La leggenda di Aleramo

 

Il giovane Aleramo di Borgogna che cavalca per l’imperatore Ottone

Come è nato il Monferrato: la cavalcata leggendaria di Aleramo

L’imperatore Ottone

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La leggenda di Aleramo

A cura di

Giancarlo Patrucco

Clemente Accornero

Per chi è interessato è reperibile all’indirizzo città.futura.al.it

Da “Sulle tracce di Aleramo” di Giancarlo Patrucco

Quando iniziai ad occuparmi di storia del medioevo “antico” – cioè quella dei secoli cosiddetti “bui” tra il 600 e il 1.000 perché mancanti o quasi di risorse scritte, ero solito andare di persona nei luoghi di cui parlava qualsiasi pergamena.

E’ questo il caso della storia su Aleramo di Monferrato come ci racconta fra Jacopo da Acqui:

“ Tutto ha inizio a Sezzadio, nei pressi di Acqui Terme, dove Aleprando – nobile tedesco – e la moglie, in pellegrinaggio verso Roma, furono costretti a fermarsi nel castello dei signori del luogo perché la donna fu colta dalle doglie. Qui nacque Aleramo (dal volgare piemontese “Aler”, allegro). Dopo alcuni mesi i genitori ripresero il pellegrinaggio lasciando l’infante nelle mani di una balia e i due non fecero mai ritorno. Non si sa se sia a causa di un malanno o di un agguato lungo il cammino, ma di loro si persero le tracce. Nell’aspettare il ritorno dei genitori del nobile pargolo, anche la balia morì, quindi il piccolo Aleramo venne accolto dai padroni del castello di Sezzadio che lo crebbero come fosse loro figlio e lo educarono da vero cavaliere al punto da farne uno scudiero fra i più nobili della corte.

Nel mentre, l’imperatore Ottone I scese in Italia per sedare delle rivolte di nobili bresciani facendo diramare ai suoi fedeli una richiesta di appoggio. I Sezzadio non poterono rifiutare tale richiesta. Aleramo partì a seguito dei nobili della sua casata verso il campo dell’imperatore, perfettamente abbigliato. Dal fare gentile, parlar educato, di corporatura forte e di una bellezza che non passava inosservata, Aleramo si fece subito notare dall’imperatore il quale ne volle conoscere la storia. Tedesco di nascita ma lombardo di educazione, la triste storia del giovane scudiero toccò il cuore di Ottone I il quale decise di farlo entrare nella sua corte. Ma Aleramo, prestante com’era, non fu notato solo dall’imperatore ma anche dalle nobildonne della corte, in particolare da Adelasia, bellissima figlia dell’imperatore, la quale non cercò certo di nascondere la sua ammirazione. I due iniziarono a frequentarsi e, immancabilmente, nacque l’amore. Un amore impossibile, in quanto l’imperatore voleva la figlia in sposa a qualche nobile per sancirne nuove unioni politiche ma, sepppur Aleramo fosse titubante della trovata, Adelasia convinse l’amato a fuggire lontano e una notte, vestiti con abiti poveri e montando rispettivamente un cavallo bianco e uno rosso, i due scapparono.

Alla scoperta della loro fuga, Ottone I, adirato, scatenò una caccia che spinse i fuggiaschi nelle terre dove Aleramo aveva trascorso la sua infanzia facendo perdere le loro tracce. I due amanti si rifugiarono in un bosco su un colle nei pressi delle terre dei Sezzadio (da dove si poteva vedere Lamio, quella che oggi è conosciuta come Alassio in onore della vicenda di Adalasia) ma non avevano cibo e la caccia scarseggiava. Un giorno Aleramo scoprì un accampamento di carbonai ai quali chiese del cibo in cambio di aiuto. Questi furono ben lieti di assecondare tale richiesta in quanto il lavoro certo non mancava. Il giovane divenne dunque carbonaio e vendeva il suo prodotto al mercato di Albenga mentre la bella Adalasia, che era brava nel ricamo, vendeva i suoi lavori alle donne della riviera. Un giorno, il giovane carbonaio si trovò a vendere carbone al vescovo di Albenga il quale ne notò subito i modi eleganti e gentili, quindi decise di farlo entrare nella sua servitù come aiuto cuoco. I due amanti erano riusciti a trovare la loro tranquillità lontano dalle ricerche dell’imperatore. Passò qualche anno e nel frattempo Aleramo e Adelasia ebbero 4 figli.

Ma i bresciani non smisero con le loro rivolte e l’imperatore dovette nuovamente richiedere sostegno ai suoi fedeli e il vescovo di Albenga non mancò di inviare alcuni cavalieri con il cuoco al seguito, anch’egli mezzo cavaliere, e il suo aiutante. Il bizzarro cuoco portava un’insegna con arnesi da cucina e padelle nere su sfondo bianco. Portando tale bandiera e in fiero armamento, Aleramo si gettò in battaglia contro il nemico e ottenne vittoria. Tra i meravigliati militari dell’imperatore si sparse la voce di uno sconosciuto e coraggioso cavaliere-cuoco. Ancora una volta i bresciani si fecero avanti, stavolta rapendo il nipote prediletto dell’imperatore ma questi fu presto liberato dal misterioso cavaliere-cuoco.

Al ritorno del nipote, l’imperatore volle conoscere l’identità di quel cavaliere ma Aleramo non voleva sapere di mostrarsi al suo sire, sporco e in abiti poveri com’era, senza contare la pregressa fuga con la figlia. Fu dopo mille insistenze del vescovo di Albenga che il cavaliere si mostrò a Ottone I, il quale invece di mostrarsi iracondo, lo abbracciò con grande tenerezza e volle sapere tutto ciò che avvenne da quando si era allontanato dalla corte. Alla fine del racconto volle immediatamente riunire la sua nuova famiglia, anche perché scoprì di essere nonno di altri quattro nipoti, nominandoli tutti, Aleramo incluso, cavalieri. Consegnò quindi loro un vessillo della milizia con una balzana rossa e bianca (ricordate i due cavalli?) che doveva essere simbolo della fede e del valore di tutti gli eredi della famiglia di Aleramo. Ci furono diversi giorni di festa.

Sconfitti i bresciani, Ottone I decise di dare ad Aleramo e i suoi figli il titolo di marchese e concesse loro il possesso di tutte le terre, delle quali il prode poteva tracciar confine a cavallo in 3 giorni e 3 notti, tra la Liguria e il Piemonte. Aleramo prese con sé 3 cavalli tra i più veloci e partì senza concedersi sosta ma fu durante il secondo giorno che uno dei cavalli morì per lo sforzo. Sempre lungo la corsa, in una zona disabitata, il cavallo sul quale montava perse un ferro e senza un fabbro era un bel problema. Ma usando un mattone come martello, Aleramo rimise in sesto il ferro e ripartì compiendo un’incredibile corsa. Coprendo un perimetro di oltre 400 chilometri, il marchese percorse le contrade intorno a dove poi sorsero Alessandria, Savona e Saluzzo.

In piemontese volgare, mattone si diceva “mun” e ferro “frrha”, quindi, “munfrrha”. Nacque così il territorio del Monferrato, che la famiglia di Aleramo dominò con saggezza rendendo ricche e importanti quelle colline aride.

Si dice che il nostro eroe sia morto a Grazzano Badoglio, dove nella navata destra dell’Abbazia un affresco del Moncalvo ne rappresenta la figura, ma c’è chi sostiene che Aleramo morì visitando le bellezze di quel territorio frutto delle sue eroiche gesta.”

Dai “si dice” e “chi sostiene”, ciò che abbiamo cercato di fare è stato quello di andare a Grazzano Badoglio di persona:

GRAZZANO BADOGLIO

È un grazioso paese tra Moncalvo e Casorzo, appoggiato sulle dolci colline del Monferrato

 

Grazzano Badoglio – Veduta

 

GRAZZANO B.abbazia -sitocomune

Abbazia

Secondo Vincenzo De Conti (Notizie storiche della città di Casale, v. I, 1838), l’abbazia di Grazzano sarebbe stata fondata dal conte Guglielmo, padre di Aleramo, nell’anno 912. Più verosimilmente, la fondazione avvenne a opera dello stesso Aleramo tra il 950 e il 960 sulla sommità della collina ove presumibilmente si trovava l’antico castrum. Aleramo fu creato marchese per intercessione della moglie Gerberga, figlia di re Berengario II. Nell’agosto 961 il marchese, con la moglie e i due figli Oddone e Anselmo, dotò l’abbazia “ante hos dies aedificavimus in propriis rebus nostris in loco et fundo Grazani infra castrum ipsius loci”, intitolata al Salvatore, alla Madonna e ai santi Pietro e Cristina, di tre “curtes” (villaggi) e dieci “massaricia” (cascine) in Monferrato e la affidò alle cure dei Benedettini. Con atto rogato 23 marzo 967, Aleramo veniva investito dall’imperatore Ottone I di un vasto territorio di 16 curtes situate tra i fiumi Tanaro e Orba e fino al Mar Ligure e decedeva poco dopo (comunque prima del 991) e secondo la tradizione era sepolto nell’abbazia di Grazzano, probabilmente sotto al porticato antistante l’antica chiesa.
Nel 1156 il marchese Guglielmo e la sposa Iulita confermarono i possedimenti abbaziali e ne concesse di nuovi. In quest’epoca l’abbazia risultava intitolata ai santi martiri Vittore e Corona, il cui culto sarebbe stato importato in occidente dai Crociati. Secondo una tradizione ricevette reliquie dei Ss. Vittore e Corona, conservate oggi sotto l’altare maggiore. Per rimarcare la sua relativa indipendenza dal potere ecclesiastico vercellese, gli Aleramici la posero alle dirette dipendenze del vescovo di Torino.
L’importanza politica ed economica, oltre che religiosa, dell’abbazia grazzanese crebbe notevolmente tra XII e XIII secolo, quando l’abate entrò spesso in contrasto con i signori delle località limitrofe. All’inizio del Quattrocento i Benedettini che la gestivano adottarono la riforma cassinese (detta “di Santa Giustina”). All’inizio del ‘500 i monaci lasciarono Grazzano e capo dell’abbazia divenne un abate commendatario, che risiedeva altrove e gestiva il potere locale, sia spirituale che temporale, per mezzo di un suo vicario e di vari agenti. Ancora alla fine del secolo XVIII, spettava all’abate di Grazzano nominare il giudice, il segretario e i vari ufficiali di giustizia, alla stregua di un vero e proprio feudatario. La nomina dell’abate era infatti di prerogativa dei marchesi di Monferrato,

La dotazione del complesso abbaziale si fece via via sempre più imponente: l’abate possedeva in paese un palazzo, due botteghe, una casa e un mulino a cavalli, poi due orti con giardino e tre cascine. Un’altra cascina (detta ancora oggi “la Badia”) possedeva in territorio di Penango (ora Moncalvo) e vari beni sparsi a Serralunga, Castellino e Ottiglio.
L’ultimo abate venne nominato nel 1784 nella persona di Nicolas de Saint Marcel, nativo di Annecy in Savoia, che offrì ospitalità ai Benedettini del monastero francese di Tamiè scacciati dai rivoluzionari sul finire del secolo. Nel 1802 la secolare abbazia aleramica venne soppressa dalla legislazione napoleonica e i suoi beni, ad eccezione della chiesa e del palazzo abbaziale, offerti all’asta: da tali vendite nacque la fortuna economica e sociale di alcune famiglie locali, in precedenza semplici dipendenti dell’abate. Tornato in Savoia nel 1808 l’abate di Saint Marcel, la cura d’anime venne affidata a vari vicari temporanei, finchè nel 1843, risultando impossibile la reintegrazione dell’abbazia, il potere regio nominò il primo vicario perpetuo, titolo che ancora oggi spetta al parroco di Grazzano Badoglio.

Oggi l’ex chiesa abbaziale è sede della Chiesa Parrocchiale dei Santi Vittore e Corona, appartenente alla Diocesi di Casale Monferrato.

Interno della chiesa

Chiesa dei Santi Vittore e Corona (GRAZZANO BADOGLIO)

La tomba di Aleramo si trova nella cappella del Rosario nella navata destra dell’abbazia dove un affresco del Moncalvo ne mostra la figura

 

 

Aleramo ritratto.jpg

Quindi, veri e comprovati quanto meno i fatti essenziali

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