La miseria del fascismo

Il totalitarismo è una ‘novità’ storica che nasce col fascismo: quella di un “partito che governa totalitariamente una nazione” (Mussolini). Successivamente la parola è stata usata per designare tutte le dittature monopartitiche, sia quelle fasciste, sia quelle naziste, sia quelle comuniste. Così, gradualmente la parola è stata slegata dalla cosa (fascismo)finendo quest’ultima col rinnegare la prima, a tal punto da giungere a dire che “il fascismo non fu totalitario” o, addirittura, che “il totalitarismo non è mai esistito”.

Persa la connessione storica fra la parola e la cosa è stato molto più agevole far mettere piede ad un certo negazionismo tutto teso a “defascistizzare” il fascismo e a ridurlo ad ‘ingenuo’ regime autoritario finito su una cattiva strada (leggi razziali e persecuzione degli ebrei) in gran parte per colpa altrui. A comprendere tutto questo aiuta proprio l’attuale governo Meloni, con le sue scelte “ideologiche”, con i suoi quasi comici strafalcioni, con la doviziosa presenza di personaggi al limite (a volte superato) di un’ampia incultura.

Il recente libro di Emilio Gentile, autorevole studioso del fascismo, “Totalitarismo 100. Ritorno alla storia” (Salerno Editrice) cerca, riuscendovi, di mettere le cose al loro posto. Lavorare per questo obiettivo è l’impegno esplicito dell’autore, il quale programmaticamente dichiara: “Chi ha scritto questo libro lo ha fatto col proposito di restituire il concetto di totalitarismo alla realtà storica del fascismo, e la conoscenza della storia del fascismo alla realtà del totalitarismo”. La quale è -perché non ci siano equivoci-: “prassi terroristica, guerra civile contro gli altri partiti, identificazione del partito al potere con la nazione e con lo Stato, divisione dei cittadini in due caste (dominatori e dominati), mito del capo, ideologia come religione politica, Stato-partito” (p.193). Lungo questi temi si dipana la ricostruzione storica del fascismo da movimento (marcia su Roma) a regime, a Stato autoritario, a integrale Stato totalitario (dopo l’assassinio di Matteotti). Il libro dà spiegazioni documentate sulla natura del fascismo ma nello stesso tempo suscita anche molte domande alle quali però non è suo compito dare risposte. Da capire meglio sarebbe per esempio come mai nonostante la fragilità politica e culturale delle sue origini, il fascismo riesca ugualmente ad affermarsi. Da capire meglio sarebbero poi le ragioni di fondo (non semplicemente politiche) per cui sia lo stesso movimento fascista a fare fuori, ad eliminare, l’ala integralista, le sue tendenze a rieditare forme proprie dell’ancien regime. Molto giustamente Emilio Gentile rimarca il carattere plebeo, demagogico, culturalmente inconsistente di questo fascismo per così dire delle origini. Scrive: “Lo ‘Stato fascista di là da venire’ non era preceduto da una ‘preparazione dottrinaria’ come era avvenuto per lo Stato contemporaneo…Nella scuola politica fascista, la sola idea fondamentale era l’antidemocrazia ‘in mezzo alla congerie di luoghi comuni e di filosofemi’ “(p.179). La cultura del fascismo-movimento non va oltre il magismo medievale di Evola, l’estetismo e il corporativismo integralista di D’Annunzio. Il pressoché totale vuoto culturale è riempito solo dalla prassi (prassi totalitaria viene chiamata da un antifascista del tempo (cfr.p.182): la politica ammette solo il primato dell’azione. Priva di solidi riferimenti culturali, anche la pratica si rivela un “dinamismo statico” (cfr.p.90). Il programma politico-sociale è abborracciato, pieno di eccentrici motivi antimonarchici, anticlericali, anticapitalistici, e qua e là non privo di elementi plagiati al socialismo. Il plagio demagogico di motivi “socialisti” è del resto proprio “una caratteristica dei movimenti fascisti”: “gioca spesso in proposito la ricerca di una base di massa in direzione degli strati sottoproletari e poi anche di quelli proletari…Nella propaganda fascista tiene un posto di primo piano la mitologia del lavoro. Si tratta ovviamente soltanto di una facciata… Il trucco mostra subito la corda giacché l’appello ai lavoratori consiste sostanzialmente in una ‘rivalutazione’ del prestigio di ogni tipo di lavoro entro una scala gerarchico-castale che ha al suo vertice il ‘lavoro spirituale’ dei capi ma anche il ‘lavoro’ dei grandi capitani d’industria (dei ‘Cavalieri del lavoro’ come li chiamò Mussolini)” (U. Cerroni, “Per l’analisi teorica del fascismo”, in Idem, Teoria politica e socialismo, Roma, 1973).

Il duce è ben consapevole della fragilità, della debolezza del fascismo-movimento, della inutilità della sua cultura “mitologica” e che rimanendo in questa condizione di immaturità gli sarebbe stata preclusa ogni prospettiva. Per lui, è necessario procedere in una ristrutturazione del potere fascista capace di penetrare nello Stato liberale, di consolidarsi all’interno della sua logica per poi eliminarne le libertà residue. E’ proprio su questo che si aprirà il conflitto fra -come dicono gli storici- mussolinismo e fascismo e che esploderà (1923) nello scontro aperto fra il duce e la Giunta esecutiva del Partito Nazionale Fascista “che aveva espulso il revisionista Massimo Rocca”(p. 94). Si tratta del conflitto fra Mussolini presidente del Consiglio e i capi dello squadrismo integralista e intransigente “che volevano imporre una dittatura di partito per accelerare la demolizione dello Stato liberale” (65). Proprio quello che nell’immediato Mussolini ritiene un errore capitale e che lo induce a dichiarare -come scrive Giovanni Amendola- “che molta, moltissima zavorra va sacrificata spietatamente” (p.79). Per il capo del governo in carica la prospettiva del suo movimento doveva essere l’immedesimazione con lo Stato e nello statalismo farne risiedere il nucleo politico e ideologico (“teorico”) più solido. Proprio il culto dello Stato poteva infatti consentire di affrontare e risolvere molti problemi politici e di governo. Come ben sintetizza Cerroni, esso, per un verso, “sublima l’egoismo dell’etica borghese della forza nonché la latente invidia di potere della piccola borghesia e del sottoproletariato, e per un altro continua e potenzia un elemento caratteristico della tradizione liberale per la quale la sovranità è nello Stato piuttosto che nel popolo”. E conclude: “con questo anello il fascismo si ricollega organicamente a tutta la tradizione autoritaria riuscendo ad assorbire il retaggio della monarchia francese o il cesarismo romano, la mitologia nibelungica o quella cattolico-medievale, variamente innestandoli alle mobili esigenze dell’azione ora guelfa ora ghibellina, ora monarchica ora repubblicana”.

Mussolini comprende che, nella specifica situazione italiana, per conquistare e mantenere il potere bisognava innanzitutto rinunciare alla pregiudiziale repubblicana e rassicurare la monarchia. In secondo luogo, mettere da parte ogni precedente richiamo al socialismo e, sposando un liberismo economico integrale, rassicurare anche gli industriali e “quei proprietari agrari che hanno dato denaro, aiuti, favori agli squadristi per colpire, incendiare, assalire le cascine”. Infine, ma non per ultimo, passare “rapidamente e senza mezzi termini dall’anticlericalismo demagogico al clericalismo nazionalista” (Luigi Sturzo). A Pio XI Mussolini porta immediatamente doni assai graditi come l’esposizione del Crocefisso nelle scuole, l’insegnamento della religione e risorse non trascurabili per il restauro delle chiese. E il papa da parte sua non mancò di manifestargli gratitudine togliendo l’appoggio al Partito Popolare e allo stesso don Sturzo, costretto a dimettersi da segretario del suo partito. “Il Popolo” del 10 maggio 1924, a firma di Igino Giordani, così scrive:” Nella costruzione teorica della dittatura la Chiesa è al terzo punto per cui s’individua il cerchio del fascismo: Monarchia-Capitalismo-Chiesa; al centro, lui, il Duce, il domatore assistito dai baroni dell’Averno”. Presentandosi come uomo delle istituzioni, il Capo riesce ad imbarcare nel suo primo governo (31 ottobre 1922) tutti e di tutto. Ne fanno parte ministri popolari e liberali: da De Gasperi -che addirittura aveva presentato nel Congresso del suo partito un ordine del giorno proprio a favore dell’ingresso nel governo- a Giolitti, Orlando, Salandra, Bonomi. Spacciandosi per difensore della Costituzione fondamentale del Regno ottiene, come ebbe a dire Guido Dorso, “l’investitura del cosiddetto Stato di tutti”. Acutamente un osservatore straniero (v. Gentile p. 92) faceva notare che mentre sul piano ideologico procedeva spedito nel radicalismo della hegeliana “religione di Stato”, su quello pratico “ognuno direbbe che lo Stato secondo il fascismo derivi piuttosto da Adamo Smith e dai radical individualisti inglesi”.

La pseudo rivoluzione fascista si compie dunque con l’avallo dei poteri costituiti e con l’appoggio delle forze liberali. Molti uomini del liberalismo italiano non esitano a “farsi includere nelle liste governative per le elezioni politiche” ed è il liberale Salandra a scrivere il discorso del re, letto alla Camera, di elogio del governo (24 maggio 1923). Di fatto, la mancata trasformazione democratica del regime liberale (sostiene F.L. Ferrari: “La verità vera è che fino ad ora in Italia non abbiamo avuto un reggimento democratico”) rendeva il liberalismo italiano sempre pronto ad ogni torsione autoritaria. Ed è per questa ‘logica’ interna al liberalismo nazionale che il fascismo, in una specie di continuità, può ‘costruire uno Stato in cui “la sovranità popolare è strangolata dalla sovranità statuale e in cui le istituzioni rappresentative sono nominate gerarchicamente dall’alto” (Cerroni). Come scrive il giovane Lelio Basso (“La Rivoluzione Liberale”, 2 gennaio 1923), lo Stato fascista diventa “il Verbo” (“e il suo capo l’uomo mandato da Dio per salvare l’Italia”), quella vera e propria “divinizzazione hegeliana dello Stato” che porterà Giovanni Gentile dal liberalismo al fascismo. Gentile aderisce al fascismo per l’intimo convincimento di una continuità tra liberalismo e fascismo e che il fascismo sia la vera incarnazione del liberalismo moderno. Nella famosa lettera inviata (1923) a Mussolini scrive con trasporto: ” Mi son dovuto persuadere che il liberalismo, com’io l’intendo e come l’intendevano gli uomini della gloriosa Destra, che guidò l’Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge e, perciò, nello Stato forte, e nello Stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato in Italia dai liberali, ma, per l’appunto, da Lei”. Anche Benedetto Croce, il “filosofo della libertà”, distinguendo nettamente il liberalismo dalla democrazia, giunge a “legittimare il fascismo in quanto restauratore del liberalismo”. Così scrive: ”Il cuore del fascismo è l’amore per la patria italiana, è il sentimento della salvezza di essa e perciò dello Stato italiano; è la giusta convinzione che uno Stato senza autorità non è uno Stato” (“Corriere italiano”, 1° febbraio 1924).

Lo Stato etico, lo Stato forte, auspicato da Giovanni Gentile -lo Stato panteista, come invece lo definisce Sturzo-, capace di andare oltre le ‘ambigue’ libertà liberali sarà realizzato dal ’22 al ‘29 anche grazie ad una favorevole congiuntura economica, che porterà al regime un effettivo consenso. Giuliano Procacci, nella sua sintetica ma brillante “Storia degli italiani” (Laterza 1968) fa riferimento soprattutto ai progressi dell’industria chimica, dominata dalla Montecatini, e allo sviluppo rapido dell’industria automobilistica (ma “anche l’agricoltura registrò nel suo complesso un aumento degli indici produttivi”). Così -scrive- “la risollevata situazione economica e l’appoggio al governo da parte dei ceti sociali che erano i maggiori beneficiari resero senza dubbio più facile al fascismo l’opera di liquidazione delle superstiti strutture dello tato liberale e di costruzione di uno Stato autoritario”. L’eliminazione delle residue libertà ancora esistenti inizia con l’istituzione del Gran Consiglio del fascismo, un organo consultivo nominato da Mussolini accanto al Consiglio dei ministri, ma di fatto al di sopra, funzionante come un nuovo “organo di Stato”, del quale facevano parte ministri e sottosegretari sotto la presidenza del capo del governo “come tale, poiché è noto che egli confonde nella sua persona le tre qualità di Capo del partito, Duce delle camice nere, e Capo del Governo d’Italia”. A tale Consiglio, in aggiunta, spetta anche la nomina dei “Commissari politici del fascismo”, “veri e propri commissari per la politica interna, posti accanto e, naturalmente, dati i metodi fascisti, al disopra dei Prefetti, dei quali costituivano altrettanti doppioni più veri e maggiori; e infatti furono chiamati ‘Prefetti volanti’” (cit. da E. Gentile p. 182).Subito dopo (febbraio 1923) viene legalizzato lo squadrismo trasformandolo in “Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale” (MVSN), un esercito “privato” fascista pagato però dallo Stato ed equiparato all’esercito regolare, ma a differenza di questo non giurava “di essere fedele al Re ed ai suoi Reali successori, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato”. Insomma: una forza militare, armata, privata che consentiva a Mussolini di dire con tono minaccioso: “è bene che si sappia che a difendere la Nazione, a difendere quella speciale forma di reggimento politico che si chiama fascismo, vi è una potentissima armata di volontari”. Si può pertanto affermare con Emilio Gentile che l’istituzione della MVSN era “l’iniziativa più grave attuata dal fascismo per affiancare e sovrapporre il poter del partito fascista alle autorità dello Stato costituzionale, in attesa di costruire lo Stato fascista” (p.88).

Per creare condizioni politico-formali generali favorevoli a tale costruzione viene approvata (21 luglio 1923) una legge elettorale truffaldina (la cosiddetta “legge Acerbo”, dal nome del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo, che l’aveva elaborata) che prevedeva un collegio unico nazionale e l’adozione di un sistema maggioritario che assegnava i due terzi dei seggi (356) alla lista che otteneva la maggioranza superando il 25 per cento dei voti, mentre i restanti 179 seggi venivano ripartiti proporzionalmente fra le liste di minoranza. Con molto sarcasmo, Anna Kuliscioff commentava che questa legge con il collegio unico nazionale senza proporzionale istituiva semplicemente “la dittatura della maggioranza relativa, cioè della minoranza”; e Luigi Sturzo rilevava come essa modificasse “le basi del nostro regime costituzionale riguardo la manifestazione della volontà popolare”. Ma ormai padrone assoluto dello Stato, della volontà popolare Mussolini teneva davvero ben poco conto. Nelle condizioni create, solo la forza avrebbe potuto toglierlo di mezzo ed egli stesso in effetti lo ammetteva esplicitamente quando affermava “in modo chiaro e perentorio che la volontà popolare espressa dalle elezioni non avrebbe comunque deciso la scelta di un nuovo governo”. A dimostrazione di quanto poco contasse per i fascisti una libera espressione di voto, la tracotanza squadrista nelle elezioni politiche del 6 aprile del ’24 creò un clima di violenza e paura, soprattutto nel Sud. Continuando a credere ancora in una qualche efficacia del ‘gioco parlamentare e politico ‘, la denuncia delle prepotenze e illegalità fasciste nell’aula parlamentare e nei comizi degli antifascisti fu ferma e vigorosa. Il 30 maggio, alla Camera, lo fece Giacomo Matteotti e il 6 giugno Giovanni Amendola. Quest’ultimo sostenne che “le elezioni non ebbero luogo nelle condizioni di libertà e di legalità” e che pertanto era “nel pieno diritto di non riconoscerne la validità e di non accettarne il risultato” prendendosi la risposta terribile di Farinacci, uno dei più rozzi e violenti squadristi: “Abbiamo il torto di non avervi fucilato”. L’intervento di Matteotti fu di grande fermezza ed efficacia. Anche lui sostenne che l’elezione della maggioranza non poteva essere considerata valida in quanto “ciascun cittadino sapeva a priori che, se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il voto e il suo responso”, “una milizia armata, composta di cittadini di un solo partito, la quale ha il compito di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse”. In un suo scritto così Matteotti sintetizzava la situazione del Paese: “L’arbitrio si è sostituito alla legge, lo Stato asservito alla fazione, e divisa la Nazione in due ordini, dominatori e sudditi”.

Con l’uccisione di Matteotti da parte di quattro sicari fascisti (su probabile mandato di Mussolini) il regime sembrava ormai finito. L’orrore nel Paese per questo delitto fu enorme e ampio fu il montare nell’opinione pubblica di un’ampia avversione al regime. Scrive Turati: “Ormai il regime del crimine è minato da tutte le parti, in basso, in alto, a Corte, nel giornalismo, nella maggioranza. Scappano tutti, cominciando dagli industriali. Sentono odore di morto”. Il momento per una spallata al regime sembrava dunque essere arrivato. Ma l’opposizione non seppe darla e alla situazione reagì assai debolmente: col semplice rifiuto di partecipare alle sedute della Camera (il cosiddetto “Aventino”) e continuando a riporre fiducia in un intervento -che non ci fu- del Re. Il fascismo, che aveva mantenuto intatta la sua forza organizzata ebbe così modo di riprendersi e di creare nel Paese un clima di confusione e di violenza. “Le esibizioni di forza inscenate in massa dagli squadristi in varie province, durante l’estate del 1924, diedero al duce la possibilità di recuperare sicurezza e affrontare, con nuove minacce, la sfida delle opposizioni” (p.155). Il 31 dicembre una massa enorme di squadristi radunati a Firenze tentò l’assalto al carcere per liberare i fascisti detenuti, devastarono la sede del “Nuovo Giornale” e formularono un ordine del giorno di sostegno e di incoraggiamento al duce ad andare avanti a tutti i costi, anche a quello di dar vita “ad una situazione dittatoriale”. Lungo la quale Mussolini procedette subito senza alcuna esitazione. Con un discorso colmo di minacce e intimidazioni all’opposizione e all’intero parlamento, il 13 gennaio 1925 alla Camera dichiara di assumersi ogni responsabilità politica e morale dell’uccisione di Matteotti e di quanto i fascisti avevano commesso fino allora, concludendo con l’avvertimento che il governo era ” abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell’Aventino”. Da quel momento il fascismo ‘operò’ esclusivamente con la violenza di partito e con la repressione di Stato contro ogni dissenso e opposizione. Le ultime deboli libertà civili e politiche vengono definitivamente sepolte e con esse viene sepolto anche l’ultimo embrione di Stato liberale. Il regime procedette verso quella che è chiamata la totale “fascistizzazione” dello Stato. Furono emanate leggi “fascistissime” e provvedimenti che “gettarono le fondamenta e innalzarono i pilastri maggiori del regime a partito unico, base strutturale del nuovo Stato fascista, dove tutto il potere era concentrato nella persona del capo del governo e duce del fascismo” (p. 174). Nel ’26 viene soppressa l’attività dei partiti dell’opposizione attraverso una legge sulle associazioni; la libertà di stampa fu sottoposta all’arbitrio del prefetto; furono espulsi dalla Camera i dissidenti dell’Aventino; l’amministrazione fu epurata dai funzionari sospetti di antifascismo; fu eliminata l’autonomia delle amministrazioni locali con la sostituzione del sindaco eletto dai cittadini con il podestà designato dal governo; il ministro Alfredo Rocco procedette speditamente alla riforma dei codici in senso autoritario. Con una nuova legge che prevedeva la semplice approvazione di una lista unica di quattrocento candidati, si riforma la rappresentanza politica e si nega di fatto il principio della sovranità popolare. Agli oppositori viene riservata una ulteriore ‘attenzione’ con l’istituzione dell’OVRA (“Opera Vigilanza Repressione Antifascismo”), la polizia politica del regime, e un Tribunale speciale formato da ufficiali generali delle tre forze armate e della MVSN per i delitti contro il regime che seppe collezionare in pochi anni un lungo elenco di condannati alle patrie galere, al confino e alla pena di morte. La classe operaia, prevalentemente all’opposizione, viene resa impotente con il monopolio delle associazioni sindacali fasciste (1925) e con il successivo patto di Palazzo Vidoni tra i rappresentanti sindacali fascisti e gli industriali che sanciva la fine degli scioperi e delle commissioni interne di fabbrica. L’ultimo colpo, quello mortale, all’autonomia organizzativa operaia viene assestato dallo scioglimento della Confederazione Generale del Lavoro, ultima roccaforte del sindacalismo libero.

Il 21 aprile 1927 (non casualmente, proprio nel giorno del Natale di Roma, che poi sostituirà la giornata del 1° maggio) viene emanata una ‘parodistica’ “Carta del lavoro” che restaurando il corporativismo dell’ancien regime ripristinava in forme pseudo- moderne il vecchio assetto delle classi chiuse. Insomma, viene messo in piedi un regime, ad onta della civiltà politica, in cui sono presenti anche elementi di assoluta improponibilità storica e perfino di drammatica comicità (o comicamente drammatici), del quale “il duce colui che aveva sempre ragione ‘era il dio” (G. Procacci).

La ricostruzione storica accurata di Emilio Gentile dell’unicità della pratica totalitaria del fascismo è ricca di insegnamenti ed anche di ammonimenti. Uno di quest’ultimi è che bisogna combattere il “negazionismo” che porta alla sottovalutazione della ‘originalità’ negativa del fascismo e a mettere in dubbio la natura totalitaria di quel regime (come cercano di fare esponenti dell’attuale governo Meloni e intellettuali di quell’area). In un’altra circostanza, così Gentile conclude il suo ragionamento: “Se il totalitarismo fascista fu solo una abbronzatura in camicia nera, perché torniamo continuamente a parlarne? Come è possibile che il periodo più incisivo nella storia dell’Italia unita e nella coscienza nazionale siano stati i ventitre anni di dominio fascista e non i precedenti sessant’anni di monarchia liberale o i successivi settantasette di democrazia repubblicana?

Con questi interrogativi sembra quasi volerci allertare sul fatto che, date le nostre tare storiche, il passato può sempre ritornare anche se camuffato sotto altre vesti. Il libro è dunque scritto sicuramente per conoscere il passato ma anche per avvertirci sui rischi che corre il presente. De te fabula narratur.

Egidio Zacheo

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