La chimera presidenzialista

Il letargo delle opposizioni può alimentare in Giorgia Meloni anche le tentazioni più audaci. Come quella del presidenzialismo, un cambiamento costituzionale su cui è tornata a più riprese. E che resta comunque un’arma da agitare verso i suoi alleati. Se Giorgia decidesse di andare fino in fondo, Lega e Berlusconi difficilmente potrebbero bocciare una riforma che a più riprese hanno propugnato. Ma, a corto di voti e leader come sono, finirebbero col rafforzare a tempo indeterminato la premier oggi in sella. È, quindi, probabile che, alla fine, il progetto presidenzialista resterà al più uno strumento di pressione interna alla coalizione al governo.

È utile, nondimeno, ripassare le principali controindicazioni che provengono dall’esperienza americana, anche alla luce degli sviluppi più recenti. Mettendo da parte i pregiudizi radicati nella cultura di sinistra contro il rischio del cosiddetto uomo forte. Se oggi il presidenzialismo fa paura, è soprattutto per la sua debolezza.

Il punto chiave per coloro che si battono per un presidente eletto direttamente dal popolo è la certezza immediata e insindacabile di un vincitore, e la sua stabilità nella carica per l’intera legislatura. Entrambi questi obiettivi sembrano diventati molto incerti al di là dell’Atlantico. Se è vero infatti che, fino ad oggi, la durata del mandato è rimasta un caposaldo costituzionale, ormai da diversi decenni non coincide con un controllo saldo e efficace dell’attività esecutiva. La norma, infatti, è diventata quella del «governo diviso», vale a dire una maggioranza politica alla Camera e/o al Senato diversa da quella che ha eletto l’inquilino della Casa Bianca. È molto raro il caso che il Presidente possa contare sull’appoggio di entrambi i rami del Parlamento, e sempre più spesso la certezza del mandato non significa una vera capacità di governo.

A ciò si aggiunge che, negli ultimi anni, lo stesso verdetto delle urne è stato messo in discussione. L’eredità più velenosa del trumpismo è l’attacco spregiudicato alla legittimità del sistema elettorale. Complici un meccanismo di conteggio basato sui «grandi elettori» dei singoli stati e non sul suffragio popolare e la profonda diversità – tra stato e stato – nelle procedure di validazione dei voti – da quello postale a quello elettronico a quello meccanografico – si è radicato un diffuso pregiudizio sul voto manipolato e truccato. Una maggioranza degli elettori repubblicani, e un’ampia parte dei rappresentanti statali e federali di quel partito, si professa fermamente convinta che la vittoria di Biden sia stata «un furto». E continuerà, molto probabilmente, a crederlo anche alla prossima sfida tra due anni.

Da baluardo del governo forte, il presidenzialismo americano si sta così trasformando nel bersaglio della protesta populista, che scarica sul vincitore di turno la propria rabbia antisistema. Un fenomeno che ha fatto rapidamente proseliti alle recenti elezioni brasiliane, e sembra prefigurare una minaccia alla stessa sopravvivenza democratica. In un’epoca di profonda radicalità e volatilità delle opinioni e propensioni della base, i vertici di governo diventano il bersaglio privilegiato della protesta, quanto maggiore è la loro visibilità e – apparente – solidità.

Se c’è una lezione americana, sembra, dunque, andare nella direzione opposta. Meglio mettere da parte l’illusione di alzare e rafforzare il piedistallo del capo del governo con la chimera presidenzialista. Si rischierebbe l’esito contrario. In una fase così convulsa dell’evoluzione politica, e coi partiti sempre più incapaci di orientare i propri elettorati, conviene accontentarsi di quello che abbiamo in Italia, e che Ilvo Diamanti ha etichettato «presidenzialismo preterintenzionale». Vale a dire, l’emergere di un leader che, sfruttando l’onda della personalizzazione del consenso, coagula grazie al suo appeal un proprio capitale di seguaci. Un capitale senza garanzia di durata, come si è visto dalle repentine parabole di Renzi, Grillo e Salvini. Ma che, se utilizzato in modo non avventato, può fruttare per qualche annetto. Senza innescare i terremoti che sconquassano di questi tempi la Casa Bianca.

di Mauro Calise,

(“Il Mattino”, 23 gennaio 2023).

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