La questione napoletana

Potrà questa morte incivile di un ragazzo diventare – come in tanti si augurano – la spinta e il catalizzatore di un sussulto di civiltà? Ci sono a Napoli le risorse per trasformare questa tragedia in un movimento di riscatto?  In questi giorni prevale l’emozione, ed è giusto che sia così. Quando qualcosa ti si spacca dentro, devi prima guardarti dentro. E per chi ama questa città, e non smetterà di combattere perché diventi migliore, questi sono giorni durissimi. Era già impossibile rinchiudere gli scempi di Caivano nel degrado irredimibile delle periferie. Il brutale assassinio nella piazza simbolo dell’istituzione cittadina impone di andare oltre lo sdegno. E porsi la domanda che da tempo è scomparsa dai libri di studio: ma Napoli può davvero cambiare? E a quali condizioni, e con che tempi?

Quando ci si trova di fronte a eventi così sconvolgenti, cerchiamo innanzitutto soccorso nelle rappresentazioni morali, e nelle radici culturali. Agevolati dal peso enorme che la sfera comunicativa ha assunto nelle società contemporanee, e da quanto stretto sia diventato il legame tra Napoli e la sua immagine. Per dirla con categorie del passato che stanno tornando di moda, le analisi, le spiegazioni, i rimedi tendono a gravitare nell’orbita dei processi sovrastrutturali. Che presentano almeno tre vantaggi. Si prestano alla diversità di opinioni, alimentando così il dibattito su basi innocuamente ideologiche. Suggeriscono soluzioni a somma zero, come sono tutte quelle che implichino la partecipazione volontaria e animata dalle migliori intenzioni. Infine, indicano con sacrosanta chiarezza la linea che separa il male e il bene, un esercizio spirituale che allevia – almeno sul momento – le coscienze.

Purtroppo, però, queste analisi non prendono di petto la domanda sul futuro della città. La lasciano in un limbo mediatico. Come se la risposta potesse ancora attendere una qualche nostra esegesi. E invece la risposta c’è già. Agghiacciante come lo sono i dati quando si ha il coraggio di leggerli. Mentre continuiamo a interrogarci se Eduardo abbia ragione o torto, i giovani se ne sono già fuggiti. Cinquantamila negli ultimi quattro anni, dalla sola provincia di Napoli, come scrive Paolo Grassi sul Corriere del Mezzogiorno, riportando lo studio della Cgia di Mestre. E a fronte di questo svuotamento, Milano, Bologna, Firenze che segnano un saldo positivo. Se non si ferma questa emorragia, può ancora avere senso discutere se Napoli abbia o meno un futuro?

Così, il cerchio si comincia a chiudere. La questione napoletana, oggi, è una questione giovanile. E si racchiude in due parole: occupazione e formazione. Con un intervento che metta in campo le risorse – e la consapevolezza – che lo Stato ha impegnato per il Sud agli albori dell’età repubblicana. C’è bisogno – come scrive Francesco De Core ieri su questo giornale – «di un esercito di educatori, tra scuole, palestre, centri culturali». E c’è bisogno di un esercito di lavoratori. Che fabbriche e servizi tornino ad essere l’ossatura di una metropoli condannata altrimenti a diventare la fotocopia patinata del proprio folklore.

Certo, perché tutto questo non resti una diagnosi impietosa quanto velleitaria, è indispensabile che la politica si assuma le proprie responsabilità. Per una sfida di questa portata, il segnale e l’iniziativa devono venire da Roma. Sono trent’anni che il Sud è rimasto orfano di una prospettiva nazionale. Al governo come all’opposizione. Con una importante parentesi, l’exploit elettorale dei grillini con il reddito di cittadinanza. Si trattava della soluzione sbagliata. Ma ha avuto il merito di segnalare come possa rapidamente prender corpo un partito meridionale, in grado di terremotare gli equilibri dell’intero sistema politico. Se non sarà lo Stato a intervenire, arriverà un nuovo leader populista a raccogliere il malcontento e la protesta di una società che sta smarrendo il bandolo del proprio futuro.

di Mauro Calise

(“Il Mattino”, 4 settembre 2023)

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