La Via Appia

Roma è una città affascinante, la visiti mille volte ed è sempre come se fosse la prima. Ovunque si posi lo sguardo si incontra la storia, in un incrocio magico di presente e passato che le dà quel senso di eternità che tutti le riconoscono.

Era il 14 agosto del 1990, eravamo giunti in città da pochi giorni per una vacanza entusiasmante: prima alla scoperta di Roma e poi una settimana di divertimento in Versilia.

Quel giorno avevamo deciso di recarci sull’Appia antica e di visitare il circo di Massenzio, la tomba di Cecilia Metella, la chiesa del “Quo vadis” e magari anche le catacombe di San Callisto, insomma il cuore dell’antica via.

Giunti alla porta di san Sebastiano al mattino presto, cominciammo la visita muovendoci lentamente, con frequenti soste per ammirare i monumenti o per leggere la guida turistica, rapiti dall’atmosfera dei luoghi.

Ogni lastra della via Appia era carica di storia e mentre ai suoi bordi si potevano ammirare i resti di tombe gentilizie, la vegetazione nascondeva edifici più recenti spesso decorati con antichi fregi.

Visitammo il circo di Massenzio e la maestosa tomba di Cecilia Metella. Nella chiesa del “Quo vadis” rimanemmo assorti pensando che proprio in quel luogo era avvenuto l’incontro fra Gesù e Pietro, per ricordare a quest’ultimo il dovere di un Pastore nei confronti della propria comunità nel momento più grave della esistenza di questa. Quale emozione provammo percorrendo il tratto fra la chiesa e le catacombe di san Callisto e quale angoscia ci prese passando per le fosse Ardeatine.

Camminammo, come tre pellegrini alla ricerca del divino, finché non giunsero le due dopo mezzogiorno. Eravamo stanchi e anche affamati. Decidemmo di tornare in albergo.

Quando arrivammo alla prima fermata dell’autobus, ci accorgemmo che era troppo presto per la prima corsa utile. Faceva caldo. Non c’era un riparo dai raggi del sole. Dopo aver bevuto ad una fontanella lì vicino, decidemmo di proseguire e di raggiungere quella successiva con la speranza così di ridurre il tempo di attesa.

Giungemmo nei pressi della porta si san Sebastiano senza praticamente incontrare traffico e passanti. Eravamo stranamente soli, circondati da piante, antiche vestigia e da un insolito silenzio, avvolti da una luce abbagliante.

Ci avvicinammo alla fermata successiva senza quasi udire i familiari rumori cittadini e senza incontrare anima viva, si sentivano solo garrire le rondini in cielo.

Eravamo accaldati e ancora assetati. Ci sedemmo all’ombra di una pianta i cui rami pendevano oltre la recinzione di un giardino vicino.

Mentre Claudio e Luca si consultavano sugli orari e sul da farsi, io rimasi in silenzio, godendomi quel fresco, come un antico viandante, e ascoltando quel silenzio interrotto dal garrire delle rondini e dal canto di un gallo.

Il canto di un gallo… a Roma…  echeggiava lontano fra le case, il verde e gli antichi edifici.

L’assenza di altri suoni e di rumori lo rendeva nitido. Respirai lentamente e profondamente, ascoltandolo attentamente… era proprio il canto di un gallo.

“Prima che il gallo canti mi rinnegherai tre volte.”

“E subito un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola di Gesù.”

“Quo vadis domine. Vado a Roma per essere crocifisso ancora una volta.”

Queste frasi mi ronzavano nella mente, mentre la luce abbagliante e la frescura mi avvolgevano, proiettandomi lontano nel tempo e nello spazio.

Ma dove mi trovavo? Nel 1990 o nel I secolo dopo Cristo? Fu un momento unico, bellissimo. Mi voltai verso la strada pensando di vedere all’orizzonte un qualche antico viandante. Fu la sensazione di un secondo. Tornai alla realtà, avrei voluto rivivere quel momento ma fu impossibile.

Cercai di comunicare quella sensazione ai miei amici, ma vi rinunciai, non perché non avrebbero capito, ma solo perché in quel momento erano troppo presi dall’argomento mezzi pubblici e loro manchevolezze.

Tentai allora di tornare alla sensazione appena vissuta, il gallo cantava ancora, ma l’incantesimo fu definitivamente rotto dal rombo dell’autobus che giungeva e dalle esclamazioni di gioia dei miei compagni di viaggio.

Salimmo sul mezzo, era vuoto, ci accomodammo su tre sedili diversi, uno dietro l’altro, e mentre il bus si allontanava da quel luogo antico e Claudio parlava dei ritardi di mezzi pubblici, di cosa avremmo mangiato al ristorante, della successiva dormita in camera e di Roma by night, io mi sforzavo di rivivere, invano, il momento vissuto, come si fa con un bel sogno, tentando di riaddormentarsi.

Giungemmo al largo del Tritone, scendemmo alla nostra fermata e ci recammo alla solita trattoria,” Da Gasparone”. Qui, una volta seduti al solito tavolo, ordinammo fettuccine e macedonia. E mentre Luca e Claudio conversavano di cibi, monumenti romani e di attrici e i nostri vicini di tavolo, giornalisti del “Messaggero”, discutevano dei fatti politici del momento, io inseguivo invano ciò che avevo vissuto.

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