La pietra della follia

Viviamo in tempi davvero straordinari: stimolanti ma anche inquietanti. La scienza e lo sviluppo tecnologico mettono continuamente in discussione approdi culturali e certezze morali raggiunti con non poca fatica. Tecnologia e scienza reclamano un cittadino duttile e pronto alle novità ma anche dotato di una solida bussola di orientamento che può venire solo da una collettiva crescita umana, culturale e sociale. Altrimenti, non c’è scampo: perché le cose create prevarranno sui loro creatori. Come valutare – e come reagire alle stesse- le notizie, riportate sulle prime pagine dei quotidiani e dai telegiornali, di un robot che si occupa d’arte e viene “arrestato” in Egitto con l’accusa di spionaggio? O di robot che in Giappone, Svezia e, forse, anche in Italia fanno gli assistenti spirituali in aiuto ai ‘preti’? O di robot che a Singapore fanno i poliziotti comminando multe agli automobilisti indisciplinati? O di due fratelli guariti da una grave malattia grazie ad un intervento di modificazione del loro codice genetico? Gli umanoidi, dunque, sono già tra noi gente comune e fanno già parte della nostra vita quotidiana.

Ma la scienza che procede tanto rapidamente verso, per così dire, l’“umanizzazione” della macchina ha poi bisogno contestualmente della piena umanizzazione delle relazioni sociali e del pieno controllo democratico dei suoi progressi. Il timore che la macchina possa disumanizzare l’uomo solo in questo modo può essere allontanato e vinto. Demonizzare ed esorcizzare lo sviluppo scientifico non serve a niente perché la conoscenza è una forza inarrestabile. E perché la scienza è amica dell’uomo e dell’umanità.

Proprio i nostri tempi, però, fanno registrare un’offensiva virulenta del pensiero antiscientifico. Un esempio eloquente ce lo fornisce tra i molti altri il volumetto, edito da Adelphi, “La pietra della follia” di Benjamin Labatut, scrittore olandese trasferitosi in Cile. Si tratta sostanzialmente di un pamphlet contro la scienza, considerata più o meno un <<delirio metafisico>> che si illude che <<questo nostro mondo sia conforme a un ordine>>. Per avere autori d’appoggio, Labatut non esita a piegare totalmente a questo suo convincimento il pensiero “visionario” di Lovecraft, Hilbert, Philip K. Dick. Il titolo del libro riprende quello del famoso quadro di Hieronymus Bosch, dove un ciarlatano è intento a tagliare la fronte di un credulone per estrarre appunto la pietra della follia (della stoltezza, dell’ignoranza), ed è incomprensibilmente, contraddittoriamente introdotto, a mo’ di manchette, da un pensiero di Antonio Gramsci, vale a dire di un pensatore che con le tesi del libro non ha assolutamente niente a che fare.

A Labatut sembra proprio che la scienza non solo abbia una formidabile “illusione” conoscitiva ma che sia anche la causa di buona parte dei nostri guai esistenziali. Facendo suoi tutti gli esiti degli epigoni del “pensiero negativo” ci mette in guardia dal credere che la scienza possa aiutarci a capire il mondo e ci avverte che, anzi, il prezzo che paghiamo <<per la conoscenza è la perdita della nostra capacità di comprensione>>. Scioglie il dubbio su cosa allora possa sostituire o integrare la scienza nella conoscenza dicendo che a volte <<impazzire risulta essere una risposta adeguata alla realtà>> perché c’è qualcosa <<nel cuore delle cose che si sottrae alla nostra comprensione>>. Per lui, poiché la <<fiaccola della ragione>> non riesce a illuminare alcunché, bisogna ricorrere alla…follia, vera levatrice della conoscenza. E’ così convinto di questo che ad un certo punto propone addirittura di leggere diversamente il quadro di Bosch: il “chirurgo” non starebbe, infatti, togliendo la pietra della follia ma immettendo nella testa del credulone <<i frutti fertili della follia>>. Togliere dalla testa degli uomini la follia è per l’autore -in ciò d’accordo con Foucault, espressamente ricordato- <<un delirio della ragione che pensa di poter oltrepassare i propri limiti>>.

Labatut depone le armi della ragione e si arrende. Capire il mondo ormai non serve perché il mondo non ha senso: è indecifrabile, <<non è presieduto dall’ordine, bensì dal caos. La prova solida di ciò ritiene di averla trovata nei fatti cileni dell’ottobre del 2019 (<<tutto questo l’ho percepito molto chiaramente nel paese in cui vivo, il Cile>>). Proprio questi fatti sono, per l’autore, un documento clamoroso dell’incomprensibilità del mondo. Ritiene infatti che essi abbiano fatto piazza pulita della <<logica dominante>> perché non erano spiegabili razionalmente. In quel disordine generale <<niente aveva più senso>> e nessuno riusciva a capire <<cosa stesse succedendo>>. Per Labatut, la realtà sembrava schizzare fuori da ogni schema, a conferma che il ragionamento, la razionalità nel mondo odierno servono davvero a poco. Per quei fatti, una spiegazione che avanza, ma che non spiega nulla data la sua palese superficialità, è che si sia trattato di una <<lovecraftiana vitalità>> per cui <<le energie represse prima o poi rifluiscono nel presente>>.

Ma, di lì a poco, saranno proprio i fatti a smentirlo clamorosamente, perché la realtà cilena riprenderà il suo cammino “spiegabile” e razionale. La fragile analisi sociale dell’autore affoga nel mare effimero del “pensiero negativo”, perché, proprio sulla spinta dei fatti dell’ottobre del 2019, il Cile, qualche settimana addietro, ha eletto come suo presidente il giovane 35enne socialdemocratico Gabriel Boric e ora sta riscrivendo la nuova costituzione in sostituzione di quella redatta dalla sanguinosa dittatura di Pinochet.

Egidio ZACHEO

 

 

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