“Il viaggio”

La partenza era stata fissata per le quattro del mattino del 10 luglio 1964, ma alle due di notte non avevamo ancora preso sonno, tanta era l’emozione per il primo viaggio che avremmo fatto in auto.

L’automobile era una vecchia FIAT 600 del 1955, con il motore nel vano posteriore, le portiere controvento e i vetri scorrevoli. Mio padre l’aveva acquistata di seconda mano, pagandola 100.000 lire, in quattro rate da 25.000. Aveva ricevuto la patente di guida dalla prefettura di Alessandria il giorno precedente la partenza, non aveva né esperienze di viaggi in auto e né conoscenze meccaniche, però tanto entusiasmo, che aveva trasmesso a tutta la famiglia, ad eccezione di mia madre, sempre cauta in fatto di viaggi in auto e non sempre a torto.

La nostra era l’emozione incosciente di chi vede tutto come una bella avventura con una lieta sorpresa finale: l’arrivo alla meta.

E noi immaginavamo le facce che avrebbero fatto i nostri parenti, a cominciare dalla nonna materna, nel vederci arrivare in automobile invece che con il solito treno. Nella lettera che preannunciava il viaggio mia madre era stata deliberatamente vaga.

In famiglia, escluso mio padre (che però fu laconico) non avevamo idea del tempo che avremmo impiegato, ore, giorni? Sapevamo soltanto che la strada da Alessandria a Potenza, in Basilicata, percorrendo l’Adriatica, era lunga…molto lunga e con un tratto finale in salita … molto in salita. Infatti si sarebbe passati dai 76 metri sul livello del mare di Foggia agli 819 di Potenza.

Mio padre era stato vago anche per non impensierire la mamma, che tendeva a preoccuparsi facilmente. Una cosa era certa, avremmo fatto molte soste a causa del radiatore della 600, che andava in ebollizione dopo un cero numero di chilometri percorsi o nell’affrontare salite particolarmente impegnative, e per questo viaggiavamo sempre con una piccola tanica d’acqua al seguito.

Però vuoi mettere la bellezza del viaggio, avremmo visto il mare Adriatico, nuovi paesaggi, nuove città e forse in alcune di queste ci saremmo fermati per riposare (in macchina per risparmiare), come nei film di avventura.

Ai timori di nostra madre si contrapponeva l’entusiasmo di papà, uomo dallo spirito un po’ gitano, e di mia sorella, che lo avrebbe seguito ovunque. Io stavo nel mezzo, da una parte il viaggio in auto era una novità eccitante, dall’altro avrei preferito il più collaudato vagone ferroviario, anche se il ricordo di certi viaggi fatti sul “Treno del sole” mi terrorizzava.

Alle due di notte quindi i miei ruppero gli indugi, meglio partire, sfruttando il fresco notturno, piuttosto che attendere fino alle quattro in agitazione.

Ci alzammo, mia madre preparò il caffè, necessario per tenere sveglio l’autista, sistemò, insieme a mia sorella, le ultime cose, aiutandomi anche a vestirmi, e quando tutto fu pronto (chiusi gas e acqua, tolta la luce), uscimmo e, dopo che fu chiusa la porta a doppia mandata, scendemmo in silenzio le scale, raggiungendo il cortile, dove ci aspettava la nostra 600, già caricata con i bagagli nel tardo pomeriggio del giorno precedente.

Partimmo. Mia madre si fece il segno della croce, invocando la protezione della Madonna (rito che ripeté sempre in tutti i viaggi in auto).

Lasciammo, emozionati, Alessandria, deserta ma illuminata, dirigendoci verso Tortona. Superata Spinetta Marengo fummo avvolti dalla notte buia. Sulla strada scarsamente illuminata ci prese un momentaneo sgomento, superato da mio padre con l’espediente di accodarsi ad un vecchio camion, con il carico coperto da un telone svolazzante, che ci avrebbe fatto da battistrada.

La vecchia 600 però non riuscì a star dietro al vecchio camion, che ci seminò dopo pochi chilometri, facendoci ritrovare avvolti nell’oscurità notturna.

Mi addormentai sulle ginocchia di mia sorella e quando mi svegliai pensai che fossimo arrivati a destinazione, invece eravamo fermi in colonna, nei pressi di Voghera, a causa di un incidente. Maria Antonietta mi accarezzò il capo per farmi riaddormentare, chiusi gli occhi, mentre nelle orecchie mi ronzavano le parole di un camionista:” Domani caricamo e dopodomani scaricamo.” Mi addormentai.

Mi svegliai che era chiaro. Chiesi se fossimo arrivati. Marciavamo su Piacenza. Ad un certo punto mio padre pronunciò a voce bassa: “Rottofreno”. Mi spaventai. Cominciai a disperarmi:” Abbiamo rotto i freni!”

“Ma no- rispose papà, ridendo- siamo a Rottofreno.” E tutti risero, quasi scaricando la tensione che si era accumulata nelle ore notturne. Anzi proprio per questo, vista l’ora, come se si stesse facendo una scampagnata e non un lungo viaggio, i miei decisero di fermarsi per un caffè. E poiché il barista e i pochi avventori mattutini erano affabili, ci intrattenemmo in una conversazione sui disastri dell’ultima guerra mondiale e sul servizio militare fatto inevitabilmente ad Alessandria da uno dei clienti.

Con gli auguri dei presenti, riprendemmo il viaggio rinfrancati. Piano, piano e fermandoci una volta, per fare raffreddare il radiatore, raggiungemmo Forlì. Erano le 13.00 e forse più. Mio padre si ricordò di un vecchio amico che lavorava in questura e decise, contro il parere della mamma, che sarebbe stato bello fargli una visita in ufficio.

A forza di girare e di chiedere ai passanti trovammo la questura di Forlì. Ci fermammo praticamente davanti. Papà scese dalla 600, entrò in questura e ne uscì poco dopo a braccetto di un sorridente e gioviale signore.

Questo, senza se e senza ma, ci invitò a casa sua. Una volta là conoscemmo la moglie e il figlio, persone affabili oltre che ospitali.

Una volta rifocillati e terminate le varie rievocazioni della giovinezza, ci congedammo e riprendemmo la nostra strada.

Durante il percorso incrociammo la chiassosa carovana del “Cantagiro”, che risaliva la penisola verso Milano. Eravamo entusiasti. La nostra euforia fu ben presto spenta da una foratura. Ci fermammo a bordo della statale. C’era molto traffico ed era pericoloso anche solo stare fermi accanto al veicolo. Auto e camion sfrecciavano quasi sempre senza rallentare, qualcuno strombazzava, sbraitando. Vidi la preoccupazione sui volti dei miei. Nella mia mente di bambino di nove anni balenò l’idea che il viaggio fosse terminato là, sul bordo della statale per Rimini. Ma non fu così.

Mio padre, seguito da quasi tutta la famiglia (io fui lasciato sulla 600), scese dall’auto per accingersi alla sostituzione della gomma, aiutato immancabilmente da mia sorella.

Per prendere la ruota di scorta e gli attrezzi dovette togliere la valigia dall’angusto bagagliaio anteriore, quindi fissò il cric, cercando di sollevare su un fianco la 600. La carrozzeria però era talmente decrepita che in quel punto cedette e quindi fu necessario cercare un punto d’appoggio più solido. Trovatolo, procedette nella sostituzione della gomma. Quindi messa ogni cosa al proprio posto, riprendemmo il viaggio con un senso di sollievo, che aumentò quando ci fermammo presso un gommista per riparare quella bucata.

Riparata la gomma e gonfiate le altre quattro, riprendemmo la via senza particolari problemi, se non il caldo all’interno dell’abitacolo, specie nella parte posteriore, dove non c’erano deflettori e dove l’aria giungeva a mala pena. Che sollievo quando ci sorpassavano i camion, smuovendo una grossa massa d’aria davano refrigerio anche a noi seduti sui sedili posteriori.

Comunque proseguimmo, facendo molta strada senza quasi mai fermarci e giungendo finalmente a vedere il mare poco prima di Rimini. Fu nostro padre a farci notare il mare, che da quel momento ci avrebbe accompagnato per gran parte del viaggio. Lo disse con quel tono fra il meravigliato e misterioso che usava quando voleva evidenziare la bellezza di qualche cosa, sia che si trattasse di un viaggio sia che fossero un paesaggio o una situazione particolare.

Maria Antonietta ed io guardammo il mare alla nostra sinistra-” Il mareee” dissi quasi incantato. Proseguimmo per un po’, poi quando fu possibile ci fermammo per poterlo ammirare. Era il crepuscolo, il cielo tendeva al nero, il colore dell’acqua era grigio, ma il contrasto con le luci della costa, dei pescherecci e delle prime stelle rendevano il paesaggio fiabesco.

Riprendemmo il viaggio. La mamma chiese a papà se fosse stanco e se volesse riposare un po’, ma lui, galvanizzato dal “momento magico, rispose di no, avrebbe sfruttato la riduzione del traffico e il fresco della sera, che raffreddava naturalmente l’asfittico radiatore della 600, per macinare chilometri.

Era buio, noi continuavamo a viaggiare e io non vedevo la fine. Mi addormentai sulle ginocchia di Maria Antonietta. Mi svegliai all’alba, eravamo fermi:” Siamo arrivati?” chiesi speranzoso

“No- rispose mia sorella- siamo a Pesaro.”

Mi guardai attorno e vidi un’imponente rocca. Mio padre non era in auto. Era andato in un bar vicino, aperto da poco, per l’ennesimo caffè. Quando tornò ci portò tre cappuccini. Il calore di quella bevanda, sorbita dai grossi bicchieri di carta, ci rinfrancò.

Ci riavviammo. Attraversammo città e paesi nuovi, Fano, Senigallia, Ancona, Porto Recanati, Cupra marittima, San Benedetto del Tronto e sempre più giù verso Pescara.

Era bello vedere i centri grandi e piccoli nel loro risveglio e le persone mentre riprendevano le loro attività giornaliere ed era bello soprattutto ammirare mare e spiagge sabbiose per certi versi quasi incontaminati.

“Con API si vola!” Così diceva un cartello pubblicitario lungo la strada che mi fece pensare a Domenico Modugno, testimonial di quella marca di benzina a “Carosello”. Ma noi non volavamo, anzi, dovevamo fermarci frequentemente per far raffreddare il motore, cambiare l’acqua al radiatore e rinnovare la scorta.

Lo facevamo comunque presso case cantoniere o in prossimità di centri abitati. Delle case cantoniere ricordo il colore rosso mattone, la presenza delle famiglie dei dipendenti e i bambini, che giocavano felici fra gli oleandri. Per un attimo mi illusi che avessimo volato anche noi quando lessi da lontano, su un cartello segnaletico, Potenza.

“Potenza!” gridai quasi come il marinaio di Colombo. Ma fu subito una delusione. Non era Potenza ma Potenza Picena, in provincia di Macerata”.

E fu qui che finalmente mio padre svelò il segreto, dicendo chiaramente che eravamo a metà strada e che se tutto fosse andato per il meglio saremmo arrivati dalla nonna, a Potenza, a notte inoltrata e dopo un ultimo tratto molto in salita.

Rimasi deluso. Comunque fra una sosta per il radiatore e una in trattoria, nei pressi di San Benedetto del Tronto, nel pomeriggio giungemmo a Pescara. Qui evitammo una multa quasi a furore di popolo per un’infrazione fra l’altro commessa da un’auto belga: “Multate gli italiani invece degli stranieri che fanno i padroni” gridò una signora pescarese al vigile urbano che ci aveva fermato.

Facemmo una lunga sosta nella omonima pineta, per rifocillarci, insieme ad altre famiglie in viaggio come noi verso sud.

Si stava bene sotto quegli alberi, non sarei più andato via. Ma ripartimmo, perché se no:” Chissà quando saremmo arrivati”.

La 600 si avviò rumoreggiando. Io ero affascinato dai trabucchi e dalle loro grosse reti che si vedevano sulla costa. Quanto avrei voluto vivere su uno di quelli, nutrendomi di pesce.

Il mio fantasticare fu però interrotto bruscamente da un:” La dinamo non funziona. La spia rimane accesa” pronunciato da mio padre con tono preoccupato. Eravamo a Francavilla a Mare, dopo Pescara, nuovamente mi balenarono brutti pensieri, ma anche questa volta mio padre fu pronto, chiese di un elettrauto ad alcuni passanti e ci ritrovammo in un’officina a poche decine di metri dal mare. E così mentre noi passeggiavamo ai bordi della spiaggia, respirando l’aria salmastra, l’elettrauto sostituiva la dinamo in quell’officina dove il profumo del mare si mescolava all’acre odore del lubrificante.

Riprendemmo il viaggio sollevati. Uscimmo dall’Abruzzo, attraversammo il Molise e finalmente superammo il confine con la Puglia. Era pomeriggio inoltrato e il caldo era insopportabile, reso ancora più soffocante dalle stoppie dei campi incendiate dai contadini dopo la mietitura.

Sul sedile posteriore mia sorella ed io quasi soffocavamo per l’afa. L’arsura ci fece consumare la poca acqua che avevamo per noi, mentre il radiatore, rumoreggiando, ci costringeva ad ancor più frequenti, quanto insopportabili, fermate per farlo raffreddare.

Quello che ci spaventò di più però furono i mezzi pesanti, spesso impegnati fra loro in audaci sorpassi. Senza contare quelli stracarichi che a fatica la 600 riusciva a superare. Quante volte guardai con invidia gli altri veicoli che, superandoci, si allontanavano a volte strombazzando, mentre mio padre, senza acredine, diceva:” Eh, sono macchine più nuove. Noi andiamo senza forzare l’andatura. Chi va piano va sano e lontano”.

A Serracapriola facemmo una deviazione per trovare una fontana dove approvvigionarci di acqua.

Trovatala, chiedemmo ad un’anziana signora, che stava riempiendo la propria brocca, se l’acqua fosse fresca, e questa con tono quasi rassegnato rispose in dialetto:” Qua solo l’acqua abbiamo buona”. Un secolo di questione meridionale sintetizzato in quella frase.

Toccammo Foggia, superammo San Severo, giungendo finalmente a Cerignola, dove per l’ennesima volta facemmo una sosta, prima di affrontare l’ultimo tratto che ci separava da Potenza.

Mancavano più di cento chilometri ed era il tratto più tortuoso, quello dei tornanti e delle curve a gomito, le strade della Basilicata del 1964. Strade praticamente sconosciute, per giunta affrontate con il buio e con tanta stanchezza sulle spalle.

Fino a Lavello il percorso non si presentò molto diverso dai rettilinei pugliesi, tanto che pensai che forse mio papà si era preoccupato eccessivamente della tortuosità dell’ultima parte di strada. La familiarità dei luoghi poi risvegliò nei miei genitori un certo entusiasmo. Passando per Barile, mia madre disse gioiosamente: “Qui parlano albanese(ghiegghiero)”. Cominciammo invece a salire sempre di più, affrontando nell’oscurità quasi totale curve e tornanti sempre più ripidi. L’entusiasmo cessò. Eravamo preoccupati, anche perché papà di sera vedeva male. La 600 arrancava e nessuno più fiatava. Solo Maria Antonietta, sfruttando la sua vista migliore, cercava di leggere i cartelli segnaletici, indicandoglieli.

Ad un certo punto papà, per sdrammatizzare, rivolgendosi a me, che ero intimorito disse:” Ora siamo in salita e andiamo piano, ma al ritorno saremo in discesa e andremo più veloci.”

“Davvero…” risposi ma con un nodo alla gola.

“Metti la testa sulle mie ginocchia- mi disse Maria Antonietta- e cerca di dormire. Vedrai che quando ti sveglierai saremo arrivati”

“Ma quando arriviamo…” dissi quasi con tono lamentoso.

“Cerca di dormire, tu che puoi”, rispose la mamma con un tono di voce grave.

Non volevo addormentarmi, perché temevo di svegliarmi ancora una volta in viaggio, ma obbedii. Appoggiai il capo sulle ginocchia di mia sorella, chiusi gli occhi, in attesa del: “Siamo arrivati!”

Invece sentivo solo il rumore ansante del motore della 600 e mia madre che, preoccupata, invitava papà a fermarsi per riposare.

Mi addormentai. Il resto del viaggio mi fu raccontato il mattino successivo, al mio risveglio, a casa della nonna.

Egidio Lapenta

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