Il caso

Alle elementari, il mio maestro diceva che l’insegnante è un secondo padre, si preoccupa dei suoi alunni come un genitore dei propri figli.

Divenuto a mia volta insegnante ho abbracciato questa regola, preoccupandomi sempre, anche se non sempre bene, dei miei studenti, non solo del loro apprendimento ma anche del loro lato umano.

Verso la fine degli anni Novanta, Elisa, chiamiamola così, era un’allieva del terzo anno nell’istituto tecnico commerciale “Pellati”, di Nizza Monferrato.

L’avevo conosciuta durante le mie supplenze in seconda, l’anno prima, ed avevo imparato ad apprezzarla per la sua intelligenza, l’ironia e la curiosità verso tutte le cose. Sempre sorridente e disponibile verso gli altri.

Quando divenni suo insegnante, in terza, ritrovai l’Elisa di sempre almeno nei primi giorni di scuola, ma con il passare delle settimane notai un cambiamento: era divenuta malinconica, sfuggente e poco interessata a tutto.

Al principio pensai ad una situazione legata alla adolescenza, ma mi ricredetti quando il suo essere sfuggente divenne diffidenza, in primis nei miei confronti.

Chiesi alle colleghe che la conoscevano da più tempo se avessero notato qualcosa di anomalo in lei e quelle mi confermarono che effettivamente l’avevano vista cambiata e non in meglio.

Non sapevo come spiegare quel mutamento. Una mattina, mentre controllavo l’entrata degli allievi, all’inizio della giornata, la vidi percorrere il corridoio piangendo, cercando consolazione nell’amica del cuore, che le stava accanto.

La scena si ripeté le mattine successive. Al pianto sommesso di Elisa si univa l’espressione preoccupata della compagna.

A quel punto pensai che fosse necessario saperne di più. Ma come? chiederle spiegazioni di quelle lacrime sarebbe stato inutile, vista la sua ritrosia nelle ultime settimane. Dovevo però fare qualcosa, perché quei pianti tutto erano tranne che la conseguenza di un amore non corrisposto.

Un giorno, mentre ero all’entrata dell’istituto, Elisa mi passò davanti piangendo, mi guardò e scosse il capo. Rivolsi allora lo sguardo all’amica, le feci un cenno con la testa e lei con gli occhi mi fece capire che c’era un problema, e anche serio.

Ero lì, indeciso sul da farsi, quando lo sguardo cadde sul colletto sbottonato della camicetta e notai un livido nero sotto il collo. Guardai con maggiore attenzione, potevo essermi sbagliato e confondere un’ombra con qualcos’altro. No, era proprio un livido e sembrava anche esteso.

A quel punto pensai di rompere gli indugi. Ma non potevo certo chiedere all’interessata di vedere il livido, sarei apparso quanto meno inopportuno.

Pensai allora all’ insegnante di Educazione Fisica, Metilde, che oltre ad essere una valida docente era anche una buona amica.

La rintracciai, le raccontai brevemente i fatti. Lei mi promise che avrebbe indagato, entrando con una scusa qualsiasi nello spogliatoio delle allieve.

Fortunatamente avrebbe fatto lezione alla mia terza il giorno successivo e mi avrebbe fatto sapere.

Trascorsi il resto della giornata e parte di quella successiva con il timore costante che potesse accadere qualcosa alla ragazza.

Il dì successivo, alla fine delle lezioni, fui raggiunto da Metilde in sala professori e lì appresi che quello non era un livido ma la parte di un esteso livido fra il petto e la spalla.

La collega era rimasta impressionata tanto da chiedere subito spiegazioni ad Elisa. Ma questa aveva nicchiato. Era stata invece l’amica a parlare, spinta dall’angoscia per la situazione e dalla fiducia nei confronti dell’insegnante, considerata prima di tutto donna e madre.

E aveva raccontato una storia al tempo squallida e drammatica.

Fino a poco tempo prima, Elisa era vissuta nel complesso tranquilla nella propria famiglia, nonostante un padre manesco con la moglie e donnaiolo. Poi era accaduto che la madre, stanca di quell’uomo, lo aveva abbandonato, portando con sé il figlio minore ma lasciando con il padre la maggiore, che così era divenuta la donna di casa.

La situazione non si era aggravata, anzi era migliorata quando il padre si era legato ad una giovane donna quasi coetanea della figlia.

La ragazza si era trasferita a casa del compagno e fra le due giovani era nata una certa complicità.

Poi l’ospite, infastidita dal carattere violento dell’uomo, che eccedeva spesso nel bere, lo aveva lasciato, abbandonando Elisa alla mercè del padre.

Questi, incolpando la figlia di quella situazione, aveva cominciato a maltrattarla, giungendo fino ad alzare le mani su di lei quando tornava a casa ubriaco.

Lei, temendo il peggio, si barricava nella sua camera, ma lui non desisteva e più di una volta aveva tentato di forzare la porta, secondo l’amica anche per fare altro…, e proprio nell’ultima occasione, Elisa, mentre tentava di chiudersi in camera, era stata aggredita con tale violenza dal padre da riuscire a divincolarsi solo per mera fortuna.

Ormai la ragazza era terrorizzata. Bisognava fare qualcosa prima che accadesse l’irreparabile.

Decidemmo di parlarne subito con il preside, perché attraverso lui fosse la scuola intera a muoversi. Però conoscevamo la persona, docente colto, sensibile, ma lento di fronte a certe iniziative.

Contattammo il vicepreside e con lui ci presentammo dal dirigente per illustrargli il caso. Quello ascoltò con attenzione, anche se con una punta di velato fastidio, e alla fine della nostra breve relazione disse: “Bene, informerò i carabinieri di Mombercelli, che lo convocheranno per i dovuti chiarimenti.”

Noi insegnanti ci guardammo in faccia attoniti. La nostra urgenza rischiava di venire vanificata dai tempi burocratici, con la possibilità che, dopo il colloquio con il maresciallo, quel padre violento potesse rivalersi sulla figlia, rea di essersi confidata con qualcuno, facendole del male.

Alle nostre rimostranze, il preside rispose che seguire una strada alternativa a quella di informare i carabinieri gli avrebbe fatto commettere un illecito, dato che come pubblico ufficiale aveva l’obbligo di denunciare un fatto del genere all’autorità giudiziaria. E su questo punto apparve fermo.

“E così per rispettare la norma facciamo ammazzare la figlia da un padre violento” rispose Antonio, il vicepreside.

Parlava con cognizione di causa, conosceva quel padre e lo riteneva capace dei gesti peggiori.

Chiedemmo al dirigente di darci una possibilità prima di informare i carabinieri.

“Parliamo con il parroco di Mombercelli.” dissi quasi senza pensare.

“La famiglia di Elisa è protestante… frequenta la comunità di Mombercelli.” risposero Metilde e Antonio.

“Parliamo con don Alberto (l’insegnante di religione) – aggiunsi quasi d’istinto- magari può aiutarci.”

Il dirigente ed Antonio non erano molto favorevoli, anzi il primo sembrava quasi infastidito, anche io non avevo più un rapporto confidenziale con il professore di religione, però mi sembrava l’unica carta veramente utilizzabile in un ambiente come quello contadino, dove legami familiari e religiosi e forti rapporti personali contano ancora.

Don Alberto si muoveva per tutta la valle Belbo e il Monferrato era noto a tanti, forse poteva veramente aiutarci.

Insistetti, in questo appoggiato da Metilde. Avemmo la meglio. Il preside, con un moto di fastidio, si informò sulla presenza del sacerdote in istituto e, avendo avuto conferma, lo convocò in ufficio.

Don Alberto(stupito) ci raggiunse quasi subito e, dopo aver ascoltato in breve la storia, rispose che avrebbe parlato con il pastore di Mombercelli, con il quale era in ottimi rapporti, per far sì che quello premesse sul padre di Elisa affinché desistesse dai suoi atteggiamenti violenti.

Aggiunse che il pastore era una persona molto energica ed altrettanto ascoltata dalla comunità protestante. Ciò ci sollevò, ma chiedemmo anche che facesse in fretta perché non c’era tempo da perdere.

Don Alberto rispose che lo avrebbe contattato in giornata.

Uscimmo da quell’ufficio con sentimenti controversi. da una parte eravamo soddisfatti per aver avviato la macchina del soccorso e dall’altra temevamo che la situazione precipitasse.

Trascorremmo i giorni successivi in ambascia, sempre con il timore di non vedere più Elisa a scuola.

Elisa invece continuò a venire a scuola, ma non entrava più piangendo. Il volto era serio ma non più teso come nei giorni passati e noi cercavamo di scorgervi ogni piccolo cambiamento.

Metilde, parlando con l’amica del cuore, seppe che il comportamento del padre era cambiato, pur continuando a bere, aveva smesso di essere violento verso la figlia.

Apprendemmo poi da don Alberto delle minacce di provvedimenti del pastore nei confronti di quel padre se avesse continuato a condurre una vita dissipata e ad essere aggressivo verso Elisa.

L’anno dopo, quando ormai insegnavo ad Alessandria, appresi che l’uomo aveva riallacciato i rapporti con la propria moglie, che aveva fatto ritorno a casa insieme a figlio minore, e che Elisa era tornata a sorridere.

Egidio Lapenta

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