoleone: anche se quell’”ordine”, in mezzo a molte crisi anche belliche tra singoli Stati (però non più europeo-mondiali come le guerre napoleoniche, ma inter-statali), durò poi sino al 1914, quando scoppiò di nuovo un conflitto europeo-mondiale, ufficialmente detto “primo”. Nel 1968, analogamente al 1848, si scosse profondamente, ma poi “si riprese”, l’ordine stabilito a Yalta, nel 1944, dalle grandi potenze che stavano schiacciando il nazifascismo. In quel nostro tempo, pure ormai cinquant’anni lontano da noi, si aprirono le prime grandi crepe nell’edificio-mondo voluto a Yalta: l’intera costruzione “concordata” subì insomma vari crolli (non solo alla periferia, ma al cuore degli imperi contrapposti, ossia nelle aree d’influenza decise a Yalta). I popoli dell’est europeo non ne volevano più sapere dei russi, che più che fratelli erano sentiti (o erano) come i patrigni dei romanzi d’appendice dell’Ottocento (specie dai fatti d’Ungheria del 1956 alla primavera di Praga del 1968, e oltre). Ma, soprattutto, gli Stati Uniti si imbarcarono nella sporca guerra del Vietnam. Gli States erano emersi come prima potenza non solo economica, ma politica, militare e culturale, nel 1945[1]: però quasi subito in competizione con una forza opposta, benché simmetrica, e per taluni aspetti complementare (ex alleata decisiva contro Hitler), incarnata dal cosiddetto comunismo sovietico. C’era duopolio mondiale americano-russo (USA-URSS), ma dal ’45 gli Stati Uniti – senza ombra di dubbio prima potenza economica e politica del mondo – erano poi sempre arretrati. Prima avevano visto espandersi il comunismo in Cina (1949). Poi l’avevano trattenuto a grande fatica, con la guerra, in Corea (1950/1953). Quindi il “comunismo” si era affermato persino a Cuba (1959/1961): appena un’isola, non certo rilevante rispetto agli Stati Uniti, ma sulla porta di casa. E non era finita. Tutta l’America Latina era in subbuglio. Mollare il Vietnam per gli Stati Uniti sarebbe equivalso ad abbandonare tutta l’Indocina, se non addirittura l’Asia, all’espansionismo “comunista”. Allora si misero di traverso contro la storia e s’imbarcarono appunto in una guerra spaventosa per i vietnamiti, ma costosa, dura e sanguinosa pure per loro. In termini di mera forza avrebbero anche potuto farla durare cento anni, ma ormai si era nel tempo in cui si sapeva tutto e si discuteva di tutto, e per ciò gli immani massacri che ritennero di poter perpetrare per anni nel tentativo di impedire l’unificazione “comunista” del Vietnam e la perdita dell’Indocina (e lo spargimento notevole di sangue “americano”), suscitarono una reazione delle coscienze in tutto il mondo, e in particolare dentro la stessa America, in cui oltre a tutto la gioventù – vuoi dei campus universitari e vuoi dei ghetti neri – non capiva perché avrebbe dovuto farsi ammazzare a decine di migliaia per un remoto paese dell’Asia di cui non le importava niente di niente e che certo non minacciava gli States. E questo scatenò contro l’establishment americano tutta la cultura democratica, progressista e rivoluzionaria del mondo, fondamentale per farli infine ritirare, sconfitti e umiliati, dal Vietnam[2].

   L’ondata pacifista, durante quella guerra, risvegliò ed espanse tutti i movimenti d’opposizione emergenti, in precedenza marginali o comunque tenuti molto a freno: i neri, da sempre oppressi, anche nella parte nord degli Stati Uniti, in cui erano e sono spesso un vasto sottoproletariato, e – lì e nel mondo, tutto influenzato dalla prima potenza capitalistica del mondo – le donne, sempre oppresse dal maschilismo tradizionale, gli e le omosessuali e, più di tutto, i “ragazzi”, da secoli condizionati dal familismo, patricentrico e autoritario. (Tanto che la stupenda canzone contro chi mandava i giovani in Vietnam, di Bob Dylan, subito tradotta a fine ’67 da Rudy Assuntino, “L’uomo che sa”, colpisce tutto quest’ordine autoritario tradizionale dei vecchi “padri”).

   In Europa a tutta questa protesta – antimperialista e antitradizionalista – si connetteva pure il grande, preesistente e nuovo, sempre forte ma allora diventato fortissimo, movimento operaio, socialista di sinistra e comunista. La protesta si annidò dovunque in quel “Sessantotto”, ora in modo straordinariamente liberatorio (che intendere non può chi non lo visse), e ora in modo pittoresco. Il movimento operaio e quello studentesco in Europa Occidentale e in America fecero balzi in avanti, durevoli come pure effimeri. Ma poi l’ordine si chiuse sui contendenti, in tutto il mondo, tanto che i “rivoluzionari del ‘68” furono sconfitti in modo persino più grave, a livello di forma e di governo degli Stati, di quelli del 1848 europeo.

   Chi si accontenta di facili spiegazioni non si spreme tanto le meningi per capirlo (ma fa male, perché spremersele è fondamentale proprio per capire, e quindi per agire meglio in seguito, quando si scatenerà nuovamente qualcosa di diverso dal Sessantotto, ma dell’ampiezza internazionale e nazionale di quell’”anno dei portenti”; tanto più che – data la radicalità dei punti di crisi d’oggi – il corto circuito mondiale di quel genere potrebbe persino riproporsi, in un contesto totalmente diverso, anche se rischiamo ormai un Sessantotto alla rovescia, ma pure per insipienza nostra). Capire quel che accadde nel mondo in quella “grande crisi” dell’”ordine” stabilito, sarebbe dunque fondamentale. Invece per i semplificatori (semplicisti), al fine di spiegare la sconfitta delle rivoluzioni latenti nel “Sessantotto”, come già di quella del primo dopoguerra culminata nei fascismi e in nuova guerra mondiale, basta richiamare la famosa Madama Repressione. Non dico che non fosse stata o non fosse importante. Anzi, lo era stata e lo era moltissimo, nel primo dopoguerra italiano e tedesco come alla fine del Sessantotto mondiale, ma come stupirsi dell’arrivo della Signora Repressione al culmine dei grandi movimenti di liberazione democratica e sociale, ove manchi lo sbocco politico, se non si sia solo dei ragazzini, magari decisi a non crescere mai come Peter Pan, neanche coi capelli bianchi?

   Cerchiamo di approfondire minimamente le cose. I comunisti di Mosca, repressori della libera Cecoslovacchia, si erano persuasi che il riformismo democratico, anche “intrasistemico”, avrebbe fatto saltare tutto il “socialismo reale”, ossia la loro monocrazia autoritaria e burocratica, creduta o fatta credere “socialista”. Già subito dopo che Kruscev aveva denunciato i “crimini di Stalin” al XX congresso del PCUS del 1956, in nome della “legalità socialista” o “leninista” (che avrebbe dovuto dinamizzare quel sistema facendo correre l’economia “più che in America”), si era subito scatenata la ribellione delle aree popolari riottose al sistema russo, nell’”impero”: erano arrivati i fatti d’Ungheria sanguinosamente repressi, con decine di migliaia di morti (1956), e per poco non si era rivoltata pure la Polonia, e la Cina se n’era andata per conto suo maledicendo l’URSS, che sino al ’56 era stata lo “Stato guida” per i comunisti del mondo intero. L’impero sovietico e dell’Europa Orientale, che i russi dicevano essere un’associazione di Stati socialisti o “paesi fratelli” del “socialismo reale”, poteva insomma crollare. Perciò i sovietici nel ’68 invasero la libera Cecoslovacchia di Alexander Dubceck (ossia schiacciarono “il loro Sessantotto”), e tanti anni dopo, nel 1981, favorirono un “golpe” a loro favore in Polonia fatto apposta per evitare di doverla invadere per fermare la ribellione operaia di Solidarnosc partita dai cantieri di Danzica. In Francia, quando la contestazione operaia e studentesca sembrò imporsi a Parigi, de Gaulle raggiunse Massu e l’esercito fuori Parigi invitando i manifestanti a scegliere tra rivoluzione ed elezioni anticipate. Ma, soprattutto, dopo aver visto irrompere movimenti di massa senza precedenti, tutti i movimenti di sinistra dell’Europa occidentale non seppero interpretarli, se si prescinde da Mitterrand in Francia (la cui alternativa di sinistra – arrivata però anni dopo – fu resa possibile dal sistema maggioritario a due turni introdotto da de Gaulle nel ’58, per decenni fatto passare per semifascismo, persino da Sartre, ma oggi rivalutato da sinistra da molte parti). Tutti i riformatori ottennero sì, intorno al Sessantotto, conquiste sindacali e anche legislativo sociali senza precedenti (dalle fabbriche all’Università), come in Italia[3], ma l’ordine di Yalta restò sovrano, anche a Occidente, nell’insieme. E i veri sconfitti in Italia furono proprio i riformatori radicali, che da un lato dovettero fare i conti con lo stragismo fascista o di Stato, e dall’altro non riuscirono a far emergere almeno quell’alternativa di sinistra che avrebbe dovuto essere lo sbocco naturale “minimo” di movimenti di massa di quella portata (tanto più che i “movimenti” di sinistra in Italia dal luglio Sessanta si erano sempre espansi, sia nelle piazze e fabbriche che nelle rappresentanze parlamentari della sinistra). I riformatori, pur ottenendo avanzamenti sindacali e pure leggi sociali, persero tutti quanti sul terreno dell’alternativa di governo, e quindi sistemica (e le crisi economiche, come quella petrolifera del 1973 e degli anni seguenti, vanificarono molte conquiste sindacali, e molti “risparmi”, con un’inflazione per molti anni addirittura a due cifre). Dopo tante lotte i comunisti del PCI, poi, seppero solo riproporre la vecchia alleanza con la Democrazia Cristiana, che aveva già fatto perdere moltissimo credito, a sinistra, ai socialisti del “rosso antico” Nenni dal dicembre 1963 in poi (per non parlare di quelli di Saragat, che si erano “sputtanati” con la DC – sia pure per una giusta ripulsa dello stalinismo come si comprese un quarant’anni dopo, ma assumendone tutti i vizi, e persino diventandone campioni senza uguali – addirittura dal 1947 in poi). E le pullulanti piccole forze della nuova sinistra antagonistica, sorte sull’onda del grande antagonismo operaio e studentesco, per parte loro seppero solo produrre o un’opposizione democratica piena di fermenti ed episodi straordinari, ma storicamente marginale (dal PSIUP, purtroppo fallito nel 1970 e definitivamente nel ‘72, al “Manifesto” e a Democrazia Proletaria, tutti d’effimera durata e consistenza purtroppo, e non per caso), oppure, peggio ancora, un’opposizione prima di parole estreme, e poi violenta e terroristica, pure con criminali e spesso ignobili risvolti.

   Facendo una proiezione un po’ più avanti nel tempo è bene dirne qualcosa. Dapprima, dal dicembre 1969, ci furono episodi, a base di bombe contro molti innocenti, poste dai fascisti, ma tramite elementi quasi sempre infiltrati dai servizi segreti italiani, come poi si dimostrò. Si voleva dimostrare che l’Italia era ormai ingovernabile e che perciò un colpo di stato era necessario, o che almeno era necessaria una nuova svolta a destra intorno alla DC. In reazione a ciò, proprio ampliando l’ingovernabilità che gli estremisti neri volevano realizzare con le bombe, sorse il terrorismo di sinistra. Questo terrorismo di sinistra era caratterizzato da una doppia tendenza.

   La prima tendenza del genere, sempre minuscola, ma che ebbe potentissima eco, era incarnata delle Brigate Rosse, e riteneva che il fascismo, o qualcosa del genere, pervadesse ormai tutto il capitalismo mondiale (il SIM, o “sistema imperialista delle multinazionali”) e che il fascismo in senso forte, manifestatosi in Italia con taluni episodi di tremendo stragismo, non fosse un fenomeno orrendo di piccole bande eversive nere (efferate e criminali, ma omologhe alle piccole minoranze eversive rosse, che scambiavano l’Italia con la Grecia come quelli di sinistra la scambiavano con Cuba, con le stesse pressoché nulle possibilità di prendere il potere in un grande Paese chiave dell’Occidente), ma il nemico incombente da battere, in una specie di eterno 1943/1945. Tra loro infatti c’erano taluni vecchi partigiani che sin dalla Resistenza avrebbero voluto trasformare la “rivoluzione antifascista” in “rivoluzione socialista”, sempre nel nome del pericolo fascista: il che poi spargeva, e interpretava, un odio mortale verso i neri, come se fossero stati tutti terroristi. (Analogamente i neri vedevano i brigatisti rossi non come una piccola setta ostile al PCI, ma come l’avanguardia dei “comunisti”).

   La seconda tendenza terrorista di sinistra, propria di Prima Linea, formata da una piccola ala più estremista di ex militanti di Lotta Continua, si illudeva che lo sbocco della stagione delle grandi lotte operaie potesse essere la rivoluzione proletaria: rivoluzione che il guevarismo all’italiana avrebbe dovuto promuovere tramite atti esemplari di violenza “proletaria” (comunque a rivoltellate).

   Il brigatismo rosso culminò nell’assassinio di Aldo Moro del 1978[4]: omicidio bieco, che, visto a posteriori, segnò l’inizio della fine della prima Repubblica (e forse l’inizio – pur tra un’impennata e l’altra – della quarantennale decadenza dello Stato in Italia: decadenza per fortuna controbilanciata da una “società civile” piuttosto dinamica, che – nonostante la palla al piede di uno Stato anchilosato – rende l’Italia seconda potenza manifatturiera in Europa).

   Come insieme la nuova rivoluzione aperta dal Sessantotto fallì, non solo in Italia, ma dappertutto (a parte l’alternativa di sinistra nella Francia gollista). La violenza terroristica, anzi, fu pure il rigurgito dello scacco della rivoluzione democratica e sociale del Sessantotto: la sua malattia mortale.

   Ma constatata la “rivoluzione democratica e sociale mancata” del Sessantotto, qual era la cultura – nel senso intersoggettivo, socioculturale e non certo libresco del termine – che operando come “il morto che afferra il vivo” (avrebbe detto testualmente Marx nelle opere citate sul 1848 scritte intorno al 1850) – condizionò o dominò l’uomo in rivolta del Sessantotto provocandone la disfatta? – Non era forse il marxismo stesso, se non in quanto tale in quanto rimasticatura di discorsi rivoluzionari desueti – oltre a tutto non a caso già sconfitti al tempo loro in Europa Occidentale, e non per caso, nel primo dopoguerra (pur con importanti “aggiornamenti”, che ci furono in modo cospicuo)?

Ormai, al proposito, si dovrebbe riconoscere che tutti i libri e pensatori importanti del Sessantotto erano o autori degli anni Venti (o anche molto anteriori), oppure loro epigoni più o meno geniali, e non anticipatori del 2000 e oltre. Essi aggiornavano culture comprese tra Marx e gli anni Venti-Trenta del Novecento. Quest’esprimere una cultura del passato, solo riadattata, è indizio e annuncio di sconfitta. Ecco cosa ci ha insegnato Marx sul 1848-1850, ma più in generale per le rivoluzioni.

   Persino la sinistra del PCI, da Ingrao a Rossana Rossanda, era in sostanza una corrente che riprendeva Gramsci da sinistra, da quello dei consigli di fabbrica del ’19-20 a quello dei Quaderni del carcere filtrato da Togliatti (in sostanza riconsiderato e un poco rettificato in modo più conforme all’originale gramsciano, senza i tatticismi che aveva dovuto “infilarvi” il geniale politico Togliatti, nel tempo del trionfo della DC e della guerra fredda). Anche il marxismo operaista – che io considero il più creativo del tempo e che non a caso “per li rami” è ancor vivo oggi – si connetteva moltissimo a Marx, riletto in una chiave un po’ spontaneistica e soprattutto luxemburghiana. Anche se l’analisi delle situazioni di fabbrica e delle lotte che l’operaismo marxista faceva era straordinariamente originale e innovativa, le categorie interpretative, e persino le proposte politiche, erano quelle dei Grundrisse e del Capitale di Marx nonché di opere di Rosa Luxemburg del 1898 e 1908 come Riforma sociale o rivoluzione? o Sciopero di massa, partiti e sindacati, applicate al presente. Ci si connetteva al Lukàcs di Storia e coscienza di classe (1923) o a Korsch e altri (autori per altro straordinari, ma non più di Dewey o Popper in campo liberaldemocratico). Persino Marcuse si radicava nel marxismo della prima Scuola di Francoforte prima del ’33, sia pure creativamente ripensato. C’erano poi i leninisti (io lo ero, sia pure sempre cercando di conciliare leninismo e marxismo operaista)[5], ma faceva così persino un notevole personaggio di allora, malinconicamente finito a celebrare in Senato, per il PD, mesi fa, in modo commosso, ma credo ormai patetico più o meno per tutti, il centenario della Rivoluzione d’ottobre di Lenin – prima rivoluzione proletaria vittoriosa nella storia del mondo, primo potere operaio insediato in un grande Stato del mondo – Mario Tronti, già leader del gruppo operaista “Classe operaia” e autore nel 1964 di un celebre articolo intitolato Lenin in Inghilterra.[6] Pure Lelio Basso era condizionatissimo dal suo retroterra massimalista unitario degli anni Venti, e imbevuto di Rosa Luxemburg, di cui era pure fine studioso (anche se il suo è un pensiero complesso, in cui il nesso tra democrazia e rivoluzione è il focus, e andrebbe ristudiato tutto, credo, proprio in tale chiave, anche lasciando cadere i cascami del massimalismo socialista e del marxismo leninista, che in lui c’erano, pesavano e che ne spiegano la scarsa rilevanza politica immediata dopo il 1948 e, dopo una sorta di ritorno di fiamma, tra 1958 e 1963: e basta)[7]. Tutti i gruppi marxisti operaisti, leninisti e non – dai “Quaderni rossi” a “Classe operaia” e da “Avanguardia operaia” a “Lotta continua” – innestavano idee di Rosa Luxemburg, ma pure del marxismo “francofortese”, sul mondo operaio reale (merito immenso), in modo originale, economico-sociologico, ma sempre in linea col marxismo occidentale degli anni Venti, ossia in linea con una cultura morta e sconfitta da un quarantennio (e lo dico tristemente perché io pure la pensavo così)[8]. Persino le grandi teorizzazioni sul marxismo come “vera scienza”, fondata sul determinismo economico e storico, di Louis Althusser – popolarissime nella sinistra “di classe del tempo”, alla ricerca di un fondamento di “vera scienza” del suo agire – in realtà erano persino meno profonde dei saggi economici omologhi di Lenin o di Bordiga, ossia erano una mera forma di scolastica marxista. Questo approccio razionalistico, “scientifico”, materialista a tutto tondo, era omologo a quello di Lucio Colletti, che dopo aver dato straordinarie prove in materia, si accorse che il tutto non stava in piedi ed ebbe una deriva sempre più riformista, sino a diventare berlusconiano[9].

   Persino il gruppo più rappresentativo dello “spirito del Sessantotto”, che a mio parere è stato “Lotta continua” (che quasi lo incarnò), aveva tutti i tratti del marxismo operaista, uniti però ad una sorta di spontaneismo rivoluzionario, che considerava la rivoluzione come prassi in atto (per me molto simpaticamente e creativamente, però con una tendenza a giocare col fuoco che era molto, molto pericolosa[10] e che in una parte estrema confluì più tardi appunto nel terrorismo di “Prima linea”). C’erano persino gli stalinisti dichiarati: i cosiddetti marxisti-leninisti maoisti (dal cosiddetto “Partito Comunista d’Italia marxista-leninista” di Dinucci e “Nuova Unità” all’Unione dei Comunisti Italiani di Aldo Brandirali, col suo settimanale “Servire il popolo” incredibilmente folcloristico: un Brandirali poi democristiano di destra a Milano, con Massimo De Carolis, per anni presentato comicamente dall’UCI come “luce della rivoluzione proletaria” e “capo del proletariato rivoluzionario italiano”). Gira e rigira erano stalinisti che riducevano – proprio come i più rozzi epigoni di Baffone – il leninismo o maoismo a un vero Breviario, con dogmatismo e fanatismo tutto recitato e stentoreo, come se avessero avuto il Verbo dal Signore: con approccio che in non pochi elementi poi confluì nel brigatismo rosso (che infatti si credeva “marxista-leninista”). Il PSIUP fu una sorta di partito cerniera, che connetteva e in parte viveva “tutte” tali tendenze (salvo quelle violente, che oltre a tutto arrivarono dopo la sua fine del 1972), tendenze che infatti l’avevano pressoché tutte momentaneamente attraversato a livello di “capi”, e importanti “capetti”, delle parallele e successive chiesette extraparlamentari[11].

   Ora uno potrebbe dirmi (e, lo assicuro, “consolarmi”, perché poi a tali cose ho sempre seguitato a ripensare), che in ciò non c’era niente di male, ma anzi c’era molto di bene (oltre a tutto pensando ai poveracci “senza storia” di oggi), perché il marxismo non era e non è, neppure nel XXI secolo, tutto quanto da buttare. Potrebbe pure dirmi che comunque quel che è capitato non c’entra niente di niente con la mia lamentata distinzione tra struttura e sovrastruttura, tra sfera dell’economia e sfera della politica (Stato) e coscienza, o con la visione polemologica che spostava la storia come storia di guerre dagli Stati alle classi dette inconciliabili, da me visti come tallone d’Achille del marxismo e della cultura del Sessantotto.

   Su ciò metto un punto fermo. Non ho mai negato, e non nego neanche ora, che il marxismo, in tutte le espressioni richiamate e in altre ancora, ci abbia dato moltissimo, e non lo butto nel cesso neanche in questo 2018, pur non dicendomi più marxista né in filosofia né nella visione del socialismo (sono questi due aspetti quelli in cui massimamente divergo da esso: la “filosofia materialistica” e la “visione del socialismo”). In sintesi, in proposito, la mia conclusione è questa: il marxismo ci ha dato e dà molto, anzi moltissimo, ma solo nella pars destruens, nella “critica dell’esistente”; e anche lì più come critica sociologico culturale della civiltà borghese che come teoria dell’essere, o dell’economia, o come “via al socialismo”, o al post-capitalismo (su cui fa, e faceva, acqua da tutte le parti; e pure nel “Sessantotto” era già “il morto che afferra il vivo”). Il marxismo, dall’inizio – dal 1844 – ai giorni nostri ha “semplicemente” messo in campo – però in base a presupposti opinabili, e illustrando “leggi” economiche pretese tali, e da oltre un secolo sempre dubbie per molti pure dal cervello fino, da Bernstein al Colletti post-marxista – una messe enorme di critiche della civiltà borghese: critiche che in effetti sono state e sono tali da persuadere moltissimi tra noi, anche oggi, che nel mondo “borghese” o capitalistico in cui siamo non si possa vivere umanamente, perché tale “mondo” comporta il trattare gran parte della gente che lavora come merce comperata sul mercato e spremuta in produzione (persino quando si tratti, come oggi, soprattutto di “spremitura di cervelli”). E comporta un voler far soldi a tutti i costi sulla pelle altrui, e sviluppando funzionalmente, in tutti, l’egoismo più bieco (dal momento che fare “più soldi” e “più potere”, con il godimento connesso, è l’ideale segreto, o non segreto, del “modello dominante” vero). E comporta una distruzione dell’habitat naturale e pure urbano senza fine, che ora ci fa vedere persino oceani che si riempiono di plastica. E comporta gente che muore di cancro a milioni e milioni, a causa di malattie indotte da un inquinamento spropositato, necessariamente prodotto da un sistema o civiltà in cui c’è “un solo” dio, il Denaro, e “a lui” tutto va posposto. Però i modelli da cui tali analisi partono, e le vie per superare la barbarie capitalistica o il capitalismo imbarbarito, già nel Sessantotto e dintorni non stavano in piedi e non portavano da nessuna parte o se attuate peggioravano le cose (in tutte le forme, da quelle più “ragionevoli” a quelle audacemente eretiche). Lì cascava e casca “l’asino”.

   Si tratterebbe però di dimostrarlo in riferimento a tali punti chiave – economicismo sociale a sfondo polemologico, visione errata dei nessi tra Stato riforme e rivoluzione e anche della relazione tra dinamismi della mente e della prassi. Portate pazienza (se volete), e apprestatevi a leggere la terza e quarta parte.

(Segue)

 

NOTE

[1] A differenza dei bolscevichi come dei nazisti, qualcuno aveva compreso che in realtà gli Stati Uniti erano già diventati la prima potenza mondiale sin dal primo dopoguerra: era F. S. NITTI, come emerge dai suoi libri: La tragedia dell’Europa. Che farà l’America?, Piero Gobetti, Torino, 1924 e La decadenza dell’Europa. Le vie della ricostruzione, Bemporad, Milno, 1922.

[2] Al proposito è fondamentale, in termini socioculturali: P. ORTOLEVA, I movimenti del ’68 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma, 1988. Ma ora sarà pure da vedere con cura: E. MORIN, Maggio 68. La breccia, Cortina, Milano, 2018. Ho pure vagliato con attenzione il già citato: E. DEAGLIO, Patria. 1967-1977, Feltrinelli, 2017, che ricostruendo tutto in dettaglio di mese in mese e di anno in anno, cercando di dar conto di tutti gli aspetti, presentando un’immensa massa di dati, qui è prezioso.

[3] Il 18 marzo 1968 è approvata la legge delega sul sistema delle pensioni, da modificare in senso retributivo invece che contributivo, base della riforma dell’anno successivo votata il 30 aprile 1969, con forte iniziativa del socialista ex sindacalista della CGIL Giacomo Brodolini. Il 18 marzo 1969 è firmato l’accordo tra confederazioni sindacali e Confindustria pe abolire le gabbie salariali e per garantire un minimo salariale uguale per i lavoratori di tutta la nazione dal 1972. L’11 dicembre 1969 per iniziativa del ministro Tristano Codignola vengono liberati gli accessi universitari, consentendo per la prima volta l’iscrizione a qualunque Facoltà a chi abbia superato un corso quinquennale di scuola media superiore. Il 20 maggio 1970 è promulgata la legge poi detta Statuto dei lavoratori. Il 1° dicembre 1970 il divorzio diventa legge. Ho tratto tutti questi dati dalla vasta cronaca ragionata anno per anno: E. DEAGLIO, Patria. 1967-1977, cit.

[4] M. MORETTI, Brigate Rosse: una storia italiana, Intervista di C. Mosca e R. Rossanda, Baldini & Castoldi, Milano, 1998; S. SEGIO, Miccia corta. Una storia di Prima Linea, DeriveApprodi, Roma, 2005. Questi però sono punti di vista dei protagonisti, che hanno compiuto azioni disdicevoli senza pentirsene, anche se come testimoni hanno avuto certo “da dire”. Più interessante l’opera che incrocia testimonianze di terroristi e critica storica, di G. BOCCA, Noi terroristi. Dodici anni di lotta armata ricostruiti e discussi con i protagonisti, Garzanti, Milano, 1985. Importante, perché ritiene il terrorismo un movimento ampiamente condizionato e sempre utilizzato da servizi segreti più o meno deviati (e cerca di dimostrarlo in dettaglio), l’ampio studio: G. GALLI, Storia del partito armato, Rizzoli, Milano, 1986.

[5] K. MARX, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse), a cura di G. Backhaus, Einaudi, Torino, 1976, due volumi; M. TRONTI, Operai e capitale, Einaudi, Torino, 1966; A. NEGRI, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano, 1979; Intervista sull’operaismo, a cura di P. Pozzi e R. Tommasini, Multhipla, Milano, 1979; Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale, Feltrinelli, 1978; con M. HARDT, Moltitudine. Guerre e democrazia nel nuovo ordine mondiale, Rizzoli, Milano, 2004.

[6] M. TRONTI, Lenin in Inghilterra, “Classe operaia”, gennaio 1964. Lo si veda pure in: Operai e capitale, cit.

[7] Lelio Basso, forse il marxista italiano più colto e rigoroso tra quelli impegnati nella prima fila della politica socialista, in materia di analisi della natura sociale e politica dell’URSS e dei paesi connessi si collocava su una linea molto critica, ma totalmente interna agli interpreti che non negavano le basi socialiste di essi, come emerge pure nei suoi testi: Da Lenin a Kusciov, Edizioni Avanti!, Milano, 1962 e Lenin e il leninismo. Per un’analisi storico-critica, Angeli, Milano, 1975. Aveva sensibilità religiosa e apertura vera ai cattolici in quanto democratici spiritualmente motivati, come emerge nel bel libro Socialisti e cattolici al bivio. Temi per la politica di alternativa democratica, Lacaita, Milano, 1961, che del resto si colloca in quello che è stato forse il decennio più proficuo della sua vita, tra il 1956 e il 1966. Ma sulla DC Basso era segnato da una posizione alquanto settaria e molto datata, come si vede in: Il colpo di Stato di De Gasperi, Editrice Civiltà, Milano, 1953 e in: Fascismo e Democrazia cristiana: due regimi del capitalismo italiano, Mazzotta, Milano, 1975 (ma sono scritti di vent’anni prima). Tuttavia è molto interessante il tentativo di stabilire un nesso continuo tra democrazia e rivoluzione, capitalismo e post-capitalismo, come si vede in: Il principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana, Feltrinelli, Milano, 1958; Neocapitalismo e sinistra europea, Laterza, Bari, 1969 e, più di tutto, in: Socialismo e rivoluzione, Feltrinelli, 1980, che è il tentativo di enucleare una propria teoria politica. Si veda pure, ora: In difesa della democrazia e della costituzione. Scritti scelti, con Prefazione di S. Rodotà e Nota introduttiva di P. Basso, Il Punto rosso, Milano, 2009.Comunque in una storia ideal-politica del ’68 italiano e anche europeo, Lelio Basso, come Vittorio Foa (e in termini dottrinari persino di più), avrebbe un posto di rilievo.

[8] Per i miei testi in proposito, alcuni molto giovanili, che hanno a che fare con prodromi e conseguenze del Sessantotto, si vedano: Gli scritti di Lenin sul socialismo italiano, “L’idea socialista”, Alessandria, 3 novembre 1962 (recensivo: LENIN, Il movimento operaio italiano, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti, 1962); Lenin e l’attuale estremismo di sinistra, ivi, 19 ottobre 1963 (discutevo in chiave attualizzante il libro di Lenin L’estremismo malattia infantile del comunismo, del 1920, allora riproposto dagli Editori Riuniti); Attualità di Lenin, ivi, aprile 1970; Lenin in Italia. Le componenti della sinistra di fronte alla concezione leninista della classe e dello Stato, “Classe” (Edizioni Dedalo), n. 4, giugno 1971, pp. 325-389. Ho poi ripreso ampiamente questi temi nei miei libri successivi, specie in: Stato e libertà. Questioni di storia del pensiero politico, Tirrenia Stampatori, Torino, 1992, pp. 137-170; Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo. Dal 1800 al 2000, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 155-274 e soprattutto 192-257 e Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo, Moretti & Vitali, Bergamo, specie alle pagg. 114-176. Ma si veda pure il par. Ragioni profonde e stato degli “ismi” tradizionali: socialismo e comunismo, nel mio libro: I concetti politici nella storia. Dalle origini al XXI secolo, Giappichelli, 2008, pp. 242-270. In una chiave “futuribile”, ambientata nel 2064, ho discusso di Lenin anche nel mio romanzo Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo, Moretti & Vitali, Bergamo, 2014, pp. 124-128.

[9] L. ALTHUSSER, Per Marx (1965), Editori Riuniti, Roma, 1972; con E. BALIBAR, Leggere il Capitale (1965), Feltrinelli, 1972; Lenin e la filosofia (1969), Jaca Book, Milano, 1969. L’approccio materialistico scientifico, finché l’ebbe, è pure di L. COLLETTI, il cui testo fondamentale è: Il marxismo e Hegel, Laterza, 1969.

[10] L. BOBBIO, Lotta continua. Storia di un’organizzazione rivoluzionaria, Savelli, Roma, 1979.

Importanti testimonianze molto vive su quel tempo, comprese alcune annotazioni fondamentali sull’Adriano Sofri di quel tempo, sono nel bel romanzo-testimonianza di Romano LUPERINI L’uso della vita. 1968, Transeuropa, Massa, 2014.

[11] A. AGOSTI, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, cit.; F. LIVORSI, Tra carrismo e contestazione. Per una storia del Psiup, cit.; Una storia del Psiup, cit.

 

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