Il fantasma

Le storie sui fantasmi sono intriganti, ma questa che mi accingo a narrare non so come definirla: una storia di suggestioni o di presenze extrasensoriali?

Erano i primi giorni di marzo dell’82 e con la mia compagnia ero impegnato nei campi invernali in Valle Maira.

Dopo un continuo mettere e levare il campo fra una località e l’altra, giungemmo a San Damiano Macra per un periodo di permanenza di alcuni giorni.

La possibilità di stare in un luogo umanizzato, di vedere qualcuno che non fosse solo un alpino, per me era veramente tanto, considerato che trascorrevo una buona parte della giornata (dall‘alba fino a dopo il tramonto) a piantonare l’entrata del campo, senza la possibilità di essere sostituito, anche per le esigenze impellenti.

Il cambio era previsto, ma quello che doveva darmelo, il furiere anziano, si era ammalato, e anche quando guarì continuò a non sentirsi in forze (almeno così diceva) per sostituirmi, svolgendo quindi solo i compiti del suo incarico.

Quando la compagnia usciva, per le marce attraverso boschi e campi innevati, rimanevo con un radiotelegrafista, con gli addetti alla cucina, il furiere e il sergente maggiore C, ma questo era meglio non incontrarlo, non perché fosse tutto di un pezzo, ma perché era il contrario di ciò che dovrebbe essere un buon sottufficiale.

Quindi stavo lì solo soletto a presidiare l’entrata e l’area servizi.

A San Damiano il campo era diviso in due parti distanti fra loro: gli alloggi, collocati in un vecchio deposito che dava su un cortile adibito a parcheggio auto della comunità montana, e il comando e servizi, posto in una piazzetta dove si affacciavano la sede della comunità montana e alcune abitazioni.

Abituato a piantonare l’entrata di polveriere dismesse e campeggi abbandonati, dove entravano solo mezzi militari, trovandomi a vigilare l’entrata di quella piazzetta, pensai di impedire l’accesso a tutti i veicoli non militari. Così il primo giorno di servizio a San Damiano fu “inaugurato” da un diverbio fra me e il presidente della comunità montana Valle Maira, che pretendeva (a ragione) di parcheggiare il suo veicolo nella piazzetta e recarsi così nel proprio ufficio.

Urlò talmente tanto, minacciando di lasciare l’auto davanti alla sbarra di accesso, che attirò l’attenzione del sergente maggiore R, casualmente presente, il quale mi ordinò, in malo modo, di far passare tutti i veicoli.

Obbedii, ma pensai che fosse un ben strano accampamento militare quello in cui si permetteva a tutti (pedoni e veicoli) di entrare senza controlli.

Più tardi, additato dal sergente maggiore al capitano della compagnia, venni rimproverato anche da quest’ ultimo che sarcasticamente mi disse:” Non siamo carabinieri! Loro sì che hanno l’autorità di fermare le persone!”

Ero intimorito dal comandante. Il secondo giorno dei campi mi aveva rimproverato, umiliandomi davanti a tutti (“La prenderei a schiaffi”), perché non gli avevo presentato bene la forza militare del campo, avevo la barba lunga e calzavo ancora le uose. Questo perché nessuno mi aveva dato il cambio, dato che appartenevo all’ultimo scaglione giunto in caserma, quindi potevo gridare quanto volessi senza essere ascoltato. Giorni dopo mi aveva fatto un’altra sfuriata, pretendendo che pulissi alla perfezione l’entrata sterrata del nostro campo, continuamente coperta di fango e neve marcia.

A ciò si aggiungevano le angherie che subivo, insieme allo scaglione di gennaio, da parte dei “nonni” (i soldati più anziani): dall’obbligo di fare tutti i lavori che avrebbero dovuto svolgere loro, a cominciare da quelli della cucina, al dovergli consegnare le nostre cose quando le chiedevano, a volte anche per futili ragioni. Una sera dovetti dare la mia gavetta a tre canaglie che dovevano usarla per farsi la barba.

Un’altra sera (proprio a San Damiano) assistetti ad un triste episodio: un gruppo di conducenti di muli costrinse un compagno a dormire all’addiaccio su richiesta di un ufficiale a cui aveva risposto male (“Per non punirlo con giorni di consegna”).

Temevo i “nonni” per le loro angherie, quindi stare di piantone tante ore era diventata per me un’ancora di salvezza. La sera poi cercavo di rendermi irreperibile evitando i luoghi frequentati da loro. Insieme a qualche commilitone facevamo dei lunghi giri confessandoci a vicenda angosce e speranze.

A San Damiano feci amicizia con un pensionato dell’ENEL, che tutte le mattine, andando in paese, si fermava davanti al campo per scambiare due chiacchiere con me, che stavo lì tutto solo.

Da lui, di cui non ricordo il nome ma rammento che aveva prestato il servizio militare nel 1928, appresi alcune notizie sul paese e sulle frazioni che lo sovrastavano dall’alto dei monti. Poiché avevo notato che di sera le case di quelle non erano illuminate, mi spiegò che erano ormai praticamente disabitate. Mi parlò poi della fonte minerale del paese (“Coralba”) e dello stabilimento di imbottigliamento, situato proprio nei pressi della parrocchiale. Anzi mi consigliò di bere l’acqua che sgorgava liberamente da una fontanella vicina all’azienda per fare poi un confronto con la minerale in bottiglia.

Promisi che l’avrei fatto, ma il tempo a mia disposizione era limitato, di solito terminavo il servizio verso le 19,30 e la ritirata nell’alloggiamento era fissata per le 20.30. fra l’altro, a quell’ora, nei primi giorni di marzo, il sole era calato da un pezzo.

Una sera però, non ricordo per quale motivo, smontai prima dal servizio e decisi di recarmi alla fonte con il mio amico Mauro.

Quando ci incamminammo verso la parrocchiale dei santi Cosma e Damiano erano 19.30 ed era già molto buio.

Raggiungemmo la chiesa, la superammo alla nostra destra, passammo vicino ad una fontanella e poco oltre raggiungemmo un paio di cartelli segnaletici che indicavano lo stabilimento di imbottigliamento dell’acqua minerale e il cimitero. La loro collocazione però non era chiara per cui ci avviammo, senza accorgercene, verso il cimitero.

Camminammo in mezzo ai campi convinti di dirigerci verso la fonte di acqua minerale. Intorno a noi era buio fitto. Non si vedevano luci di abitazioni, o fari di veicoli in transito, a distanza. Non c’era un alito di vento e faceva freddo.

Mauro mi fece notare quell’ oscurità quasi spettrale. Io però, essendo in compagnia, mi sentivo sicuro e per sdrammatizzare un po’, in attesa di vedere le luci dello stabilimento, cominciai a scherzare sulla possibilità di chiedere informazioni a qualche fantasma di passaggio. Mentre “sproloquiavo”, ridendo solo io delle mie battute, udii Mauro gridare, indicandomi in lontananza una luce che si muoveva dall’alto verso il basso nel buio.

Lo rassicurai, rispondendogli che sicuramente si trattava degli occhi di un gatto. Ma quando guardai verso il punto che mi indicava capii che non poteva essere un gatto, a meno che non fosse guercio.

Era un piccolo disco luminoso (non un fascio di luce) che, ad alcune decine di metri di distanza, si muoveva su e giù come per attirare la nostra attenzione. Ad un certo punto si fermò a mezz’aria e dopo essere rimasto così per due o tre secondi si allontanò velocemente, riducendo la propria luminosità fino a scomparire in prossimità del cimitero, la cui sagoma cominciava ad intravedersi.

A quel punto, noi, che avevamo continuato ad andare incontro alla “cosa”, cominciammo a correrle dietro vociando. Incitai Mauro a inseguirla fin dentro il cimitero. Però, mentre correvamo, udimmo sbattere violentemente il cancello del camposanto. Ci fermammo intimoriti, per un attimo cercai di convincere il mio a amico a continuare l’inseguimento, ma poi mi prese la paura dell’ignoto e indietreggiai, seguito da Mauro. Tornammo indietro correndo, fermandoci solo alla fontanella presso la chiesa, dove bevemmo un sorso d’acqua per riprenderci. Mi feci il segno della croce e recitai ad alta voce una preghiera.

Ci allontanammo da lì. Passammo davanti alla parrocchiale, recandoci verso il bar del paese, avevamo bisogno di qualcosa di forte.

Entrammo, brulicava di alpini e fra questi tanti “nonni”, sempre pronti a dare ordini e a scroccare qualcosa, ma meglio loro, vivi e vegeti, che qualcosa di evanescente e di avvolgente e quindi difficile da definire.

Ad un tavolo erano seduti Matteo, Alberto e Luigi, del nostro scaglione. Vedendoci si strinsero, facendoci sedere con loro. Eravamo pallidi, agitati ma taciturni. Cosa avremmo potuto dire? E cosa avrebbero pensato i nostri compagni? Forse ci avrebbero deriso.

Accortisi della nostra agitazione, ci fecero alcune domande. Eravamo titubanti. Alla fine mi feci coraggio e raccontai brevemente l’accaduto. Rimasero stupiti, quasi increduli. Solo Luigi sembrò dare importanza all’episodio, imputando il tutto a qualche contadino praticante la “fisica” (la magia) e in grado quindi di assumere l’aspetto di animali diversi: “Solo che se l’animale si spezza una zampa, quando torna uomo ha un braccio o una gamba rotti… e tutti si accorgono che fa la fisica.”

Risposi che non era quello il caso. Luigi ed io discutemmo ancora un po’ sull’argomento. Poi, avvicinandosi l’ora della ritirata, ci alzammo e uscimmo tutti insieme.

Fuori ci separammo. Mauro ed io ci avviammo subito verso il nostro alloggiamento. Ricordo che, ormai rinfrancato, lui continuò a far battute sull’uomo della fisica che uscito integro da casa vi tornava, dopo la magia, con qualche arto rotto, ridendo di Luigi, che passava per un “eterno” (poco sveglio).

Una volta nel nostro alloggiamento, ognuno si recò al proprio posto letto. Prima di infilarmi nel sacco a pelo, attesi alle mie cose con la mente continuamente rivolta all’episodio vissuto. Ero turbato, non sapevo darmi una spiegazione.

A distanza di tanti anni mi chiedo ancora che cosa accadde quella sera.

Fu una manifestazione extrasensoriale o piuttosto un mix di suggestione e realtà? Tante volte ho pensato che dentro il cimitero ci fosse qualche intruso, che, sentendoci arrivare, chiuse violentemente il cancello per farci pensare ad un fantasma, spaventarci e costringerci a tornare indietro. Ma se non fosse stato così? Tutte le volte che ho narrato questa storia a qualcuno ho avuto una risposta diversa.

Il mattino dopo ne parlai con il mio amico pensionato, però in termini generici, non raccontandogli l’accaduto ma chiedendogli di eventuali fatti inspiegabili successi nei pressi del cimitero. La risposta fu negativa.

Nelle ore successive, approfittando di un momento di libertà, accompagnato dal radiotelegrafista, a cui avevo raccontato tutto, tornai al cimitero, rifacendo lo stesso percorso. Mauro si rifiutò di venire.

Tutto era silenzio. Giunti al cimitero, notammo l’assenza di un custode o di un qualsiasi addetto. Il cancello risultava aperto, non di molto, ma come se qualcuno lo avesse spinto violentemente.

Era un antico manufatto di ferro con teschi sbalzati nella parte inferiore quindi abbastanza pesante. Rimanemmo lì, senza entrare, per una forma di timore o di rispetto. Attraverso l’inferriata guardammo all’interno, senza scoprire alcunché. Ci allontanammo alla ricerca di qualcosa, ma niente. Solo campi deserti. Giungemmo al bordo di un pendio da dove scorgemmo in lontananza l’attività di un cantiere. Tornammo indietro senza una risposta.

Egidio Lapenta

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