Io, noi e Gaber

Ieri, al termine del lungo, appassionato e appassionante documentario dedicato a Giorgio Gaber, è successo un miracolo. Finite le scene, titoli di coda, tutti seduti in un profondo silenzio, nessun applauso.

Finalmente il silenzio ( dopo che assistiamo ad applausi per persone e personaggi nei posti e nei luoghi meno indicati), un potente silenzio che offre, proprio in questa sua forza, la verità di quel che abbiamo visto.

Questo documentario parla sì di Gaber, ma anche – e forse soprattutto – parla di noi, ci fa vedere quello che eravamo e quello che siamo diventati. Un altro modo di essere vivi, un altro modo di approcciare il lavoro, l’amicizia, l’amore, la politica, dove “l’intellettuale,” che altro non è che chi si interroga criticamente su quel che gli succede intorno, aveva il coraggio dell’utopia. Quello sguardo sprofondato nel presente che sa però tenere insieme passato e futuro, uno sguardo lucido, aperto, capace di indignazione e di non adesione al potere costituito.

Ci sono canzoni e amici, c’è una Milano ancora con la nebbia e i trani, c’è aria di una bellezza semplice, di innamoramenti e baci rubati , di gite in tre sulla Vespa, aria di una gioventù che ci provava a buttare fuori quel che aveva dentro, senza aspettarsi niente e proprio per questo il destino premiava.

L’abbiamo visto tutti almeno una volta il Gaber a teatro, in quella sua creazione del “teatro canzone ” che alla fine lì davvero gli applausi servivano a tutti, per tornare a respirare, come quel suo grido finale, che lasciava scappar fuori genio e fatica.

Ci sono figli e genitori che ancora si parlavano, avevano regole da seguire e regole da trasgredire, sapendo però il prezzo che si pagava. Tradire non è altro che tradurre in modo nuovo quel che non ci appartiene più, ma con gentilezza, per il rispetto che ancora si portava a chi prima di noi aveva tentato la strada.

Cosa ci lascia Gaber? Credo quello che ogni uomo e donna dovrebbe lasciare, i suoi passi tentati in sincerità e onestà, passi che hanno avuto cadute e resurrezioni, passi unici e irripetibili che però, se veri, parlano a tutti, proprio come le sue canzoni.

E’ “la via”, cioè la Vita quella che Gaber ha raccontato e ci lascia in eredità e promessa e…chiamatela come volete, io la chiamo sincronicità quel che mi è successo, poco dopo sul tram.

Un giovane ragazzo mi chiede a che fermata scendere per andare a Chinatown, dato che io vivo là gli dico chepotrà scendere dove scendo io e iniziamo a parlare. E’ un musicista, arriva da Torino, cerca fortuna con la sua musica e le sue canzoni. Per ora ci prova per strada, e gli piace , sente che parla alla gente e attraverso loro si conosce. Proprio come Gaber.

Ogni giorno è un nuovo giorno, il mondo finisce se finiamo noi di crearlo.

di Patrizia Gioia

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