La coperta stretta della globalizzazione

Il problema dei nuovi assetti geopolitici è che siamo, al tempo stesso, più divisi e più interconnessi. L’emergere repentino di linee di frattura inaspettate – prima sanitarie col Covid, poi militari con le guerre in Ucraina e in Palestina – ha reso più complessa ed incerta la fittissima ragnatela di scambi commerciali, tecnologici e finanziari che lega le strutture produttive in ogni angolo del pianeta. Ma certo non la ha indebolita. Continuiamo a vivere in un’economia globalizzata. Solo che molte decisioni e transazioni che ieri erano date per scontate oggi vengono vagliate e calibrate con criteri e interventi politici.

Lo ha spiegato bene sabato Romano Prodi su queste colonne, descrivendo come stanno reagendo gli europei e gli Stati Uniti al nuovo posizionamento della Cina. Che, sostenendo la Russia di Putin, ha reso sempre più evidente la sua distanza dall’Occidente sullo scacchiere geopolitico, proprio mentre accelerava la propria penetrazione sui nostri mercati in settori ad alto impatto strategico, come quello delle automobili elettriche. Gli Usa stanno rispondendo a muso duro, in Europa – tanto per non cambiare – emergono le differenze tra gli stati, più soft l’approccio tedesco, più spigoloso – almeno a parole – quello della Francia. La realtà è che, nella reazione europea, emerge una doppia debolezza, che incombe sul nostro futuro.

Il primo handicap è tecnologico. Con la brutalità dei dati duri, Giacomo Mannheimer ci ricorda che «le aziende europee valgono circa il 4% del mercato tecnologico globale (USA 67%, Asia 27%)». Spesso ci lamentiamo che siamo buoni solo a emanare normative ultrarestrittive, mentre negli altri paesi lasciano le briglie sciolte alla innovazione e alla libertà di mercato. Ma la spiegazione è ancora peggiore. Riprendendo le conclusioni di Anu Bradford, una studiosa della Columbia, Giacomo Mannheimer sottolinea che ci sono una molteplicità di fattori alle origini del nostro ritardo, come «la proliferazione di lingue e culture nazionali, l’avversione al rischio degli investitori, le norme sull’immigrazione che limitano l’attrazione di talenti». Per recuperare un gap di questa portata, occorrerebbero decisioni drastiche, prese da un vertice politico autorevole. E qui veniamo al secondo handicap, forse anche più pesante del primo.

A novembre sapremo chi vince la sfida tra Trump e Biden. Ma – come sempre Prodi ci ricorda – sul terreno del neo-protezionismo i due contendenti non sono stati molto differenti, e probabilmente non lo saranno in futuro. Dazi sempre più alti in ingresso, e incentivi a valanga alle imprese. Col paradosso che molte aziende europee – e financo alcune dalla Cina – stanno scegliendo di trasferire le proprie fabbriche negli Stati Uniti. Sfruttando i quattrini federali, e producendo – con manodopera locale – più vicini ai mercati di sbocco. Ma mantenendo la proprietà, e gli utili. Con un mix di dirigismo politico e flessibilità imprenditoriale che delinea un nuovo format della globalizzazione.

Da questo format, in Europa restiamo lontanissimi. I tentativi visti finora sono frammentari e dettati dalla competizione tra gli stati. Ciascuno cerca di sottrarre all’altro il boccone più appetitoso. E non c’è da farsi illusioni su quello che succederà dopo il voto delle prossime elezioni a giugno. Il parlamento che si profila all’orizzonte sarà, molto probabilmente, ancora più frastagliato di quello in scadenza. E più i singoli paesi avvertiranno il morso della competizione cinese, più diventerà difficile trovare la forza per decisioni unitarie.

Questo quadro è fin troppo chiaro anche alla Cina. Che può contare su un governo capace di strategie incisive di lungo periodo e, al tempo stesso, di aggiustamenti tattici molto aggressivi, a seconda delle convenienze. E, soprattutto, capaci di alimentare lo sviluppo della propria economia di mercato, in barba ai vecchi pregiudizi che la pianificazione dall’alto sia incompatibile con l’espansione industriale. In Occidente continuiamo a consolarci pensando che l’Impero celeste non fondi il proprio potere su elezioni competitive, e che questo rappresenti un limite nella sfida con le nostre democrazie. Un limite di cui, sul piano valoriale, possiamo certo essere orgogliosi. Ma, sul piano funzionale della crescita di beni e servizi, la bilancia comincia a vacillare, e a pendere verso l’Oriente.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 27 maggio 2024).

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