IV) Ricordi e riflessioni su Rudi Dutschke e il Sessantotto

   L’idea centrale del Sessantotto fu, senza ombra di dubbio, la negazione dell’autoritarismo. Nella relazione tra persone quell’idea fece molta strada. Fu scosso, da allora, un familismo maschilista antico. Le donne affermarono sempre di più, anno dopo anno, i loro diritti. Vennero svalutate, e cominciarono a cadere, le discriminazioni verso le minoranze tradizionalmente sottomesse, fossero esse razziali o sessuali. E, almeno a livello di senso comune, il pacifismo e l’ecologismo divennero via via valori generalmente condivisi. Ma a livello di “Stato” e “sistema degli Stati”, il “Sessantotto” fallì. Infatti, sul piano politico, l’autoritarismo riprese ben presto il controllo totale della situazione nel mondo detto comunista, che essendo però stato forzatamente “congelato”, sul piano dei rapporti di produzione come delle libertà individuali, da un buon quinquennio (rispetto al ’68), e poi ancora per decenni, per la paura del “peggio”, tra il 1989 e il 1991 finì per implodere rovinosamente da Berlino a Vladivostock. Ma il capitalismo privatistico – la cui espressione più caratteristica era ed è il “modo di vivere americano” – risultò vincente, e il modello si estese, anzi, praticamente dappertutto, nelle sue forme più volgari e inquinanti, tanto che la continua accumulazione dei fattori di crisi irrisolti, oggi fa temere persino catastrofi fuor di controllo (per ora evitate solo perché se ne conosce la natura potenzialmente apocalittica).

   Lo scacco politico del “Sessantotto” non è si è verificato solo per la forza bruta dei suoi avversari, ma anche per l’insufficiente consenso sociale di cui disponevano i suoi fautori, almeno in Occidente (e forse dappertutto). Questi “fautori del Sessantotto” nel mondo erano sì decine di milioni di persone, e apparivano come masse e gruppi in tumultuoso movimento, specie nella gioventù studentesca ed operaia; tuttavia “gli altri”, più o meno estranei o ostili, erano molti di più, non solo nel mondo borghese, ma pure in quello piccolo borghese, proletario e sottoproletario. L’incapacità delle avanguardie del Sessantotto di essere, specie in modo durevole, rappresentative del “loro” popolo “sovrano”, ovunque, doveva per forza avere a che fare con un limite di “visione”, ideale, culturale, socioculturale, ossia del modo di pensare, e per ciò stesso di agire. In proposito, e in estrema sintesi, su ciò la mia convinzione è la seguente: la cultura politica degli innovatori era in gran parte quella di minoranze riformatrici già in passato sconfitte, proprio come era capitato ai democratici del 1848 secondo il Marx citato di Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1850): solo che questa volta, almeno nel vecchio mondo compreso tra Parigi e Vladivostock (e anzi sino a Pechino), il modo di pensare inadeguato alla grande pulsione antiautoritaria che si era scatenata col “Sessantotto”, era proprio il marxismo, che in quella vastissima area geopolitica pretendeva di essere la cultura del grande mutamento. Il marxismo, per quanto aggiornato negli anni Sessanta, era stato la concezione del mondo che in Europa e negli Stati Uniti era già stata sconfitta almeno dal 1920 in poi (e in Russia dalla trasformazione totalitaria della dittatura leninista: trasformazione realizzata da Stalin dal 1927 e soprattutto dal 1929 in poi). In Europa occidentale la sconfitta del marxismo era risultata profonda già intorno al 1923, ma risultò totale a partire dall’avvento di Hitler al potere in Germania, nel 1933. Perciò non solo la cultura rivoluzionaria” del marxismo, propria del “Sessantotto” da Parigi a Pechino (quando ne aveva una), era di un’epoca anteriore, ma apparteneva ad un’epoca anteriore in cui era stata addirittura già sgominata, e non certo per caso.

Valeva per tutti i marxismi, evidentemente egemoni nella cultura rivoluzionaria o riformatrice, e non meramente liberale democratica, appunto da Parigi a Pechino. (A dispetto del ripudio del marxismo da parte della socialdemocrazia tedesca e pure inglese, che comunque in quel che avevano di progressivo erano contigue al “marxismo”; e altrimenti erano e sono connesse a orizzonti liberali “aperti”, ma persino più vecchi del marxismo o, se si preferisce, ancor meno attrezzati di esso ad accogliere le pulsioni antiautoritarie che erano allora nell’aria dappertutto).

   Nel “Sessantotto” c’erano stati tre tipi di marxismo: quello neostalinista; quello “operaista” e quello riformista (detto allora riformatore). Questo si vedeva bene in Italia, anche se le tendenze del genere erano pure sovranazionali.

   Il marxismo neostalinista era rappresentato da quelli che non solo riscoprivano Lenin (lo facevano anche gli operaisti, da Panzieri a Tronti, e pure il povero diavolo che qui scrive), ma da tipi che erano puramente e semplicemente degli epigoni del marxismo-leninismo-stalinismo, da loro “ritrovato” pure in Mao. Erano tutti amici del totalitarismo. Erano dei clericali senza Dio, intolleranti e fanatici, onanisti ideologici, che nelle punte estreme culminarono nel terrorismo brigatista. Questo terrorismo delle Brigate Rosse era tutto marxista-leninista-stalinista. In esso i nostalgici della Resistenza come rivoluzione “socialista” mancata (i pronipotini di Secchia), tra cui c’erano vecchi uomini del mitra ancora in circolazione, si confondevano con i fanatici delusi dal PCI.

   Il secondo marxismo, invece democratico rivoluzionario, era soprattutto operaista. Si radicava – nell’area pur anteriore all’operaismo compresa tra Lelio Basso e “Il Manifesto” – nel pensiero del Lenin che dapprincipio aveva voluto dare “tutto il potere ai soviet”, e nel Gramsci dell’”Ordine Nuovo del 1919-1920, teorico e promotore del potere dei consigli di fabbrica. Nello stesso ambito c’era forte apprezzamento e riscoperta di Rosa Luxemburg, sempre anelante all’azione diretta delle masse proletarie contro il capitalismo: una Luxembug di cui proprio nel 1967 Basso si mostrò fine studioso[1]. Ma la Luxemburg era anche il riferimento imprescindibile dell’operaismo marxista, che si connetteva pure alla sinistra comunista marxista e tendenzialmente libertaria dei primi anni del primo dopoguerra, dei Lukàcs, Gorter, Pannekoek e Korsch, esponenti del cosiddetto “marxismo occidentale”[2]. Questo secondo genere di marxismo, democratico rivoluzionario e soprattutto operaista marxista, vezzeggiava pure con Mao, ma solo “alla ricerca del tempo perduto”: cercandovi, invano, pulsioni alla democrazia proletaria. Ma tali attitudini nel maoismo “vero” erano invece appena spezie buone per insaporire il piatto indigesto e spesso letale del nuovo totalitarismo “di sinistra” marxista-leninista-stalinista; erano – insomma – prediche ultrademocratiche, consistenti però solo di chiacchiere volte a capitalizzare – da parte del maoismo – un facile consenso di giovani fanatizzati, nel suo “oriente” e “all’estero”, attorno ad una politica di stato stragista e appunto ultrastalinista.

   L’operaismo marxista degli (e dagli) anni Sessanta – che spesso si confondeva con la tendenza marxista “libertaria”, “occidentale” – pur con qualche tratto “filocinese” in aggiunta – aveva quantomeno saputo reinterpretare in profondità le idee della nuova democrazia operaia: da Vittorio Foa a Raniero Panzieri, e da Mario Tronti a Antonio Negri, sino ad oggi (un Negri che è figura non certo marginale di quell’area, nonostante la connivenza, o la grave relazione “da compagni”, tra la sua “Autonomia Operaia” e il terrorismo “di sinistra”). Stava in quell’humus pure il movimento marxista libertario di “Lotta continua”.

   Ma dopo aver colto i fuocherelli della grande ribellione delle e intorno alle fabbriche, e averli alimentati a dismisura, tutti questi marxisti di sinistra – compresi gli operaisti marxisti del “Sessantotto” – non avevano la minima idea della rivoluzione da fare in un orizzonte democratico liberale e costituzionale, che rifiutavano coralmente; e per ciò finivano appunto, troppo spesso, almeno nelle punte estreme, per vezzeggiare con forme di violenza “proletaria” sterili, contigue alle BR o confluenti nel terrorismo di “Prima Linea” (quest’ultimo emerso in quegli anni dalle minoranze “proletarie” più antagoniste di “Lotta continua”).

   Il terzo marxismo del “Sessantotto” era riformista (anche se si diceva “rivoluzionario”, “riformatore”, democratico, eccetera, perché il termine “socialdemocratico” a quel tempo in gran parte della sinistra era ancora un’offesa). Era in sostanza il pensiero del PCI, ma pure di molti politici e intellettuali della sinistra socialista che avrebbero voluto coinvolgere pure i comunisti nell’alleanza con la Democrazia Cristiana (di cui essi pure, a parte tre o quattro grandi spiriti, ormai condividevano, nelle istituzioni, tutti i vizi). Il PCI, e l’ampio strato di uomini di cultura che si muovevano nel suo cono d’ombra (dal 1972 me compreso), utilizzava il marxismo soprattutto come una sorta di pedagogia politica elementare, ossia come un’ideologia atta a sublimare una linea totalmente difforme dal marxismo stesso: da un lato per convincersi, e convincere, che – nonostante il sempre più chiaro rifiuto del sistema da parte di grandi masse di cittadini lavoratori viventi sotto il “comunismo” – “là” ci fossero “le basi del socialismo”: la “struttura” collettivista, l’economia cosiddetta senza padroni (quasi che la burocrazia e polizia fossero state migliori dei borghesi di casa nostra); dall’altro perché veniva loro utile avere un vasto, seppure un poco insipido, e astratto, e un po’ parrocchiale, indirizzo ideale cui attingere a piene mani, che consentisse di inquadrare, sublimare e giustificare una pratica che di socialista e proletario, nelle istituzioni, non aveva proprio un bel niente, dal momento che riprendeva tutta la vecchia politica della sinistra legalitaria democratica, in cui tanti anni dopo infatti confluì: quella sinistra prima liberale, poi democratica e infine “anche” socialdemocratica (ma lì in quanto liberaldemocratica) che, dal Risorgimento in poi, non era mai riuscita – e nella sua grande maggioranza non si era neanche sognata di essere – un’alternativa complessiva ai moderati o conservatori dominanti. Essa, bon gré mal gré, infatti si era sempre accontentata di essere la loro più o meno grande forza di complemento, come appunto Rattazzi con Cavour, Garibaldi con Vittorio Emanuele II, Filippo Turati e più oltre Leonida Bissolati con Giovanni Giolitti, Saragat con De Gasperi (e successori), Nenni con Moro, Craxi con Andreotti e Forlani, e Berlinguer con Moro (poco importa se in nome del “centrosinistra” o del “compromesso storico”, o fosse pure del “socialismo”).

   Perciò i due primi tipi di marxismo erano sterili, nel Sessantotto e pure dopo, in quanto sempre antagonisti; per essi il riformismo o era sempre una brutta roba, oppure era (ed è) una roba che diventava (diventa) buona solo quando i riformisti di turno siano totalmente defunti. Allora il riformista “trapassato” diventa “buono” – il buon Filippo Turati, il buon Giacomo Matteotti, il buon Giuseppe Saragat, il buon Pietro Nenni, e, alla fine, persino il buon Bettino Craxi, e tra vent’anni ci sarà il buon Matteo Renzi – e ci si può togliere, allora, il fazzoletto di tasca e asciugarsi una “furtiva lacrima” pensando ai “pretesi riformisti” del proprio tempo, “socialtraditori” di turno, “così diversi” da quelli “di sinistra” trapassati.

   Quanto al terzo marxismo di cui si è detto, era ed è sempre collaborazionista nei confronti dei “borghesi”, moderati o conservatori. Per quanto curasse e cucinasse (a partire da chi scrive) tanti buoni discorsi, articoli, saggi e libri, sublimava, infatti, una prassi che considerata oggettivamente e freddamente, al di là delle pie intenzioni “socialiste”, non era neanche di mera alternativa democratica della sinistra (lo fosse stata, lo fosse), ma appunto di “soccorso rosso” dei moderati al potere, ora dato “per forza” e ora con convinzione, e però “al dunque” sempre, e quasi senza eccezione, subalterno e sputtanante rispetto a loro.

   Perciò i due primi marxismi erano solo antagonisti e il terzo finiva sempre per essere “collaborazionista” con classi e ceti politici conservatori o moderati dominanti da tempo immemorabile (in nome della “democrazia”, del “socialismo”, del “marxismo”, e persino del “leninismo”, o dello “sviluppo”, del “progresso”, eccetera). Talora accadeva effettivamente per ragioni storiche più o meno obbligate, come nel Risorgimento (per cacciare lo straniero e “fare l’Italia”) e nella Resistenza (per combattere i nazisti e i loro alleati), ma più in generale capitava per una vera e propria “dipendenza” psicologica, culturale e politica dal potente avversario democratico borghese.

   Ma il pensiero riformatore di sinistra che non sappia mai superare il conflitto tra antagonismo e collaborazionismo, ma solo oscillare come un pendolo tra la più fiera opposizione e il più profondo sputtanamento, è sterile. Ecco cosa voglio dire notando che il Sessantotto, come già il 1848 francese per Marx, si basava su un pensiero politico del passato (nel nostro caso il marxismo nei suoi tre volti indicati): mai su un pensiero-prassi di vera alternativa democratica ai padroni del vapore, che pur scontando un po’ di emulazione, cominciasse almeno col mandarli a casa realizzando una vera alternativa della sinistra, come nelle grandi socialdemocrazie del mondo, che i comunisti ritenevano “più indietro”, compromesse col capitalismo, e meno adeguate a dare il cambio alla “borghesia dominante”, mentre invece erano quasi sempre sostenute dal grande mondo dei sindacati operai e alternative almeno ai partiti apertamente conservatori e moderati.

   La storia dei “se” e dei “ma” certo non si può fare perché non c’è stata. E quel che non c’è stato non c’è stato per buone ragioni (persino nella vita di ciascuno di noi). Ma ragionare su quel che non c’è stato serve a non ripetere sempre le stesse fesserie (come “politicamente” accaduto pure nel Sessantotto rispetto alla sinistra del passato, e come potrebbe capitare benissimo domani, tanto più che da decenni invece di superare le aporie dei “tre marxismi” si è addirittura tornati a idee puramente liberali di sinistra già sconfitte nella Francia del 1848, che nella storia delle grandi idee sono anteriori al marxismo stesso, sol che si pensi a John Stuart Mill o al radicalismo democratico francese, e un po’ pure italiano, della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo).

Nel “Sessantotto” ci sarebbe voluta – in base all’argomentazione sin qui svolta, anche sui” tre marxismi” -una visione che non mettesse in alternativa democrazia borghese e democrazia operaia, democrazia rappresentativa e democrazia diretta, democrazia delegata e democrazia partecipativa, ma che, anzi, si ripromettesse apertamente di conciliarle e di congiungerle.

   Ci sarebbe voluta pure una visione non di separazione, ma di congiunzione tra piano sociale e piano istituzionale (“quasi da Stato a Stato” aveva detto genialmente Gramsci dei poteri nel sociale e nello Stato, in Occidente[3]): perché la sfera della “società civile” (che “comprende” pure l’economia) e quella della società politica, che comprende lo Stato e i suoi problemi, a Occidente sono un continuum. Anzi, io penso siano proprio un tutt’uno, come neanche l’audace neomarxista Gramsci avrebbe potuto ammettere. Penso che siano un tutt’uno nel senso che nel mondo decisamente moderno la società, che è complessa e sempre più tale, implica lo Stato che la normi; e lo Stato implica a sua volta la società che lo permei, lo renda cosa sua, se me serva. I “due” – società e Stato, economia e politica – infatti sono talmente “due in uno” e “uno in due”, nel mondo complesso della tarda modernità o della post-modernità, che o vanno avanti insieme o vanno sempre più alla malora entrambi: perché in realtà – nella realtà – quantomeno nel capitalismo contemporaneo, essi sono appunto un unico insieme. Sono un composto “senza trattino”: uomo privato e uomo pubblico (contemporaneamente), produttore e cittadino (contemporaneamente), mercato e Stato (contemporaneamente). E se va bene l’uno va pure bene l’altro, e se va male l’uno va pure male l’altro, perché sono fratelli siamesi.

Le antitesi ci sono, a ciascuno di tali livelli e tra loro. E tali antitesi non sono da buttare. Non sono antitesi da costringere in una camicia di forza. Non sono antitesi da comprimere a ogni costo (come ad esempio ha voluto fare il fascismo, e più in generale ogni totalitarismo, col corporativismo obbligatorio, con lo Stato etico, con lo Stato-tutto, eccetera: negando “per forza” o “con la forza” le antitesi[4]). Queste antitesi sono infatti assolutamente fondamentali allo sviluppo ulteriore di un sistema, come persino in una persona (a partire da ciascuno di noi, che di intimi contrasti vive, per evolversi); ma sono antitesi produttive, utili, e per così dire “sane”, e risanatrici, solo se siano gli opposti di una totalità viva, in cui le forze che collidono sono anche complementari (così in specie tra borghesia e proletariato, datori di lavoro e dipendenti). Le antitesi vere, o comunque sane, che siano insomma “storia” e non già – nella storia – l’ “antistoria”, “normalmente” tendono a non distruggersi reciprocamente. In parte fanno o possono fare così per “virtù propria” (ossia perché sono orientate così, vale a dire perché sono abbastanza mature per comprenderlo “da sole”), e in parte perché ci sono norme – patti e soprattutto leggi – che regolano i conflitti, in modo che gli opposti non si distruggano vicendevolmente, e ove possibile comprendano che conviene cooperare, magari dopo essersi ben bene scontrati e persino alquanto strattonati e talora malmenati. Qualora una parte miri invece non solo a contrastare, così da avanzare con tutto il corpo sociale, ma ad eliminare il suo opposto, la lotta diventa un tumore: eventualmente benigno, ma eventualmente pure maligno: nel corpo sociale (come pure personale, compresa la nostra psiche): diventa un tumore maligno che, in tal caso, tramite la lotta a morte, distrugge l’insieme cui appartiene, ossia il “corpo”, sociale o individuale, cioè se stesso (o “ci prova”).

   Anche per questo lo Stato è una funzione imprescindibile della società civile stessa. Probabilmente il cammino naturale va dai singoli (cioè dal “singolo”, semplicemente visto al plurale) a un’autorità che costringe i molti “singoli” – che sono “i reali” (simili, ma differenti) – ad operare insieme, in tutte le formazioni sociali, in tutti i sistemi. Capita pure nel branco animale, o in una tribù primitiva (diciamo tra tutti gli animali sociali, tanto più se “animali ragionevoli”). Certo non è neppure il caso di mitizzare l’autorità, che è solo una funzione organizzatrice interna. Dove la società è arcaica, e l’economia è arcaica (quasi senza divisione del lavoro), lo è pure l’autorità interna che la norma (il “capo” o “gli anziani”, eccetera); ma man mano tutto si fa più grande, vasto e complicato, comprendendo nazioni sempre più vaste, necessariamente sino al mondo intero spiegava Kant nel 1795 in Per la pace perpetua.[5] Un giorno lo Stato sarà mondiale: si tratta solo di vedere se lo sarà sotto il tallone di ferro di uno Stato dispotico o tramite uno Stato di Stati. Cioè – come avrebbe detto Kant – come “federazione di liberi Stati”, Comunque se la vita sociale si mondializza, si mondializzerà pure lo Stato. E perciò il federalismo, se il reale fosse disposto a diventare razionale, s’imporrebbe,

In ogni caso lo Stato è la funzione di coordinamento di cui la società civile a quanto pare abbisogna: non perché in caso diverso l’uomo sia lupo all’uomo (come per Hobbes), o perché la società civile senza Stato sia una “bestia selvaggia” (come talora diceva Hegel)[6], ma perché i molti abbisognano di norme comuni; anche se io sono persuaso che il gigantismo dello Stato sia uno Stato che si è moltiplicato, in modo “tumorale”, a scapito della società, e che perciò di Stato ce ne voglia solo quanto basta per impedire che i pochi soggetti che sono anomici si scatenino con danno comune mettendo la vita e gli affari dei singoli a grave rischio. In sostanza penso che dovrebbe essere “di stato” quel che va dato a tutti, quel che garantisce la vita e la libertà d’opinione di tutti, quel che difende dalla violenza altrui, quel che salvaguarda la salute, o la scuola dell’obbligo. E ciò pur riconoscendo la storicità del dato di “ciò che va dato a tutti” (per cui domani potrebbe dover essere dato a tutti un minimo vitale, ove – com’è possibile – un giorno il lavoro venisse a mancare organicamente per la grande maggioranza, per l’evoluzione dell’automazione).

   In ogni caso lo statalismo dev’essere limitato. Non può essere il singolo, né tantomeno la società civile, a essere “nello Stato”, come voleva la Dottrina del fascismo del 1932, e come ha voluto o vuole e vorrà ogni totalitarismo: perché è evidente che l’autorità è una funzione dell’insieme. Perciò dovremmo vedere lo Stato come “cerchio interno” alla società civile (e più interno ancora dovremmo vedervi il singolo, l’ànthropos o uomo, alias la mente di ogni singolo).

   Qui non saprei dire, e comunque non posso approfondire, se in origine, o nella vita reale profonda, sia il “cerchio grande” (società civile), che include quello piccolo (Stato) e “più piccolo” (il singolo, alias “i singoli”), come pare, o se sia il singolo (“i singoli”), a far emergere l’autorità ordinatrice e per ciò stesso una buona vita economica e di relazione (o “società civile”) Anche se io, almeno per il “mondo moderno” (e pure post-moderno), propendo per la seconda soluzione, che va quindi dalla vita spirituale dei singoli (uguali-diversi) a quella politica organizzatrice e “quindi” sociale. Ma lo stabilirlo non è decisivo, e forse le due ipotesi sono complementari e non ha tanto senso decidere quale sia “la prima”, come non ha senso stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina” (o forse ce l’ha, ma è un’altra questione, che i filosofi chiamano di ontologia sociale, ossia dell’essere sociale: questione che però “qui” ci porterebbe troppo lontano).

   Se nel “Sessantotto” tutto ciò fosse stato inteso, tutto sarebbe stato diverso. Non ci sarebbe stata contrapposizione tra Stato democratico borghese e Stato proletario immaginario, ma semmai lotta per riformare lo Stato democratico (o per farne uno, dove non c’era). Il potere operaio non sarebbe stato opposto tout court a quello padronale, ma ci sarebbe stata lotta positiva per “utili partecipati” (partecipazione agli utili) e per la cogestione delle imprese, versus la democrazia industriale, in cui però le parti opposte stessero in discordia concors e in concordia discors, e non l’una contro l’altra armata come forze nemiche. Non avrebbe dovuto esserci odio, disprezzo e violenza verso nessun avversario, ma confronto anche aspro, con lo scopo di convertire il nemico in amico, come ci hanno insegnato Gandhi e Capitini[7] (talora pure strattonandolo fortemente, ma per riconciliarsi quando fosse stato possibile, previo mutamento del suo approccio, ben inteso). Per me vale con qualunque avversario, pur tenendo alta “la difesa”, in modo anche molto fermo, con le posizioni altrui disumane, cioè fondate sull’inimicizia assoluta tra gruppi umani. Questo ha senso dirlo ancora oggi, guardando indietro, pensando al futuro.

   Ma a tal fine si sarebbe appunto dovuto comprendere che società, Stato e singolo (e viceversa) debbono accordarsi e non spaccarsi tra loro, né all’interno di ciascuno dei “tre termini” (società, Stato e singolo), né l’un l’altro. Perciò le soluzioni anche conflittuali, all’opposto della dialettica dell’Hegel della sinistra hegeliana e di Marx, non pagano. La vera dialettica – se vogliamo usare questa grande metafora del dinamismo del divenire – perché essa non è nulla di più e nulla di meno di una grande metafora dello sviluppo, di tutti e di ciascuno (e persino “in” tutti e “in” ciascuno) – non poggia sull’antitesi (o Negazione), come affermato invece da Marx[8] e, a livello di intensità diversa, da tutti i suoi epigoni. La vera dialettica poggia, piuttosto, sulla sintesi, ossia sulla forza sintetizzatrice del Logos, o meglio della “mente dell’umanità” inscritta, al modo di ciascuno, in “ognuno di noi”: mente sintetizzatrice che può anche essere intesa in modo molto empirico, come mera funzione razionalizzatrice pragmatica (è ben possibile), ma che per me – come per Hegel, e persino un po’ di più a giudicare da molti indizi risulta pure infinita (e “quindi” anche eterna); e per me, come per Jung, è infatti al tempo stesso inconscia conscia e superconscia per natura[9]. Questa mente umana che ci accomuna – o questa natura umana che ci fa essere uno-tutti e uno-tutto, quale sia la sua realtà ultima, empirica o meno – deve circolare in tutti i momenti della vita di tutti e di ciascuno (“tesi antitesi e sintesi”), come istanza “unitiva” latente e che dà senso a tutti i tre momenti: è presente nell’affermazione o status quo, nel mondo e nelle idee in cui dapprima ci adagiamo (tesi); lo è pure nella negazione di ciò (antitesi), e nella ricomposizione temporanea dei contrari (sintesi). I “tre” sono sempre tutti e tre “in itinere”, in viaggio, in divenire, grazie alla potenza sintetizzatrice che urge nei tre stessi. A tutti i livelli, da una persona a miliardi di persone, ivi compresi i vari aggregati in cui le distinguiamo (classi o stati o religioni o idee, o quant’altro). La nostra mente, che per me è infinità latente in cui tutti siamo, anche se in ciascuno “a suo modo” (Sé “junghiano”), oppone sì i contrari (in sé stessa, nella società e nello Stato, e tra loro), ma ha sempre la vocazione ad essere “armonizzatrice” dei contrari stessi: a superare le contraddizioni via via emergenti. La mente desidera fondere i contrari che la lacerano in una superiore armonia (tale per cui “Polemos”, il conflitto o guerra, è sì sempre decisivo, ma i contrari sono congiunti, come “l’arco e la lira” con cui si suona diceva già Eraclito[10] nel V secolo avanti Cristo). Perciò i sistemi sociali, sinché sia minimamente possibile, non sono da scassare, ma da trasformare: sinché dall’uno, in generale, si slitti in un altro più avanzato o comunque diverso.

   Lo schema di sviluppo marxiano e marxista – diventato tanto a lungo quasi senso comune per quasi tutti noi – per cui prima c’erano i padroni di schiavi e gli schiavi, poi i feudatari e servi della gleba, poi i grandi borghesi mercanti e più oltre i borghesi imprenditori da una parte e i proletari dall’altra; e, soprattutto, per cui tra una fase, sistema o formazione economico-sociale e l’altra (schiavismo, feudalesimo, capitalismo e socialismo-comunismo), ci sarebbe stata e sarebbe una grande rivoluzione sociale che dava, dà e darà il potere alla classe opposta prima soggetta (sino a che arriva l’ultima classe, quella proletaria, salariata o salariabile, che per liberarsi è costretta ad abolire tutte le differenze di classe, e per ciò stesso tutte le classi)[11], è assai suggestivo, come il canto delle sirene. Ma oggi questo schema mi pare doppiamente fallace: per un aspetto senza grave danno, e per un altro con forte danno per la visione politico-sociale di cui i lavoratori cittadini e i riformatori avrebbero avuto e avrebbero bisogno.

Per il primo aspetto si dà per scontato che la storia sia una successione di sistemi economico-sociali. Ma la storia è un tutt’uno, come aveva benissimo spiegato l’Antonio Labriola più marxista (ma non so se “marxisticamente”): un tutt’uno che solo per astrazione scomponiamo; ma poi anche “l’Antonio” poneva la “struttura”, la base economica, come motore fondamentale[12]. Tuttavia essendo la storia un tutt’uno, potremmo pure vederla come una successione di grandi modi di pensare, come ha fatto Hegel, dapprima in una sorta di romanzo filosofico sul divenire della coscienza, e più oltre nella sua filosofia della storia[13]; e come ha fatto, in forme sempre più raffinate, vuoi lo storicismo contemporaneo e vuoi la sociologia della conoscenza o della cultura; oppure potremmo vedere la storia come successione delle forme dello Stato. Ma quale sia la posizione migliore o “meno peggiore” in proposito (successione delle formazioni economiche, o delle forme di coscienza, o delle forme di Stato, o più probabilmente di tutti e tre insieme), la cosa non è decisiva perché attiene più che altro alla morfologia della realtà e non alla teoria politico-sociale di cui si abbia bisogno per trasformarla.

   Il secondo aspetto, quello per cui tra una fase o sistema e l’altro ci sarebbe una grande rivoluzione, è invece politicamente e socialmente decisivo, perché introduce “polemos”, la guerra, come forza dinamica della vita sociale. Quello schema, di cui Bordiga “vecchio” in un bellissimo articolo mostrò l’essenzialità per il comunismo mondiale bolscevico e bolscevizzante[14], era legato al dinamismo che si riteneva di cogliere nella Rivoluzione francese. Come nella Rivoluzione francese la borghesia aveva strappato tutto il potere politico, oltre che economico, alla nobiltà, così il proletariato l’avrebbe strappato alla borghesia. Ma era una generalizzazione discutibile. Da molte parti il passaggio da una cosiddetta classe all’altra è stato evolutivo. Ad esempio la nobiltà inglese, come aveva benissimo compreso Voltaire nelle sue Lettere inglesi (1734), aveva saputo farsi imprenditrice[15] (come già la veneziana), ossia imborghesirsi. E il capitalismo tedesco è venuto fuori, in tutta la sua potenza, senza che la nobiltà fosse stata liquidata. Non solo, la storia ci ha messo di fronte alle combinazioni più varie, come ad esempio il capitalismo giapponese sino al 1945 pieno di tratti feudali a livello dello Stato (che forse nell’etica sociale in parte durano ancora), oppure il partito comunista è andato al potere in Cina mentre la Terza Internazionale pensava ancora al rapporto di fatale alleanza con le borghesie nazionali da pa

rte del proletariato (e quindi da parte dei comunisti) in società più o meno feudali, precapitalistiche o paleocapitalistiche. Il punto che qui mi interessa enfatizzare è la fallacia dello schema polemologico, di guerra, trasferito – dal marxismo – dalla relazione tra Stati alla relazione tra classi di una società (lotta di classe, guerra di classe, logica poi schmittiana amico-nemico[16]). Ma ad Occidente sembra che almeno dall’inizio del XX secolo o dagli anni Venti del XX secolo, l’impostazione polemologica nelle lotte sociali sia risultata perdente, sterile e spesso nociva. In ogni caso sbocca nella filosofia e pratica del totalitarismo.

   Ad esempio oggi io penso che si debba sempre cercare di congiungere la democrazia come libera rappresentanza basata su divisione e bilanciamento dei poteri (democrazia “liberale”) e la democrazia come libera partecipazione (o democrazia diretta, che però può solo integrare quella “normata”, legale, che è la prima, “liberale”).

   Si dovrebbe pure comprendere che in una fase che limita tanto fortemente, in modo fatale economicamente e militarmente – nell’era della globalizzazione ed automazione – la sovranità economica interna, nessuno al mondo può più concedersi il lusso di governi che non siano almeno di legislatura, stabili (invece che precari). Perciò il rivoluzionario dovrebbe avere a cuore sia il buon funzionamento dello Stato cui appartiene (il che implica appunto governi di legislatura, e per ciò sistemi elettorali a doppio turno, eccetera eccetera), sia la democrazia nella società civile, la democrazia economico-sociale, la democrazia diretta (autodiretta). Quest’ultima però dovrebbe essere intesa in una chiave positiva: non già – cioè – come rapporto amico-nemico tra classi (potere e “contropotere”, come dicevamo tutti noi “allora”), ma come ricerca di soluzioni sempre più liberamente “unitive”[17], partecipate e condivise, anche e soprattutto attraverso la lotta: soluzioni di raccordo tra la società civile e lo Stato, ma anche tra lo Stato e la società civile; soluzioni di partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese e di contrattazione di tutti i ruoli di potere; soluzioni di cooperazione e socializzazione (degli utili e della gestione, però in modo tale che tutto funzioni al meglio). Invece andrebbe respinta un’astratta nuova libertà che scassi i rapporti di produzione segando l’albero sui cui rami sta il lavoratore oltre che il “datore di lavoro”. Si tratterebbe di ibridare sempre di più il capitalismo in senso democratico e sociale, rendendolo più umano, più cogestito, più aperto alla condivisione degli utili impresa per impresa; più basato sul governo comune delle imprese. Il capitalismo, in una parola, dovrebbe essere basato tanto sulla lotta quanto sull’armonia tra le parti, in cui – tanto tramite il conflitto quanto attraverso la collaborazione – si dovrebbe cercare di essere, o tendere ad essere,plurimi in uno” e “unus in plurimis”.

   Ma ciò va certo al di là del marxismo, pur facendo salvo il suo immenso merito nella critica socioculturale del capitalismo e della civiltà borghese, e pure “il proposito” di “passare oltre”.

   Uno Stato basato su : una buona divisione e un buon bilanciamento dei poteri fondamentali; sul suffragio universale; su una forte governabilità tra un’elezione e l’altra, e per ciò con una sola Camera legislativa; con un’alternativa normale – aiutata molto da sistemi elettorali idonei – tra moderati e riformatori (tramite meccanismi a doppio turno e con limitato premio alla lista vincente tra un’elezione e l’altra), il quale sostenga e sia sostenuto da una società civile quanto più possibile democratizzata, ma pure efficiente al suo interno, e per ciò basata sulla condivisione vuoi degli utili che della gestione delle imprese, pur contrattati e ricontrattati attraverso la lotta, mi pare un buon fine.

   Quel che servirebbe sommamente sarebbe un programma storico che combinasse insieme una forte governabilità democratica dello Stato con un forte livello di difesa dei diritti dei lavoratori disoccupati come pure occupati, e con un altrettanto radicale impegno di risanamento dell’ambiente: in un quadro però di forte cooperazione e democrazia sui luoghi di lavoro e di federalismo continentale e mondiale.

   In pratica i piani del sociale, dell’istituzionale e dell’individuale dovrebbero essere correlati, in modo tale che ciascuno possa sempre divergere, se lo vuole, dagli altri due o all’interno di ciascuno dei tre (il sociale, l’istituzionale e l’individuale, o viceversa), ma pure liberamente convergere: in una logica di unità nella diversità e di diversità nell’unità: unità e diversità, armonia e lotta, continuamente verificate, e per ciò sciolte e riformate, ma senza sterile inimicizia irriducibile tra opposti. Ci vorrebbe una specie di logica da uno per tutti e tutti per uno, che non obblighi nessuna parte a recitare il ruolo di “Abele”, ma neanche quello di “Caino”.

   Libertà e fraternità per me sono i valori supremi. Se per assurdo fossi stato nei panni di Marx, nel 1847, quando la “Lega dei giusti” divenne “Lega dei comunisti”, oggi come oggi io non avrei posto in alternativa, ma affiancato il nuovo motto “Proletari di tutto il mondo unitevi” al vecchio motto della Lega “Tutti gli uomini sono fratelli”[18]. Infatti il problema tra esseri umani è proprio quello di mirare a stare insieme, a livelli più avanzati (come “fratelli”), anche tramite il confliggere (ma senza dimenticare mai che la lotta, anche dura, e talora nostro malgrado mortale, fosse pure la guerra ola guerra civile, è appunto tra fratelli, che possono farsi male solo loro malgrado, in condizioni estreme, con dispiacere profondo, e in vista di una pace quanto più rapida possibile). Quelli che non sono personalità mentalmente turbate o disturbate o malate, alterate dall’odio, o da una sorta di poco umana “estetica” della violenza, e che oltre a tutto vogliano vincere e non perdere nei conflitti che ingaggino, avrebbero dovuto cercare, anche nel “Sessantotto”, e tanto più oggi, di non spingere i conflitti stessi sino alla guerra; e poi, persino in guerra, pensare a ristabilire la pace, sia pure tramite la vittoria, più che ad “eliminare” l’avversario. Ma vale ancor più nella vita interna dei singoli Stati e società, come del resto nella vita degli individui. La visione armonizzatrice dovrebbe valere sia nel singolo e tra singoli, sia nella società e tra società, sia nello Stato e tra stati, ed affermarsi anche tramite i conflitti, che però servono all’armonia a un livello superiore tra tutte le parti in lotta (se no, sono “insensati”, e quasi sempre perdenti, distruttivi e autodistruttivi, come tanta parte della Storia “insegna”).

Non dubito che se tali istanze venissero accolte, e nella misura in cui lo fossero, i valori “rossi e verdi”, socialisti e ambientalisti (con “cura” di e per “tutti” e per “il tutto”) potrebbero riemergere in forme nuove. In pratica il lavoro dovrebbe diventare cooperativistico e l’habitat la “casa” e “patria” degli esseri nell’essere. Questi mi sembrano i due punti chiave di un nuovo pensiero “en marche”.

   In tal caso, com’è già accaduto il più delle volte nel passaggio da un sistema all’altro in altri tempi, si potrebbe slittare dal capitalismo – egoista, sfruttatore ed inquinante – al post-capitalismo, ossia ad una civiltà senza padroni né burocrati al comando della cosa pubblica o dell’economia reale, e con totale rispetto per la terra madre.

Come tante altre volte nella storia, il passaggio non sarebbe affatto segnato da una guerra o da una rivoluzione (che sono sempre state “transiti” eccezionali, ove si guardi non a taluni momenti straordinari, ma alla storia di tutti e di lungo periodo). Sarebbe, piuttosto, un processo, in cui a un certo punto – come accade nel passaggio da specie a specie, o anche da un’età all’altra della vita – ci si viene a trovare in una civiltà o sistema di tipo totalmente diverso dal passato: qui evidentemente ci si dovrà venire a trovare, tramite mille passi di socializzazione della vita e di rinascita di sé e della natura, in un mondo senza padroni né burocrati al potere nella società come nello Stato, e in un habitat risanato.

   Ma tutto ciò potrebbe anche non succedere, e in tal caso – seguitando “così” – dovremo prepararci a catastrofi via via più gravi, ossia a quello che Marx e Engels nel 1848, nel Manifesto del partito comunista, avevano chiamato “la comune rovina delle classi in lotta”. Nella storia, come nella vita, infatti, si può andare a finir bene, ma si può anche andare a finir male (molto male), e non dovremmo scordarlo mai.

 

NOTE

[1] R. LUXEMBURG, Scritti politici. Introduzione e cura di L. Basso, Editori Riuniti, Roma, 1967.

[2] Su ciò, tra i moltissimi testi, si vedano: P. ANDERSON, Il dibattito sul marxismo occidentale, Laterza, Bari, 1977; D. LOSURDO, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, ivi, 2017.

[3] Antonio GRAMSCI, nei Quaderni del carcere, edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, nel “quaderno 7, VII, 1930-1932, “Appunti di filosofia”, II, Einaudi, Torino, 1975, pp. 866-867) fa la famosa contrapposizione relativa al rapporto tra Stato e società a Oriente (che lì sta per Russia e impero zarista) e Occidente (che lì sta per Europa occidentale e in primis Italia),. A Oriente lo Stato era stato tutto, e la società civile era stata “gelatinosa”, ma qui era vero il contrario: “Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte: più o meno da Stato a Stato, si capisce …”. Sottolineatura nella citazione mia.

[4] Ad esempio il fascismo, ma pure il nazismo, vogliono comporre, risolvere, superare, le contraddizioni insorgenti tra il Capitale e il Lavoro tramite lo Stato e nello Stato, per ciò “totalitario”, come per il fascismo è chiarissimo in: B. MUSSOLINI (ma la parte dottrinaria era stata scritta da G. GENTILE), in: Fascismo, Enciclopedia Italiana Treccani, vol. XIV, 1932, pp. 847-857. Così però il conflitto sociale non è lasciato scoppiare, invece di essere solo regolato perché non diventi guerra civile, e ciò va a danno della parte organicamente più debole. Per parte sua la grande filosofa della politica H. ARENDT, in Le origini del totalitarismo (1951), Comunità, Milano, 1967, vede in ciò il tratto forte dei totalitarismi, con particolare riferimento a hitlerismo e stalinismo, considerati anzi i soli “veri”. Il totalitarismo vuole infatti abolire tutte le differenze, ma non già per uguagliare i cittadini, bensì per farne una sola plebe più o meno miserabile e osannante, rispetto al solo potere “vero”, quello centrale dello Stato.

[5] I. KANT, Per la pace perpetua, a cura di N. Merker e con Prefazione di N. Bobbio, Editori Riuniti, Roma, 1992. Ma si veda pure: F. LIVORSI, Pace perpetua e unione mondiale, in: AA.VV., Stati e Federazioni. Interpretazioni del federalismo, a cura e con Introduzione di E. A. Albertoni, Eured, Milano, 1998, pp. 3-31,

[6] La famosa espressione di T. HOBBES “l’uomo è lupo all’uomo” non compare, come per lo più si crede, in: Leviatano. La materia, la forma e la potenza di uno Stato ecclesiastico e civile (1651), a cura di G. Miceli, La Nuova Italia, 1976, ma nell’opera Elementi filosofici sul cittadino (1642), a cura di N. Bobbio, UTET, Torino, 1959. Per il cenno a Hegel si veda: G. W. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto (1821), a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari, 1987. Ma è N. BOBBIO, in: Profilo ideologico del Novecento italiano, Einaudi, Torino, 1996, a sottolineare che per Hegel la società civile considerata a prescindere dallo Stato, che na norma, è “la bestia selvaggia”.

[7] M. K. GANDHI, Teoria e pratica della non violenza, a cura e con Introduzione di G. Pontara, Einaudi, 1973; A. CAPITINI, Nuova socialità e riforma religiosa, Einaudi, 1950.

[8] Marx lo sostenne nel famoso, già citato, Poscritto alla riedizione (1873) del primo libro del Capitale (che era uscito nel 1867 a Amburgo). Un discussore russo aveva notato l’andamento hegeliano dei primi capitoli dell’opera. Marx, dopo aver ricordato che aveva criticato a fondo l’hegelismo sin dal 1843-1846, e ridotto il suo essere affine al ragionare dialettico hegeliano, nel Capitale, a un “vezzeggiare”, diceva però – con potenti parole che sono state per me, per più di vent’anni, quando in filosofia e politica mi ritenevo marxista – la sua pagina più interessante di tutte – che la dialettica, nelle mani del borghese tedesco, diventava reazionaria (strumento per dire che il reale è in sé razionale e dunque necessario, e da accettare), ma che è invece “rivoluzionaria per essenza” perché concepisce tutto come “transeunte”, e da aiutare a “transire”, alias come qualcosa che deve essere dissolta, dalla potenza della negazione interna al reale stesso. Ma così faceva del momento dell’antitesi il motore di ogni sviluppo. Spostando ciò dal politico-statale hegeliano alla società (economica), la guerra sociale, la Rivoluzione (con cui la lotta di classe era identificata), diventava il motore di ogni storia. Nel che è poi il senso del “Ben scavato vecchia talpa”, del suo Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852), cit.

[9] C. G. JUNG, , in “Definizioni”, in appendice a: Tipi psicologici (1921), in “Opere. Vol. sesto”, Bollati Boringhieri, Torino, 1969, pp. 477-478; L’Io e l’inconscio (1928), in “Opere. Vol. settimo. Due testi di psicologia analitica”, ivi, 1983, pp. 121-236 e in particolare pp. 233-236;

[10] ERACLITO, Tutti i frammenti, a cura di B. Salucci e introduzione di G. Gilardoni, Le Monnier, Firenze, 1968. Lì, al punto 76 (B 51), p.68, Eraclito aveva detto, con parole davvero decisive nella storia del pensiero umano: “Non comprendono come ciò che è in se stesso discorde sia poi in se stesso concorde: armonia che sorge dal tendere cose opposte, come quella dell’arco e della lira.”

[11] Su ciò si veda, sin dalle prime frasi: K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista (1848), a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, 1964 (e con Introduzione di B. Bongiovanni, 1998); K. MARX, Prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859), Editori Riuniti, 1959 (a proposito della dialettica tra forze produttive (in primis classi) e rapporti di produzione, con conflitto che si risolve in rivoluzione, etc).

[12] A. LABRIOLA, La concezione materialistica della storia, Introduzione di E. Garin, Laterza, Bari, 1965. Il riferimento va ivi ai primi due grandi saggi: In memoria del Manifesto dei comunisti (1895) e Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare (1902)

[13] G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito (1807), a cura di E. De negri, Nuova Italia, 1960, due volumi; Filosofia della storia universale (1822-1823, ma 1996, a cura e con Introduzione di S. Dellavalle, Einaudi, 2001.

[14] A. BORDIGA, Fiorite primavere del capitale, “il programma comunista”, n. 4, 1953, e in: Scritti scelti, a cura di F. Livorsi, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 244-256.

[15] VOLTAIRE, Lettere inglesi (1734), a cura di P. Alatri, Editori Riuniti, 1971.

[16] C. SCHMITT, Le categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972. Il grande scienziato politico era soprattutto hobbesiano (secondo taluni si credeva persino la reincarnazione di Hobbes), e considerava la democrazia liberale come dissoluzione dello Stato. Per alcuni anni della sua quasi secolare vita fu hitleriano in quanto considerava il nazismo come rinascita dello Stato (che dovrebbe unire e non dividere i poteri). Ma sin dal 1921, e poi dopo il 1945, per la stessa visione dittatoriale dello Stato, preferiva Lenin al parlamentarismo e in seguito l’URSS agli Stati Uniti.

[17] Lo spiegano bene, nella parte conclusiva, E. MORIN – A. B. KERN, in Terra-patria (1993), Cortina, Milano, 1994.

[18] Su ciò sono fondamentali, e certo lo sono stati per me: F. MEHRING, Vita di Marx (1935), Introduzione di M. A. Manacorda, Edizioni Rinascita, Roma, 1953; A. CORNU, Marx e Engels dal liberalismo al comunismo (1955), Feltrinelli, 1962.

 

 

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