La vittoria dell’antileader

Senza nulla togliere alle affermazioni amministrative – la conferma dei governatori che reggeranno per i prossimi cinque anni le loro regioni – c’è un vincitore nazionale, politico. Si chiama Nicola Zingaretti. In quest’epoca di nuovismo imperante, le sue risorse migliori sono state le antiche armi del professionismo politico. La capacità di non farsi spaventare – impantanare – dalla girandola di ribaltoni e rimpastini strombazzati da molti media e da tutti i poltronisti di Montecitorio. Tenendo, invece, ferma la linea con cui – un anno fa – aveva accettato di entrare in coalizione con i Cinquestelle: prendere sul serio l’alleanza, spingere perché diventasse – pur se tra inevitabili contrasti – fisiologica e si estendesse dal governo alle periferie. I suoi nemici interni – da sempre, nel Pd, i più pericolosi – lo attendevano al varco elettorale per fargli pagare salate le due sconfitte – quasi – annunciate, nella roccaforte Toscana e in Puglia. Attribuendole entrambe al tradimento dei cinquestelle, che avevano insistito a candidarsi a dispetto delle pressioni di Zingaretti. Invece, il segretario ha dimostrato di farcela anche da solo, ma senza tagliare i ponti. E potendo, così, favorire una quota di voto disgiunto. Ma, soprattutto, affermando quello che finora era mancato sulla scena politica: un saldo quadro strategico.

È in questa chiave che ha piazzato l’altro colpo vincente, l’appoggio allo show-down referendario. Non si è trattato di una scelta semplice. Gli argomenti contrari erano tanti, nel merito come nel metodo. E al segretario Pd certo bruciava il fatto di falcidiare il Parlamento senza che fossero state approvate le modifiche regolamentari e elettorali indispensabili per fare funzionare la riforma. E, ancora più importante, pattuite come condizione per votare il referendum grillino. Se fossero andate male le elezioni, gli oppositori gli avrebbero potuto rinfacciare di essersi fatto – doppiamente – fregare. Al contrario, Zingaretti esce da questa decisiva tornata con un messaggio chiaro e netto al paese. Non ci sono, oggi, alternative all’alleanza con cui il governo si accinge a gestire la più corposa manovra finanziaria della storia repubblicana. E il regista di questa alleanza è lui.

Insieme a Luigi Di Maio. Certo, i risultati abbastanza scontati del referendum non sono sufficienti a calmierare le fratture e fibrillazioni che stanno dilaniando il movimento. Ma consentono al Ministro degli Esteri di tirare il fiato al cospetto di una performance territoriale del suo partito quasi disastrosa. Potendo, al tempo stesso, ribadire – col tono morbido di un democristiano di scuola che ormai gli è congeniale – che le cose sarebbero andate molto meglio se i consiglieri locali non avessero insistito nel correre da soli. Senza fare la figuraccia di risultare del tutto irrilevanti. Anche e proprio lì dove – vedi il comizio in extremis in Puglia di Di Battista – più si erano accaniti a cercare di sgambettare il candidato Pd. Nella debacle dei risultati regionali, i grillini possono – se si può dire – consolarsi di avere ritrovato il proprio leader. Diversissimo da un anno fa. Ma ancora in sella.

Chi, invece, comincia a rischiar grosso è l’uomo che l’estate scorsa sembrava avesse in pugno il paese. Salvini ha perso la partita più importante, e diretta. Il tentativo di espugnare la Toscana, facendo personalmente campagna porta a porta. Ha fallito, come già a gennaio in Emilia Romagna. Ma stavolta, il boccone è molto più amaro da ingoiare. Per altri due dati, che mettono in dubbio la strategia su cui il Capitano ha fondato, fino ad oggi, il suo primato. Il primo è il tracollo della Lega al Sud, mettendo forse una pietra tombale su quel progetto di partito nazionale che era stata la principale novità della gestione salviniana. Il secondo dato, ancora più insidioso, è la crisi individuale del leader. La personalizzazione era stato il vero asset del segretario con la sua strepitosa ascesa nei sondaggi nel volgere di meno di un anno. Ed è proprio qui che Salvini subisce il colpo più duro. La spinta alla apoteosi di Zaia in Veneto viene, infatti, dalla sua lista, che arriva quasi a triplicare i voti ufficiali della Lega.

Si potrebbe chiosare, chi di personalizzazione ferisce di personalizzazione perisce. Con l’aggravante che, quella di Zaia, non è una meteora mediatica, ma è nel solco della tradizione leghista: solida amministrazione e capillari rapporti sul territorio. È presto per dire che si apre una sfida ai vertici del Carroccio. Ma mentre Zingaretti e Di Maio sembrano aver ripreso in mano le fila dei propri partiti, Salvini rischia, per la prima volta, di farsele sfuggire.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 21 settembre 2020).

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