La leadership solitaria

Anche se non lo chiamerà mai così, Calenda sa benissimo che Azione è un partito personale. Dipende in tutto e per tutto da lui. Dalle sue scelte, dal suo successo, dal suo carisma. Nell’alleanza siglata – così faticosamente – con Letta, questo elemento fondativo si era perso. La visibilità e l’identità della sua leadership erano già state molto indebolite dal tandem soporifero con il segretario Pd, e si erano praticamente dileguate con l’aggiunta di Verdi e ultrasinistra, portatori di obiettivi e messaggi inconciliabili con quelli di Azione. Che ruolo avrebbe mai potuto giocare in questo tipo di assembramento? E ammesso – caso molto improbabile – che fosse arrivata la vittoria, che governo avrebbero mai potuto formare, e come farlo durare? Il fantasma dell’Unione di Prodi, col suo rapido inabissamento, appariva fin troppo ottimistico, visto che in quel caso, almeno, si era potuto fare affidamento su una guida riconosciuta. La guida che oggi platealmente manca alle forze di centrosinistra.

Ragionando con lucidità, Calenda non aveva scelte. Almeno dal suo punto di vista. Certo, resterebbe l’argomento di esser venuto meno alla missione di contribuire a fermare l’avanzata del fronte di centrodestra. E il rischio che si possano avere cambiamenti unilaterali della Costituzione. Ma è una campana che già in passato ha prodotto frutti avvelenati. Ributtando la sinistra all’indietro. Ed è comunque una campana cui Calenda – sulla scia di Renzi – si è sempre rifiutato di allinearsi. Resterebbe, semmai, la domanda di perché non abbia fatto subito una scelta così dirompente. In questo caso la risposta è semplice, anche se non gli fa onore. Nel primo atto di questa commedia, non gli sarà riuscito di frenare le spinte dei suoi colonnelli ad accaparrarsi qualche seggio in più. Mentre ha avuto buon gioco – e ha fatto molto più rumore – a rompere le uova nel paniere di Letta una volta che si era capito che finiva comunque in frittata.

A questo punto, saranno gli elettori ad esprimere il verdetto finale. Ma, bene o meno bene che vada, Calenda si terrà il suo partitino, e avrà per tutta la legislatura le mani libere per scorazzare di qua e di là tra sinistra e centro. Perfino con qualche incursione verso destra. Anche in considerazione delle prime mosse che si intravedono su quel fronte. Mosse tutt’altro che spericolate, e tanto meno improvvisate. I nomi che cominciano a girare per i ministri di maggior peso delineano una strategia molto più attenta a calmierare gli equilibri internazionali che a vellicare gli animal spirits dell’elettorato nostrano. La Meloni e i suoi alleati stanno occupando tutto il terreno programmatico lasciato libero dai propri avversari, troppo intenti a sbranarsi al proprio interno e incapaci di tutelare l’eredità di Draghi sulla quale si erano immolati nella crisi.

Si tratta solo dei primi passi, fin troppo facili visto lo stato di afasia in cui il centrosinistra si è imballato. L’autunno si annuncia rovente, col disagio sociale che cresce ben oltre il livello di guardia. E basteranno poche scintille ad infiammare le nostre piazze. La destra sembra avere saggiamente abbandonato il paravento di legge ed ordine che non fa che acuire i problemi. Ma non è attrezzata a governare i debiti che l’esecutivo uscente inevitabilmente ha accumulato. Col Covid sempre in agguato, la riapertura delle scuole può avvitarsi rapidamente in una spirale di proteste. E il tris di capi con cui va alle urne hanno pochissimo in comune. Oggi il cemento della vittoria sta funzionando egregiamente. Ma immaginare Salvini e Berlusconi cedere Palazzo Chigi ad una donna rappresenta, per la politica italiana, un salto quantico nel futuro. Un futuro il cui copione rimane ancora tutto da scrivere.

Muro Calise

Il Mattino 9/8)

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