La campagna elettorale permanente

I politologi ci avevano avvertito, perché in America già da un pezzo è così. E con Renzi qualche avvisaglia c’era stata, ogni mese a inventarsi un pretesto per occupare la scena. Però, la campagna elettorale permanente e asfissiante cui assistiamo dal 4 marzo non conosce un attimo di tregua, e rischia di mettere al tappeto la povera opinione pubblica che ancora cerchi di ragionare sui dati. Per la gioia dei sondaggisti, e di Salvini che – fino a oggi – ne esce mattatore. Ma con i problemi reali, e più drammatici del paese, finiti nel dimenticatoio.

Coi ballottaggi di domani potremmo sperare in una tregua. Assegnate le regioni e le principali città, si potrebbe sperare che i toni si abbassino, e che il boccino ritorni nelle mani di parlamento e governo. Con il duro lavoro quotidiano per adottare i provvedimenti necessari a fare ripartire il paese. Ma si tratta di una illusione. Chiunque traffichi il Palazzo, vi dirà che siete un ingenuo. Che lo show-down tra Lega e Cinquestelle è solo agli inizi. E il contratto serve a mascherare lo scontro per il primato che ha una scadenza ben precisa, e più vicina di quanto appaia sul calendario. Le europee della primavera prossima, quando Salvini vorrà andare all’incasso dell’enorme incremento di consensi che sta mietendo in queste settimane. Non limitandosi al voto per Strasburgo. Ma mettendo sul piatto, e nell’urna, anche Montecitorio e Palazzo Madama.

Per bloccare questa spirale, al momento, ci sono solo due strade. Entrambe alquanto improbabili. La prima è che l’opposizione rinasca dalle ceneri in cui si è dissolta. Smettendola di inseguire la chimera di un rassemblement repubblicano, che sa di antico regime. E che conferma come sia il Pd che ciò che resta di Forza Italia continuino a non voler capire che il rullo compressore bipopulista che li ha travolti non è un incidente della storia, e tantomeno una sua parentesi. Ma è il nuovo trend con cui tutto l’Occidente – a cominciare dagli Usa di Trump – deve riuscire a fare i conti. Se vuole preservare il nucleo fondante dei suoi valori.

In attesa di questo bagno di realismo di centrodestra e centrosinistra, l’unica diga allo sfondamento leghista restano i Cinquestelle. Ma a condizione che escano dal film buonista in cui restano imprigionati. Provando, invece, a contrattaccare ai colpi bassi e gli sgambetti che il cosiddetto alleato di governo gli sta propinando a tutto campo. Sul punto, c’è poco da aggiungere, al quadro lucidissimo e impietoso che Polito ha tracciato ieri sul Corriere. Contrapponendo il mondo hobbesiano dei leghisti, basato sulla forza e la dimestichezza col potere, con quello rousseauiano dei grillini, con una visione utopica che va, prima o poi, inevitabilmente a sbattere nel nulla, o nelle mani sbagliate. Certo, uscire da questa impasse non è facile. Soprattutto col tempo che corre, e Salvini che continua a metterli nell’angolo. Però sorprende che, fino ad oggi, i cinquestelle non abbiamo messo in campo – dal governo – i due asset che sono stati, nelle urne, la chiave della loro vittoria.

Il primo è la frontiera digitale. Criticabile quanto si vuole sul piano della democrazia procedurale, a Casaleggio va riconosciuto il merito di avere – con una visione geniale – liquidato col suo partito virtuale un secolo di organizzazioni di massa. Dove è finita questa innovazione? Perché lo stesso germe virale di partecipazione massiva non viene trapiantato nei settori dove darebbe i risultati migliori, la cultura e l’istruzione di qualità su vasta scala? Questo – nel bene e nel male – è il cuore rivoluzionario dell’ideologia pentastellata. Perché non è diventato anche la bandiera del loro ingresso al governo?

L’altro asset è il Mezzogiorno. È qui che è stato incassato, nella stragrande maggioranza dei collegi, il vantaggio parlamentare di Di Maio nei confronti della Lega. Ed è qui che si giocherà, prima o poi, la vera sfida tra i due partner attuali. Non si tratta soltanto di attuare un reddito di cittadinanza che appare, alla prova dei fatti, macchinoso. Più in generale, i Cinquestelle hanno l’opportunità di colmare il ritardo di iniziativa storico che il centrosinistra e il centrodestra hanno, negli ultimi anni, accumulato nei confronti della società meridionale. Non è certo un’impresa facile. Ma, a favore di Fico e Di Maio, giocano le loro origini napoletane, e la loro sintonia generazionale. Dopotutto, Sud e digitale hanno in comune il fattore G: un tasso altissimo di giovani. Oggi disoccupati e sfiduciati. Ma che restano la risorsa strategica per contrastare la deriva reazionaria in cui il paese rischia di precipitare.

“Il Mattino”, 24 giugno 2018.

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