La beatitudine nascosta nelle “lacrime delle cose” secondo Francesco Roat

Tra le più interessanti letture dell’anno da poco trascorso per me c’è stato un piccolo appassionante libro del saggista e scrittore trentino Francesco Roat: Lacrimae rerum. La cognizione del dolore (Moretti & Vitali, Bergamo, 2023, pagg. 160, Euro 16). La copertina di primo acchito non mette allegria, perché si vede la morte come un angelo che accoglie con tenerezza una giovane morente, immagine del quadro di Evelyn De Morgan L’angelo della morte. Eppure è un’immagine chiave per comprendere il discorso dell’autore, nel senso che la morte è vista come superamento dell’egoità, apertura a un oltre al di là del vivere “normale”. Non esprime tanto una nostalgia dell’aldilà quanto una volontà di dire che tanta parte del soffrire viene dall’Ego: in particolare dall’Ego che gli psicanalisti dicono “inflazionato”. Quell’Ego occupa un ruolo di tipo spropositato nella nostra vita, quasi che tutto e tutti debbano ruotare intorno a “lui”, mentre semmai la vita serena viene dall’approccio opposto.

Non a caso Roat, che tra le altre cose in anni passati ha spesso collaborato anche con “Città Futura on-line”, è pure uno studioso, oltre a tutto buon germanista, del Faust di Goethe, in cui il “dannando”, che si dava al diavolo, voleva superare il limite umano, godendo nella dimensione desiderante, che però è qui ritenuta fonte di infelicità e di perdita dell’anima. Il riferimento qui va al suo bel libro Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove (Moretti & Vitali, 2015).

Il punto chiave del ragionamento di Roat – fortemente legato al pensiero del grande filosofo del Basso Medioevo Meister Eckhart – al centro, da una vita, dell’opera di maggior traduttore e studioso italiano di questo pensatore, Marco Vannini, amico di Roat – è la trasformazione del male di vivere – così centrale in Schopenhauer e Leopardi, e tanti altri – in occasione di beatitudine. In Roat questo male di vivere risulta addirittura via straordinaria al trovare il senso del vivere, e un viottolo per essere felici. Ricordiamo tutti i versi scritti da Montale sin dagli Ossi di Seppia (1925): “Spesso il male di vivere / ho incontrato: / era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l’incartocciarsi della foglia / riarsa, era il cavallo stramazzato”. Quella era la morte laicisticamente (non solo “laicamente”) intesa, rappresentata in modo straordinario, ma che non a caso non è venuta in mente, tra i tanti riferimenti, all’amico Roat. Per Roat, infatti, la sola via al divino – che però va molto al di là del Dio tradizionale (pur senza escluderlo) – è quella che nel Medioevo era detta “e contingentia mundi” (“dalla contingenza del mondo”). Come potremmo mai giungere a Dio, o meglio al divino, se credessimo di esserlo già, confondendo l’infinito col finito e l’eterno col tempo? E non a caso la tentazione del famoso serpentone del Genesi biblico consisteva nell’assicurare ai primi progenitori che mangiando la famosa mela – il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male – non sarebbero “affatto morti”, ma sarebbero diventati “come Dio” (“eritis sicut Deus”).

Ma proprio il male di vivere è la via per raggiungere l’irraggiungibile. La più formidabile via per superare il limite è, infatti, la coscienza di non essere, e non già la coscienza di essere l’Essere: la pretesa d’Essere. E infatti il vero punto chiave, per Roat, è la comprensione e stigmatizzazione del narcisismo. In fondo l’origine della nostra tragedia, e del male stesso di vivere, è tutta, o in gran parte, lì. Questo è il vero punto che fa uscire dal vaso di Pandora tutti i mali: uno si ama a tal punto che in realtà, nel profondo, ama solo sé stesso; s’inebria di sé stesso; e gli altri in fondo lo interessano solo in funzione di sé stesso, mentre in quanto tali non potrebbe importargliene di meno. Nel profondo è anaffettivo, anche se ogni narcisista crede sempre che i narcisisti siano gli altri. Non sono pochi i narcisisti vestiti di untuosa umiltà, ad esempio tra i preti anche migliori. Comunque il narcisista, anche se dovesse versare il sangue per un altro, è uno che ama solo sé stesso, e vede tutto in funzione di sé stesso. Il narcisismo è “tutto lì”. Il suo egoismo è talmente forte che non si accorge neanche di esserlo.

Questo oggi è un punto chiave anche in termini psicosociali, tanto che Roat nota: “Al di là di ogni teorizzazione psicologica, comunque mi sembra palese che negli ultimi decenni in Occidente il consumismo sfrenato, la difficoltà a impegnarsi nelle relazioni interpersonali, la insistita esibizione di modalità comportamentali sfacciatamente esibizionistico-egocentriche proposte da pubblicità e mass media, lo sfilacciarsi dei legami familiari, il culto del successo (…) abbiano favorito la crescita del narcisismo: cartina di tornasole d’un allarmante malessere individuale e sociale sempre più difficile da fronteggiare (pp. 99-100).”

Mentre invece – anche se ogni narcisista o mezzo narcisista non lo può capire – si ama non già amando l’altro come amiamo noi stessi, ma perché noi siamo l’altro (lui è come noi perché nella sostanza noi siamo sempre come lui). Non abbiamo, insomma, un’identità forte da salvaguardare, ma sappiamo che dell’altro abbiamo bisogno proprio noi. Se non c’è, ci manca da morire. Per cui lo amiamo se in lui vediamo noi stessi; se, in certo modo, lo siamo.

Ed è così pure l’amore, che supera l’egoità per empatia nei confronti di un’altra persona. Non è lei ad adeguarsi a noi, ma siamo noi ad essere felici quasi risolvendoci in lei, facendo valere una sorta di principio d’identità con l’altro o altra. La chiusura in noi stessi, persino nei nostri mali, ci fa infelici; l’opposto ci rasserena. E così di livello in livello.

Per cui una persona può trovare una grande gioia di vivere anche respirando tramite un polmone d’acciaio, se è veramente aperta all’altro, com’è raccontato in dettaglio in un capitolo dedicato a una persona così (pp. 121-129), Giovanna Romanato, pure in riferimento al “bel libro-intervista” alla stessa “a cura di Enzo Melillo, La farfalla nel bozzolo d’acciaio (De Ferrari, Genova, 2020). Questo e altro può fare il dimenticare l’Ego per aprirsi all’altro, come se fosse noi stessi, anche nelle condizioni più dure. E questo senso di partecipazione mistica alla vita dell’altro diventa pure ecologia profonda, come nelle encicliche sull’ecologia di papa Francesco. Soffriamo con l’immensa sofferenza degli animali ma pure delle piante, perché li siamo. Se “in primo luogo” fossimo noi stessi, non lo potremmo fare, non ce ne potrebbe importare di meno (e così accade se, identificandoci con l’Ego, ci dimentichiamo del fatto che l’altro siamo noi). Invece proprio deprivandoci, o scoprendoci deprivati, comprendiamo quanto sia importante l’interdipendenza, il fatto che gli altri siamo noi, esseri umani, animali e viventi, come se tutto fosse santo e da salvaguardare in quanto nostro corpo-spirito, e da non fare soffrire più dell’indispensabile.

In questa visione si supera totalmente la differenza tra teismo e panteismo, nel senso che Dio è la Natura, ma anche perché la Natura è Dio: sono-siamo un tutt’uno. Roat, come del resto Panikkar, col suo uomo detto “cosmoteandrico” (di natura cosmica, divina e umana al tempo stesso), preferisce parlare di panenteismo, come nel romantico Krause, per cui “tutto” (pàn) è in (en) Dio (Theòs). Raimun Pamikkar l’ha pur spiegato in: Realtà cosmoteandrica (Jaca Book, Milano, 1993).

Di ciò si fa cosciente e partecipe il mistico, il mystes, l’iniziato, l’uomo dei sacri “misteri”, colui che giunge a sentire che non ha un’identità da salvare, ma semmai da superare: nel senso che faceva dire a Gesù che chi vuol salvare la sua vita la perderà, mentre la salverà chi l’avrà perduta (Marco, 8:35), cioè riuscirà a capire che l’Ego non esiste neppure, ma consiste nel “darsi via”, per gli altri. C’è solo il Tutti-Tutto. Persino Dio, infatti, se è inteso come persona a sé, puramente trascendente, può essere l’ultima trappola dell’Ego (una specie di Ego sovradimensionato proiettato fuori di noi), tanto che l’amico, e in certo modo maestro, di Roat, Marco Vannini, ha potuto intitolare un suo libro, uscito a Milano presso Bompiani nel 2010, Prego Dio che mi liberi da Dio (anche se il sottotitolo – “La religione come verità e come menzogna” – temperava un poco il deliberato pugno nello stomaco del credente tradizionale). Infatti “Dio” come Essere a sé diventa un legame dell’Io. Egli, invece, si libera dalla finitezza, s’infinitizza, proprio quando capisce di non essere nessuno. Qui, naturalmente, siamo su un terreno ben prossimo al buddhismo, che parla di Anatman: l’essere non è Atman (Anima del Mondo). Non è dio, sostanza infinita a sé e personificata, come ancora era intesa la Trimurti dell’induismo. L’essere è non-essere vivo, non-atman, che implica i tutti. E ciascuno dei tutti è realizzato, o sulla via dell’autorealizzazione, nella misura in cui capisce che la propria identità separata, come un che di compiuto, è un inganno (un inganno dell’Io; ma l’Io stesso, nel buddhismo, è un inganno).

Il tutto ha un aspetto che nega e uno che afferma.

Per il lato che nega, Roat nota la cosa così: “Significa altresì abdicare all’egocentrismo, al perenne desiderio di possesso, successo, conquista. E non fa alcuna differenza se l’oggetto del desiderio, l’obiettivo della brama sia costituito da un ambito fisico o metafisico, mondano od oltremondano (p. 145).”

Per l’aspetto che afferma, dice che “esiste solo l’hic et nunc (“qui e ora”) – la pienezza del presente, che implica l’amor fati, ossia l’entusiastico sì all’esistenza, che nulla chiede/pretende e molto ottiene, in quanto non v’è più separazione, alterità, dualismo fra il singolo e gli altri, tra uomo e modo, tra io e Dio, bensì tutto semmai – per dirla col grande mistico tedesco Meister Eckhart, ‘è un unico uno’ (pp. 143-144).”

Su tutto ciò non è detto che si debba sempre o del tutto concordare, nel senso che oltre a vedere gli “essenti” nell’Essere, per me è decisivo vedere pure l’Essere negli essenti (risolverlo in essi, in quanto reali in sé e per sé). Insomma, riconosco che siamo uno-nessuno-centomila-otto miliardi circa di persone e miliardi di miliardi di viventi, ma in quest’immensità ci siamo anche noi; ci sono anch’io, e a me più che “naufragar m’è dolce in questo mare”, come nel meraviglioso Infinito (1819, ma 1825) di Leopardi, piace “nuotare in questo mare”, o “navigare in questo mare”. Ma forse lo crede pure Roat, e comunque da questo piccolo gioiello di libro suo mi pare ci sia tanto da imparare, e tanto mi pare di avervi imparato io.

di Franco Livorsi

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