Il confine

Giunsi al CAR di Cuneo il 14 gennaio 1982, faceva tanto freddo e c’era neve ovunque. Nei viali e nel piazzale dell’adunata i cumuli erano così ghiacciati che si faticò non poco per toglierli.

Lo scaglione di gennaio era quello del giuramento solenne in piazza Galimberti, doveva essere perfetto, anche per non sfigurare di fronte agli ufficiali stranieri presenti alla cerimonia. Perciò “attenti”, “riposo” e così via.

Era così tanto l’addestramento formale che a volte mi domandavo se il servizio militare fosse tutto lì e se valesse la pena chiamare parecchie decine di migliaia di giovani ogni anno per dire “signorsi” o stare sull’attenti.

In realtà i più di noi avrebbero fatto esperienza nei corpi di appartenenza a volte anche in maniera pericolosa, quasi al limite fra la vita e la morte.

Il 1982 fu uno degli ultimi “anni di piombo”, una coda che dava ancora i suoi colpi.

A febbraio, a Santa Maria Capua Vetere, alcuni brigatisti rossi si erano introdotti in un deposito militare, neutralizzando il presidio e portando via le armi.

Era andata bene perché nessuno si era fatto male. Peggio era stato a Salerno, dove un attacco terroristico ad un piccolo convoglio militare era costato la vita ad un giovane graduato dell’esercito e a due agenti di polizia.

Se nel primo episodio erano emerse inadempienze dei soldati e scarso addestramento, nel secondo, la risposta all’attacco era comunque costata molto cara in termini di vite umane.

I fatti allarmarono tutti, comandi e soldati. Morire così, nel fiore degli anni, mentre si assolveva ad un obbligo civico.

Ci si sentiva impotenti di fronte a gente che aveva dimestichezza con le armi ed era stata addestrata chissà in quale campo guerrigliero.

Le misure di sorveglianza furono rafforzate, giungendo progressivamente a far montare le guardie con il colpo in canna. Tanta era la preoccupazione dei comandi e forte il timore di noi soldati che ciò potesse portare a qualche disgrazia.

Il ricordo che ho di quell’anno è quello di una vita sospesa, sempre in attesa di un qualcosa di brutto e sempre con lo stesso pensiero: ”Come reagirò?

La preoccupazione nasceva anche dal fatto che molti di noi, a distanza di alcuni mesi, erano ancora impacciati nell’uso dell’arma in dotazione in caso di uno scontro a fuoco.

Non tutti poi erano fucilieri o appartenenti a corpi speciali, molti erano soldati delle compagnie comando e servizi, artiglieri o mortaisti, abili a guidare o a tirare con cannoni e mortai ma non certo con le armi individuali.

Sicuramente, come affermavano i nostri comandanti, gli alpini certi errori non li avrebbero commessi. Anche se un attacco notturno di sorpresa fosse stato fronteggiato dalle poche guardie armate in servizio? Ci sarebbe stato il tempo di svegliare e far uscire anche il resto degli uomini?

Perché non si aumentava il numero delle sentinelle nelle ore cosiddette critiche (dalla mezzanotte alle sette del mattino)?

Queste domande mi frullavano continuamente nella mente. Mi tenevano compagnia a Boves, nei mesi di marzo e aprile, durante le mie guardie, nelle notti buie, gelide, quando non sapevo come proteggermi dal vento e dal nevischio, e nelle ore più adatte agli agguati, sia perché concilianti il sonno, sia per le condizioni di solitudine in cui si trova la sentinella.

Quanti pensieri e ricordi mi ronzavano nella mente. Storie narrate da chi aveva vissuto le due guerre mondiali e scene di film in cui le sentinelle facevano sempre una brutta fine.

E più il percorso di vigilanza richiedeva attenzione e più questi pensieri mi ingombravano la mente fino ad aumentare in modo spropositato la mia tensione.

C’era un percorso in particolare che durante la notte accendeva la mia fantasia, quello dell’armeria, di cui un lungo tratto era compreso fra i magazzini e il muro di cinta, oltre il quale campeggiava un edificio abbandonato, un tempo residenza delle famiglie del personale militare. Le persiane aperte davano alle finestre l’aspetto di occhi vuoti che ci fissavano nel buio della notte.

Sulla casa circolavano strane storie e tutte le volte che costeggiavo quel tratto di muro di cinta mi prendeva un brivido e guardavo fugacemente verso l’alto per il timore di fissare quei vetri e di vedere ciò che non c’era.

Preso dall’angoscia, avanzavo con cautela, quasi mi aspettassi di vedere saltar fuori, da dietro un albero, un terrorista.

Nelle ore notturne più “pericolose”, contravvenendo al regolamento, imbracciavo il fucile con la baionetta inastata, invece di tenerlo in spalla, e toglievo la sicura, percorrendo velocemente quel tratto di viale, che sembrava non finire mai.

Rallentavo solo al ritorno, quando intravvedevo la fioca luce dell’armeria e, in lontananza, una delle altre due sentinelle della caserma

La dimestichezza con le armi da fuoco di noi mortaisti non era quella dei fucilieri e la sicurezza di tutta una caserma era affidata solo a tre guardie armate, con un solo caricatore a disposizione:” In caso di conflitto a fuoco, finite le munizioni, avremmo usato il fucile come una lancia o una clava ?”

Mi sentivo sospeso fra la vita e la morte. Sarebbe bastato poco, un errore, per cambiare il corso della propria esistenza. Ma forse era sempre stato così anche per chi era venuto prima di noi.

Fra questi pensieri, mentre scorgevo da lontano il capoposto che giungeva per il cambio, terminava il turno peggiore del servizio. I turni del resto del giorno avrebbero portato pensieri più lievi ma non avrebbero cancellato quel chiodo fisso del confine oltre il quale tutto poteva cambiare e ciò che era stato, vita, speranze e sogni futuri, sarebbe stato solo un ricordo.

Una notte di primavera ebbi modo di sperimentare quanto fosse labile questo confine. Ebbi occasione di vivere un’altra esperienza simile, a novembre, in polveriera, ma la prima fu sicuramente più significativa.

A causa di lavori di restauro era stata aperta una grossa breccia nel muro di cinta della caserma. Ciò costrinse ad aumentare di un’unità la vigilanza armata.

In quel periodo, non ricordo la ragione, il servizio di guardia era affidato ad entrambe le compagnie di stanza in caserma, la 23° fucilieri e la 106° mortai (la mia).

La 106° aveva il compito di controllare la breccia. In quell’occasione mi capitò il turno peggiore, quello fra le 03.00 e le 05.00.

Trascorsi quelle due ore quasi sempre in prossimità del grosso buco, con lo sguardo rivolto al buio della campagna, in attesa, ad ogni scricchiolio, di vedermi saltare davanti qualcuno armato di tutto punto.

Avevo tanta paura. Per sicurezza decisi di appoggiarmi al muro, ad una determinata distanza dal buco, per controllarlo senza essere visto.

Ad un certo punto, udii, o mi sembrò di udire un rumore diverso da quelli soliti. Fu un attimo. Imbracciai il Garand, con la baionetta inastata, e cominciai ad avvicinarmi piano piano alla breccia, pronto a colpire l’eventuale intruso. Lo vedevo già dentro. Che faccia avrebbe avuto? Sarebbe stato solo o insieme ad altri?

Mentre avanzavo quatto quatto, udii distintamente alle mie spalle il caricamento di un’arma…erano già entrati… pensai fra me con terrore. Continuai ad avanzare piano piano come se niente fosse, togliendo intanto la sicura al fucile.

Fu un attimo, mi girai di scatto per fare fuoco, senza sapere dove e verso chi, dall’altra parte qualcuno urlò il mio nome. Mi fermai, era Claudio, della 23°, con l’arma puntata su di me. Aveva visto un’ombra scivolare lungo il muro e si era spaventato. Dopo un momento di grande tensione e paura ci sciogliemmo in una manifestazione di gioia per lo scampato pericolo.

Non parlammo quasi con nessuno di quell’episodio per timore di ritorsioni, ma ogni tanto fra noi due ricordavamo il fatto, pensando a quanto tragico avrebbe potuto essere.

Fra me comunque tornavo spesso a quell’episodio, specie quando, divenuto graduato, commentavo con altri caporali gli errori degli ultimi arrivati, neanche fossimo diventati chissà quali strateghi.

A volte però si ragionava con cognizione di causa. Ricordo, ad esempio, di quell’alpino che, smontato dal servizio, dopo aver estratto il caricatore, stava sparando il colpo di prova “arma scarica” non nell’apposito contenitore ma alle spalle del capoposto… aveva ancora il colpo in canna e solo la prontezza dell’armiere impedì una tragedia. Ancora una volta il labile confine fra vita e morte.

Una sera di dicembre, mentre uscivo dalle camerate, fui fermato da una giovane recluta che aveva prestato servizio con me in polveriera, a novembre.

Studente di matematica alla Cattolica, credente era stato catapultato in un ambiente in cui nonnismo e prevaricazione dominavano, mi confidò la sua disperazione, tanto che, durante il servizio di guardia in polveriera, aveva deciso di farla finita, sparandosi un colpo di fucile.

Lo aveva fatto ravvedere il richiamo periodico che ogni guardia riceveva via radio dalla base. Quella voce lo aveva salvato. Lui, credente, aveva peccato pensando al suicidio.

In quell’occasione veramente il “gracchiare “di una ricetrasmittente aveva fatto la differenza, salvando una vita.

Ciò che però ancora mi lascia l’amaro in bocca è che, di fronte alla disperazione di quel ragazzo, non trovai altro modo che scrollarlo nel rozzo modo militare che avevo appreso in quegli undici mesi di naja.

Egidio Lapenta

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