La guardia (storie di vita militare)

La prima volta che montai di guardia fu al ritorno dai campi invernali. Era una sera di marzo, prossima alla primavera.

Finalmente anche io avrei fatto la sentinella come i miei compagni di scaglione e non ci sarebbero più state differenze fra me e loro. Per 24 ore poi non sarei stato alla mercè dei “nonni”, rimanendo solo con i miei pensieri.

Il mio tormento quotidiano erano i pochi capitoli della tesi che dovevo completare. Mi mancava poco, ma non avevo il tempo. E in quei momenti riflettevo su come organizzarmi per concluderla e discuterla prima che scadesse il termine del servizio di leva. Era una lotta contro il tempo che non volevo perdere.

Un altro aspetto positivo del servizio di guardia era poter passare davanti a tutti, “nonni” compresi, al momento del rancio, con la possibilità di scegliere quei cibi che diversamente non avrei trovato.

Infatti l’accesso alla mensa avveniva per mesi. Avevano la precedenza i mesi più vecchi, quelli più giovani entravano per ultimi, rimanendo spesso a bocca asciutta o quasi.

Quella sera di marzo ero emozionato e un po’ preoccupato, anche se fortunatamente mi era stata assegnata la guardia agli automezzi.

Era un percorso a T che partiva dal capannone degli autoveicoli e dalle cucine per terminare, lungo un viale in parte alberato, in prossimità dell’armeria.

Era un servizio tranquillo, sul viale si affacciavano alcuni edifici bassi, fra cui lo spaccio truppa, quindi fino ad una certa ora capitava di incontrare qualche soldato che vi entrava o usciva.

Iniziai il primo turno di quel fine giornata di marzo, guardando il sole che tramontava e pensando che a quell’ora, o poco dopo, a casa mia si sarebbero messi a tavola per la cena. Mi commossi, ma fu solo un momento.

Appena ricevuto il cambio, verso le 21.00, mi preoccupai di portare materasso e coperta nel dormitorio del corpo di guardia. Non serviva altro, anche perché dormivamo praticamente vestiti. Io, per non sentire troppo freddo al risveglio, oltre alle scarpe mi toglievo la giubba, che appendevo alla testiera della branda.

nel locale dove dormivamo persisteva un odore di chiuso e di muffa e non erano meglio i servizi, costantemente maleodoranti. Si faceva pulizia ma sarebbero stati necessari più impegno e soprattutto più prodotti per l’igiene. Comunque era poca cosa, vista la nostra non lunga permanenza notturna in quella stanza.

Essere guardia mi consentiva una certa libertà di movimento nei momenti di riposo, potevo entrare anche allo spaccio senza essere importunato da alcuno.

In quel locale, rifornito alla meglio, c’era una sala con un vecchio televisore (vecchio anche per il 1982). Un pomeriggio stavamo seguendo un programma musicale pomeridiano, quando ad un certo punto un alpino, seduto nelle ultime file, urlò ad una guardia seduta davanti:

“Ehi, togliti il cappello! Non vedo!”

Quello non rispose, forse non aveva neppure udito la richiesta.

L’altro ripeté: “Togliti sto cazzo di cappello, che non vedo!”

La guardia annui, ma invece di togliersi il cappello alpino, lo fissò sulla punta del fucile, sollevandolo verso l’alto.

L’altro, vedendo ancor meno, gli gridò:

“Ma allora lo fai apposta, testa di cazzo!”

A quel “complimento” la guardia gli rispose per le rime.

Quello di dietro si alzò e imprecando uscì dalla sala, mentre l’altro gli borbottò qualcosa dietro.

Tornando alla mia guardia, quella notte mi svegliarono prima dell’una per il mio secondo turno. Quando ripresi a percorrere il viale di fronte agli automezzi regnava un silenzio assoluto, rotto soltanto qua e là dal fruscio di qualche animale notturno.

Il cielo era stellato e la sagoma nera della Bisalta si ergeva possente di fronte a me. Faceva freddo, ma trovai bello stare lì, da solo, senza udire il fastidioso richiamo “un figlio qua!”. Mi sentivo libero. Libero di muovermi e di pensare alle mie cose. Quello che per altri era un servizio pesante per me rappresentava una valvola di sfogo, un momento di libertà.

Il mattino seguente però, dopo l’adunata, invece di rimanere con in miei compagni al corpo di guardia, dovetti recarmi in fureria.

Ricordo il disappunto del comandante Lombardi nel vedermi battere a macchina con le giberne addosso e il fucile appoggiato alla scrivania. Avevo imparato a riconoscere da certi gesti il suo malanimo. Però non mi disse niente, uscì dall’ufficio e si recò nel suo. Fu il furiere capo ad informarmi del disappunto del capitano soprattutto in merito al fucile appoggiato al tavolo da lavoro.

A quel punto risposi che o stavo lì o tornavo al corpo di guardia. Infatti essendo in servizio non potevo liberarmi né delle giberne, né tanto meno dell’arma.

Bertazzoni mi diede ragione, ma dovevamo trovare una soluzione. Alla fine decidemmo che sarei rimasto in ufficio con le giberne, ma avrei occultato il Garand o in un armadio o in un angolo nascosto della fureria.

Durante la naja, montai di guardia in tutti i punti della caserma. Il più impegnativo era quello in porta centrale, il più brutto il servizio in armeria. Questo era un percorso semicircolare che partiva dall’armeria e giungeva dalla parte opposta delle cucine e del parco automezzi.

A parte il tratto fra l’armeria e le aulette, dove si faceva istruzione teorica, il resto del percorso, fra il muro di cinta e un filare di antichi pini, era praticamente al buio. Ma ciò che mi incuteva timore era una casa abbandonata situata fuori, proprio di fronte a quel tratto di muro, tanto che si potevano vedere le finestre degli ultimi due piani.

Avevano le persiane spalancate, una ancora con le tende, e tutte le volte che costeggiavo quel tratto di muro mi sentivo osservato da una presenza invisibile. Era fastidioso ed inquietante, tanto che facevo quel percorso velocemente, con un brivido lungo la schiena e imbracciando il fucile.

Mi rassicuravo solo quando mi avvicinavo alle aulette e intravedevo in lontananza la guardia degli automezzi o quella della porta centrale.

Su quell’edificio giravano strane storie. Era stata la residenza di alcune famiglie di militari, poi abbandonata per una palazzina più moderna distante alcune centinaia di metri.

Una notte di un paio di anni prima, da una di quelle finestre una guardia aveva visto proiettare un fascio di luce. Dato l’allarme, erano accorsi il capoposto e il sottufficiale di servizio, in quel caso il sergente maggiore Ricci. Questo, avendo notato per un attimo il fascio di luce, decise di andare ad ispezionare, il giorno dopo, l’edificio con l’intento di cercare tracce dell’intruso.

Così fece, ma grande fu la sua delusione nel trovare, dopo aver forzato il portoncino, un ammasso di suppellettili e di oggetti vari (compresa una bicicletta) che ostruivano l’ingresso agli appartamenti.

Come era stato possibile quindi salire e fare segnali di luce da una delle finestre? Rimase un mistero.

Rimase però la nomea di casa maledetta o misteriosa e quindi tutte le volte che percorsi quel tratto di muro, che fossi guardia o capoposto, lo feci sempre con i brividi e illuminando con una torcia elettrica ciò che mi circondava.

I turni di guardia erano tre, di due ore ciascuno, ma il più pesante era il terzo, dall’una alle tre di notte, nel cuore della notte, al buio, a marzo, al freddo, a volte esposti a vento e nevischio gelidi.

Quando sorvegliavo l’armeria, cercavo di ripararmi dal vento e dal freddo appoggiandomi allo stipite di una rientranza delle aulette, magari bevendo una bustina di cordiale. Ma non potevo stare sempre lì, e allora mi alzavo il bavero e mi inoltravo nel buio, passando sotto quelle finestre spettrali, in un silenzio a volte irreale, sempre col timore che saltasse fuori qualche malintenzionato.

Questa non era la fisima di una recluta paurosa ma la realtà degli “anni di piombo” che stavamo ancora vivendo e di cui il 1982 era la coda. Frequenti furono gli allarmi e numerosi gli episodi, alcuni anche tragici.

Si montava ormai con il colpo in canna e la fascia oraria considerata più pericolosa, perché più adatta agli agguati, era quella fra le tre di notte e le cinque del mattino. Ogni rumore, ogni tramestio di qua o di là del muro di cinta generava nella sentinella uno stato di allerta.

Era un sollievo intravedere in lontananza l’altra guardia, con la quale scambiavo un saluto, senza però mai avvicinarmi a parlare.

Avevo preso questa abitudine dopo un episodio che mi era accaduto proprio in occasione di uno dei miei primi sevizi.

In quella occasione ero in coppia con Maurizio, un ragazzo di “dicembre”, originario di Verbania (se non ricordo male), dall’atteggiamento spesso spavaldo (mi ricordava d’Artagnan) ma di fatto un animo buono.

Quella notte di fine marzo il freddo penetrava nelle ossa e non sapevamo come scaldarci. Maurizio, di guardia all’armeria, si avvicinò a me, che sorvegliavo gli automezzi e i locali della cucina, proponendomi di entrare e preparare una cioccolata calda.

Era una abitudine dei “nonni” e comunque di chi pensava di godere di una sorta di impunità, non di due “figli” come noi. Lui insisteva e io dicevo di no, perché temevo un’ispezione. Alla fine decise di entrare, lasciandomi lì a vigilare:” Tanto chi vuoi che venga alle due di notte.”

Mentre vigilavo, vidi in lontananza una sagoma nera che a lunghi passi veniva verso di me. Dal modo di camminare riconobbi il sottotenente Pasquali, che si muoveva come se volesse cogliere qualcuno in flagrante. Certo non trovando nessuno davanti all’armeria si era insospettito.

Impaurito cercai di avvisare Maurizio, non volevo gridare per non essere udito dall’ufficiale. Mi avvicinai alla finestra della cucina ma non vidi nessuno:” Dove si era cacciato?”

Misi piede sull’scio e lo chiamai a bassa voce ma non ottenni risposta. Il sottotenente era ormai prossimo, cosa fare?

Per guadagnare tempo gli andai incontro, senza intimare l’altolà, quasi parandomi davanti. Ma prima che dicessi qualcosa mi urlò:

“Dov’è!”

Lo fissai senza rispondere.

Ma rispose lui:

“E’ in cucina a fare la cioccolata!”

Attirato dal tramestio, apparve Maurizio.

A quel punto il sottotenente cominciò con una reprimenda nei nostri confronti, ventilando anche la punizione di rigore, vista la gravità della mancanza.

Io tacqui, non c’era niente da dire, avevamo sbagliato. Maurizio invece, per alleggerire la propria posizione, si giustificò parlando di strani rumori provenienti dalla cucina e della necessità che uno di noi due entrasse per controllare.

L’ufficiale lo zittì continuando a rimproverarci e quando si allontanò sottolineò la possibilità di una punizione.

Rimasti soli, arrabbiati l’uno verso l’altro, cominciammo a discutere:

“Perché non mi hai avvisato?”

“L’ho fatto, ti ho cercato. Dove eri finito?”

“Ero in cucina.”

“Ma dove, sono stato sulla porta e non ti ho visto.”

“Ma va…cosa ti ha detto?”

“Niente, l’ho guardato. Mi ha chiesto dove fossi ma non ho risposto. Dici che ci punirà…”

“Mi punirà, perché tu eri al tuo posto…Pasquali è severo, ma non è una carogna. Capisce…ha una certa età, 25 anni.”

“Comunque, anch’io…non gli ho intimato l’altolà, non gli ho risposto…mah speriamo…la giustificazione dei rumori sospetti, forse…” ma non conclusi.

“Vedremo domani.” Rispose Maurizio, allontanandosi e rimanendo distante da me per tutta la durata del servizio di guardia di quel giorno. Che comunque non fu fatale perché il sottotenente Pasquali non ci comminò alcuna punizione, né fece segnalazione di quanto accaduto.

Ma da quella notte mi tenni a debita distanza dalle altre guardie.

Quello che non riuscivo ad accettare di quel servizio era l’intimazione “altolà chi va là” a persone conosciute, nel caso specifico ufficiali o capoposto.

Era logico nei confronti di intrusi o malintenzionati ma verso chi si conosceva mi sembrava un’inutile formula. Eppure la giustificazione era questa:” Un malintenzionato potrebbe tenere sotto la minaccia delle armi chi conoscete o, peggio, averne assunte le sembianze.”

Mah …girava una storiella su un tale capitano che una notte si era presentato alla sentinella vestito da Uomo ragno, quella riconoscendo nel travestimento il proprio comandante non aveva intimato l’altolà.

Il capitano infuriato chiese allora al soldato chi pensasse di avere di fronte e quello fece il suo nome.

“No! -rispose – Sono l’Uomo ragno! Stia punito!”

E l’alpino terminò mestamente il servizio con la prospettiva di alcuni giorni di consegna.

Tempo dopo, la stessa guardia rivide il comandante vestito da Uomo Ragno e forte della precedente esperienza intimò l’altolà.

Il comandante su tutte le furie chiese all’alpino chi pensasse di avere di fronte e quello rispose:” L’Uomo ragno.”

“No! Sono il capitano. Stia punito!”

Che l’aneddoto fosse vero qualcuno di noi lo dubitava, però il capitano era esistente ed erano noti il suo entusiasmo bellico e le sue prese di posizione originali.

L’episodio che però ricordo con angoscia, perché rischiò di trasformarsi in tragedia, fu quello che mi vide coinvolto con l’alpino Parodi, della 23° compagnia.

A causa di lavori di restauro ad una parte del muro cinta, entrambe le compagnie, la 23° e la 106°, fornivano i componenti della guardia armata. Quando una aveva il compito di vigilare su tutta la caserma, l’altra controllava il cantiere presso il muro in questione e viceversa.

Quella notte toccò a noi della 106 vigilare sulla breccia di muro e mentre nell’ora più buia della notte, verso le tre e mezza, mi aggiravo circospetto attorno ad essa, Parodi, scambiandomi per un terrorista, armò il colpo in canna e me lo puntò alle spalle, pronto per sparare.

Udii soltanto il rumore del caricamento di un’arma. Ebbi un brivido, temetti il peggio. Tolsi la sicura al fucile e, senza riflettere, pensando prima di sparare e poi di capire, mi girai di scatto con l’intento di fare fuoco.

Fu un attimo, Parodi mi riconobbe, mi chiamò per nome e io mi fermai prima di premere il grilletto. Non so, se avessimo sparato, come sarebbe andata a finire.

Dopo le urla e il riconoscimento ci avvicinammo per rincuorarci.

“E andata bene-disse Parodi- ci pensi se avessi avuto il fucile già carico? Non mi avresti sentito e io, vedendoti vicino al buco, ti avrei sparato.”

E mentre lo diceva, con quella bella inflessione genovese, rideva di gusto.

Ci abbracciammo come due fratelli che avevano scampato un pericolo.ma in tutto quel baccano nessuno aveva udito nulla neppure la sentinella a noi più vicina…

A volte la tensione tirava brutti scherzi ma nel corso dei mesi era destinata ad aumentare.

Da capoposto, o da sottufficiale di ispezione, quante volte non riposai, preferendo fare più giri di controllo per accertarmi che tutto fosse in ordine. E anche se le guardie non mi intimavano l’altolà, l’importante che fossero sveglie.

Mi chiedevo cosa sarei riuscito a fare io di fronte a terroristi armati di Kalashnikov con il mio Garand o la Beretta 7,65 e un caricatore con otto colpi. La paura era tanta e non era infondata.

Una notte, ero in servizio come sottufficiale, fu tale l’ansia di controllare e di interrogare la guardia che alla fine dimenticai di apporre sulla tabella affissa all’armeria due delle firme che certificavano il mio passaggio.

Ci pensò Suria ad avvisarmi della mancanza, alla quale posi subito rimedio.

Lo avrei fatto anche se mi avesse avvisato un altro ma diffidavo di Suria e ne avevo motivo.

Due mesi prima, a settembre, poiché eravamo a ranghi ridotti, montai di servizio come sottufficiale, pur non avendo il grado, ero caporale.

Quella sera, i pochi presenti si erano radunati davanti al corpo di guardia e parlavamo e scherzavamo come “quattro amici al bar” e non come “nonni” e “figli”.

Ad un certo punto, nel silenzio della sera, udimmo una detonazione. Solo una. Pensammo subito ad un incidente e senza indugio corsi verso il luogo dello sparo, il locale di scarico delle armi.

Quando entrai fui avvolto da una nube di polvere bianca. Trovai la sentinella tremante e l’armiere, in quel caso anche capoposto, tutto bianco di intonaco, a terra e con il Garand fra le mani.

La prima cosa che feci fu quella di accertarmi che non fossero feriti e mentre controllavo notai un grosso foro nel muro.

Lì per lì non capii, pensai ad una colluttazione fra guardia e capoposto conclusasi con l’esplosione del colpo in canna. In realtà era accaduto che il capoposto, dopo aver estratto il caricatore dall’arma, distratto da una conversazione scherzosa con la recluta, non si era accorto che un colpo era rimasto in canna e tirando il grilletto, per il colpo di prova, aveva causato lo sparo.

L’armiere si disperava perché temeva, alla fine della naja, di incorrere in una punizione di rigore per grave inadempienza nello scaricamento dell’arma.

Diceva cose che mi sembravano insensate.

“il buco si può riparare. Lo chiediamo a qualcuno del Minuto Mantenimento! Il problema è come sostituire la cartuccia sparata! Tempo fa ne avevo tante sfuse e l’avrei sostituita subito, ma ora no!

Ho bisogno di qualche giorno per trovarne una!”

“Ma come facciamo. Avvisiamo il maresciallo Sciolla.” Dissi senza convinzione.

“No! No! Dammi tempo! Risolviamo!”

“Ma come! non siamo coinvolti solo noi tre. Hanno sentito il colpo anche glia altri! Avvisiamo il maresciallo!”

“Gli chiediamo di non parlare. Di stare zitti. Qui rischiamo un’inchiesta e una punizione.”

Fui ingenuo pensando di assecondarlo e che fosse veramente possibile impedire alla “fama” di diffondersi. Mi frenò anche la stima e il rispetto che avevo verso l’armiere.

Tornai al corpo di guardia, raccontai brevemente l’accaduto ai presenti invitandoli a non farne parola con nessuno. Facemmo quasi un patto, dopo di che ognuno si ritirò nella propria camerata in attesa del silenzio.

Il mattino seguente tutto sembrava tornato alla normalità, ma mi ingannavo. Il sergente maggiore Fresi, che abitava a poche centinaia di metri dalla caserma, nel silenzio della sera, aveva udito la detonazione. E il giorno seguente chiese lumi al maresciallo Sciolla, comandante provvisorio della caserma, il quale, non essendo stato informato, negò ogni accaduto.

Ma il sergente maggiore era coriaceo, aveva udito sparare un colpo, non c’erano scuse, e cominciò a chiedere, ad interrogare, ad indagare. Però il patto teneva.

Ma anche un altro era venuto a conoscenza, Suria, che cominciò a dirmi che sì avevamo fatto bene ad insabbiare la cosa, ma avremmo fatto meglio a denunciarla.

Tutte le volte che ci incontravamo il discorso cadeva sull’incidente. Era vero, avrei dovuto denunciare l’accaduto, ma ormai erano passati due o tre giorni e anche il sergente maggiore sembrava convinto che l’esplosione fosse avvenuta altrove.

Avessi avvisato il maresciallo, anche in ritardo… era un galantuomo e avrebbe trovato una soluzione senza mettere nei guai nessuno. Ma ormai c’eravamo dentro e dovevamo solo aspettare che passasse il tempo.

Ma il tempo non passò e anche il maresciallo cominciò a indagare e qualcuno, convocato insieme agli altri, rivelò l’accaduto.

Venni a sapere tutto in tempo reale, quando entrai nell’ufficio del maresciallo per una comunicazione di servizio. Lì trovai quelli della 23° a rapporto, con Suria che faceva le loro ragioni, temendo la possibilità di una punizione.

Capii subito la situazione, mi sentii tradito, dandomi dello stupido, ma quello che mi fece più male furono le parole del maresciallo:

“Ho saputo da loro quanto è accaduto. Avresti dovuto farlo tu, era compito tuo. Se lo avessi fatto, intanto sarei stato informato e poi avrei trovato una soluzione che andasse bene per tutti.

Avevo fiducia in te, ma tu non sei stato corretto.”

Tacque ma l’espressione del viso affermò il resto. Non l’avevo mai visto così, era sempre stato gentile e bonario con ognuno di noi. Ero stato sciocco e soprattutto troppo rispettoso dell’”anzianità” dell’armiere, prossimo al congedo. Non risposi, non avevo nessuna ragione da difendere. Accolsi il rimprovero, feci la mia comunicazione di servizio, salutai ed uscii, mentre Suria riprendeva a fare le ragioni della 23°.

Il maresciallo era un galantuomo, parlò con il sergente maggiore, risolvendo ogni cosa senza danno per nessuno…o quasi: fino a che non ebbi i gradi di caporalmaggiore non presi più servizio come sottufficiale d’ispezione.

Egidio Lapenta

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*