L’arrivo – (Storie di vita militare)

Finalmente il giorno del giuramento solenne. La mattina del 16 gennaio 1982 era fredda ma luminosa. Nelle camerate la sveglia scatenò la frenesia. Tutti eravamo impegnati ad indossare l’uniforme da cerimonia (ladrop), a fare il nodo alla cravatta e a sistemare le ghette agli scarponi.

Dovevamo indossare i guanti di filo, bianchi, ma erano un problema, perché questi non permettevano di stringere bene il fucile, quindi, per consentire una buona presa, dovevano essere bagnati. Però, in quella giornata gelida, il risultato fu di freddo alle mani.

Ero nervoso. Cercai di fare tutto per bene, senza l’aiuto di nessuno. Avevo il terrore che i lacci delle scarpe potessero sciogliersi o di inastare male la baionetta al fucile.

Quando finalmente fui pronto ed uscii per andare all’adunata e quindi a ritirare l’arma ebbi un gran freddo alle mani:

“Mamma mia! Ho le mani ghiacciate! Spero di poterle muovere durante la cerimonia.”

Qualcuno urlò: “Se avete i guanti troppo umidi e sentite le mani intorpidite, muovete più che potete le dita!”

Così feci, sperando che nel frattempo i guanti si asciugassero un po’.

Ritirata l’arma (il Garand), tornammo al piazzale per salire sugli autocarri. Tutto filò liscio, anche perché ci eravamo addestrati non poco a quella operazione.

Gli ACL 70 partirono alla volta di piazza Galimberti, a Cuneo. Ero emozionato.

Fra noi regnava il silenzio quando, ad un certo punto, uno imprecò: “Ma per che cazzo mi trovo qui! Ma stavo tanto bene a casa!”

“Ma ormai siamo qui.” Rispose dolcemente un altro.

Molti di noi sorrisero o pronunciarono altre imprecazioni a mezza voce.

Arrivammo a destinazione e mentre scendevamo e cominciavamo ad inquadrarci, udimmo le musiche delle fanfare delle varie brigate.

Fu emozionante. Non dovevo sbagliare. Non potevo fare brutta figura. C’erano i miei familiari fra gli spettatori.

Il sottotenente Basile, vedendoci tesi, ci disse:

“Ora ragazzi non pensate più a niente. Guardate avanti a voi e basta. Non preoccupatevi più di niente. Avete una scarpa slacciata, il cappello storto, qualcosa fuori posto, fate solo quello che vi si dice e tutto andrà bene.”

Entrammo in piazza Galimberti, ci disponemmo come avevamo imparato a fare nelle settimane precedenti, i più bassi di statura davanti…e io stavo in prima fila.

Per non distrarmi concentrai lo sguardo sul palco delle autorità. Parlarono il ministro della difesa, Lagorio, generali e politici.

Finalmente si giunse al momento in cui il comandante del corpo degli alpini pronunciò la formula di giuramento, alla quale rispondemmo con un sonoro “lo giuro!”, alzando, contemporaneamente e all’unisono, il braccio destro. Allora le fanfare attaccarono a suonare l’inno di Mameli e gli spettatori applaudirono, inneggiando agli alpini.

Non nego che fu commovente. La cerimonia si concluse poco dopo. Imbarcati quindi sugli ACL, tornammo in caserma e da qui, una volta tolte le ghette e cambiati gli scarponi, facemmo ritorno a Cuneo per incontrare i nostri cari.

Praticamente si fece festa per due giorni. Ero euforico, come se fossi al termine della naja. E l’euforia durò fino al ritorno dalla licenza breve. Ricordo che giravamo per la caserma “Vian” con atteggiamenti da veterani. Guardavamo con sufficienza le reclute che avrebbero preso il nostro posto. Qualcuno si azzardò addirittura a dare dei consigli ai nuovi arrivati. Marco scrisse un bigliettino per la recluta che avrebbe occupato il suo armadietto, lo infilò in una delle tante fessure interne.

Rincuorava il giovane balenandogli la possibilità di fare nuove amicizie, come era capitato a lui. Altri lasciarono di “stecca” oggetti utili per la vita in caserma.

Ma ogni entusiasmo cessò al momento della lettura delle nostre destinazioni.

Briasco venne mandato in Friuli.

“Belin… che sfiga… non ci voleva… e quando torno a Zena in licenza? Non ci torno più.”

E mentre parlava, mestamente metteva le sue cose nella borsa valigia e nello zaino. Non lo avevo mai visto così triste. Quando prese la bottiglia con “sabbia e acqua del porto di Genova”, la mise via senza pronunciare la frase che ormai conoscevamo a memoria.

Anche noi però non stavamo troppo allegri.

“Egidio, vieni anche tu a Borgo?” Mi chiese Luigi Giordano.

“Sì, battaglione “Saluzzo”, Borgo San Dalmazzo.”

“Speriamo bene- facendo una smorfia- non è un posto tanto bello…”

“Beh… però non siamo tanto lontani da casa. Pensa al povero Briasco.”

Sapevo della caserma “Mario Fiore” di Borgo, ma cercavo di convincermi che non fosse un posto così brutto come ce lo avevano descritto.

“Eh…però non è bella…”

“Ma perché ti lamenti? Sei di Boves, vicino a Borgo, magari la sera torni a casa.”

“Proprio per questo, Egidio, ho paura dei “vecchi”.”

Intervenne Marco: “Allora dovevi fare un’altra scelta. Fare in modo di star lontano da casa, se sapevi quali sarebbero state le conseguenze… belin.”

Marco era risentito, non lo avevo mai visto così. Anche lui era stato assegnato al battaglione “Saluzzo”. Non aveva torto. Tanti avevano bisogno di avvicinarsi, perché sposati, sostegno alla famiglia, con genitori ammalati, e non erano stati esauditi.

Marco aveva il padre ammalato ma gli era toccato Borgo e la cosa non gli andava giù.

Luigi era mortificato. Vedere un ragazzo forte come un toro aver paura di quatto giovinastri, forti solo della “potenza dei mesi”, destava pena.

“Speriamo di rimanere nella stessa compagnia.” Dissi, per stemperare la tensione.

“Speriamo…” Rispose sconsolato Luigi.

“Sarebbe bello… belin.” Aggiunse Marco, tornato il ragazzo mite di sempre.

Giunse l’ora. Prima di uscire dalla camerata, salutammo quelli che sarebbero andati a Susa, Pinerolo e Rivoli. Briasco, partito nella notte, lo avevamo salutato prima del silenzio.

Uscimmo per sempre dalla casermetta della X consci di quello che avremmo trovato.

Infatti, come giungemmo in prossimità del piazzale dove erano fermi gli ACL 70 del battaglione “Saluzzo”, fummo accolti dalle urla degli autisti, che ci ordinavano di muoverci in fretta.

Sotto il peso dello zaino e della borsa valigia facevo fatica a muovermi. Ricordo l’espressione beffarda di un conducente che, trattandomi come un babbeo, mi urlò:

“Allora! Ci vogliamo muovere!”

Non risposi. Feci un cenno con il capo. Gli autisti erano quasi tutti “nonni”.

Salimmo sul cassone di uno di quegli autocarri. Marco ed io eravamo ancora insieme e con noi anche Piero, Battistino e Luigi.

Nessuno aveva voglia di parlare, solo qualche imprecazione a mezza voce e tanti sospiri. Partimmo per la nostra destinazione.

Quando giungemmo alla “Mario Fiore”, a Borgo San Dalmazzo, fummo accolti dalle urla e dalle esclamazioni dei soldati, affacciati alle finestre, sulla soglia dei magazzini, nel piazzale. Non riesco a dimenticare quella scena.

Scendemmo dagli autocarri, inquadrati dallo stesso ufficiale che ci aveva preso in carico, il sottotenente Ferrini, e condotti davanti ad un edificio basso, dove fummo fatti entrare uno alla volta.

Entrato nello stanzone, vidi un tavolo a ferro di cavallo con, seduti, al centro un maresciallo, dalla inflessione partenopea, e ai lati alcuni graduati.

“Lapenta Egidio- esordì il maresciallo- classe 1955…è vecchio…ha rinviato per motivi di studio. Specialista al tiro: questo va a Boves, alla 106.”

Rimasi come un baccalà, fra l’accoglienza, le parole del maresciallo e la notizia della destinazione.

“Ancora un viaggio.” Pensai.

“Vada in sartoria a farsi cucire il distintivo e poi aspetti i suoi compagni della 106.” Mi ordinò il maresciallo.

Uscii. Ero terrorizzato, ovunque andassi vedevo reclute inseguite da vecchi.

Uno di questi mi ordinò di fermarmi, chiedendomi la compagnia di appartenenza.

Non ricordavo il numero, risposi:” Vado a Boves.”

“Ah, la 106- disse infastidito- allora niente. Sei di Boves!”

“Sì!” E mi allontani di corsa, senza capire il nesso della breve conversazione. Fortunosamente giunsi alla sartoria, dove una gentile signora mi cucì le mostrine e lo stemmino sulla manica sinistra.

Uscii. Non sapevo dove andare. “Dov’era il camion della 106?”

Mi muovevo quasi di corsa per evitare di incappare nei “vecchi”, che comunque attorno a me erano scatenati verso le reclute. Ebbi l’impressione di una scena di caccia.

“Gennaio! Gennaio! Fermati!”

“Di che compagnia sei!”

“Sono della 106!”

“Allora vai. Non sei di Borgo. Appartieni a Boves!”

Non mi sembrò vero. Mi allontanai di corsa, capendo solo in quel momento che avrei potuto sfuggire alle grinfie dei “vecchi” pronunciando la frase salvacondotto:” Sono della 106!”

Finalmente trovai il camion della mia compagnia. Mi fecero salire. Ero al sicuro in mezzo a quel marasma e alle urla.

Rividi Luigi e Piero. Con loro c’erano visi nuovi, che non avevo mai notato alla “Vian”. Non vidi Marco. Lo cercai fra i miei compagni. Non c’era. Era rimasto a Borgo. Mi rammaricai. In quel momento la sua presenza mi avrebbe tranquillizzato ulteriormente. Ma sapevo, sapevamo tutti, che era una calma temporanea. A Boves avremmo avuto la nostra parte di “nonnismo”.

Nessuno sorrise. Nessuno pronunciò parole entusiastiche. Qualcuno sospirò un “Speriamo bene.”

Seguì un lungo silenzio, rotto da questa frase:

“Cerchiamo di rimanere uniti, noi di gennaio.”

“Dobbiamo rimanere uniti.” Aggiunsi quasi con enfasi.

“Egidio, Piero, mi raccomando, non dite che sono di Boves.” Ci pregò con tono lamentoso Luigi.

Annuimmo.

Giungemmo alla caserma “Cerutti”, a Boves, a tarda ora, non senza aver fatto alcune “adunate cassone.” Una sorta di benvenuto dei “vecchi” consistente in repentine frenate del mezzo, che causavano l’ammassarsi violento dei passeggeri nella parte anteriore del cassone, con il pericolo di farsi male.

Alla terza “adunata” il veicolo fu fermato da una pattuglia dei carabinieri. Riprendemmo la marcia solo dopo la reprimenda fatta dal brigadiere all’autista e al capo macchina. Ripresero pure le “adunate”, anche se più leggere.

Quando giungemmo a destinazione era buio e molti alpini erano in libera uscita. La caserma appariva deserta. Questo ci tranquillizzò. Ma qualcuno disse che prima o poi i residenti sarebbero venuti fuori e quello che non avevamo avuto prima ce lo avrebbero dato il giorno dopo. Insomma prima o poi con i “nonni” avremmo dovuto fare i conti.

Ci condussero alla palazzina comando, dove il sergente maggiore Ricci ci registrò, controllando il corredo che ci era stato assegnato a Cuneo.

Fummo quindi affidati al capoposto, il caporale Lancellotti. Questo ci condusse in cucina, ma invece di preoccuparsi di farci mangiare, eravamo digiuni dal primo pomeriggio ed erano le otto e mezza di sera, ci portò al cospetto di tre alpini dall’aspetto poco rassicurante.

Erano liguri e ce l’avevano con i piemontesi, specie con i cuneesi. il caso volle che il nostro scaglione fosse composto solo da piemontesi.

“Marco, eccoli qua i figli che fino ad ora non hanno fatto un cazzo!” Urlò con voce stridula.

“Siete di gennaio!” Annuimmo.

“Avete fame” ci chiese Marco con un tono di voce basso e cattivo.

Annuimmo ancora.

“La cucina è chiusa. Siete arrivati tardi. Ma qualcosa possiamo rimediare. Prima però dovrete sottoporvi ad una prova.”

Eravamo interdetti. Guardavamo senza fiatare un soldato semplice, con indosso una tuta blu da lavoro, che dava ordini.

“A posto! Attenti! – urlò con voce cattiva- fianco sinistr. Sinistr.! Avanti march!”

Iniziammo a marciare nello stretto ambito della cucina. E mentre marciavamo, notai sul volto degli altri tre alpini il ghigno di chi gode a far soffrire gli altri.

Dopo una ventina di minuti fra marcia, esecuzione di ordini e rimproveri urlati per movimenti mal eseguiti, Marco comandò l’alt, ci fece schierare e si pose davanti a noi per un breve discorso.

“Da ora in poi, fino a quando non sarete sostituiti dallo scaglione di febbraio, avrete vari obblighi.

Dovrete svegliarvi un’ora prima per fare le pulizie delle camerate. Non importa come le farete e cosa userete, dovrete arrangiarvi. L’importante che alla sveglia, alle 6.00, i soldati trovino le camerate e i bagni puliti.

La sera, dopo il rancio, dovrete fermarvi in cucina e fare le pulizie e ve ne andrete solo quando tutto sarà in ordine.

Dovrete pulire il merdaio (l’immondezzaio della caserma) e fare tutto ciò che vi verrà ordinato dai “vecchi”.

Dovrete preparare le brande per gli “anziani” e per quelli che tornano dalla licenza: per tutti, “vecchi” e giovani.”

Mi sembrò qualcosa di aberrante. Eravamo obbligati a fare cose anche quando non ci competeva, sollevando da ogni fatica i “vecchi” che erano di corvee.

Avrei voluto protestare ma non ebbi il coraggio. Anche perché capii che pur facendolo sarei stato solo e non perché tutti miei compagni di scaglione fossero terrorizzati, ma perché per i più quello era solo un momento di passaggio, poi sarebbe toccato a “gennaio “comandare.

Se fossimo stati un gruppo veramente compatto e pronto a menare le mani avremmo avuto ragione di quei quattro. E anche se il giorno dopo ci fossimo trovati contro una parte della caserma avremmo avuto la meglio, perché dove non fossero arrivate le mani sarebbe giunta la denuncia al comando.

Ma capii ciò troppo tardi, quando divenni un “vecchio” anch’io.

Molti ufficiali di complemento accettavano o tolleravano il “nonnismo” ma non tutti e non quelli di carriera, contrari a certe pratiche poco onorevoli per il servizio militare.

Ma noi non eravamo compatti e rimanemmo in balia di quei quattro, che, come sapemmo dopo, non erano neppure fra i più “anziani” e arditi.

Ci condussero nella sala mensa, distribuendoci alcune buste di patatine fritte e delle bottiglie di minerale gassata. E quella fu la nostra cena.

Lì incontrammo due alpini di corvee, di dicembre e di ottobre, due “figli che ci consigliarono l’obbedienza. Quello di ottobre, mio coetaneo, già laureato, si disse partecipe del mio stato d’animo, perché aveva vissuto anche lui le mie esperienze, dicendomi pure che se non avessi voluto svolgere qualche servizio, avrei potuto appellarmi ai “vecchi” sbandierando la mia età. Ma sarebbe stato umiliante.

Risposi che avrei fatto gli stessi lavori dei miei compagni.

Parlando adocchiai un telefono. Avevo dei gettoni. Chiesi se potevo usarlo. Mi risposero di sì.

Composi il numero di casa. Rispose mia madre.

“Pronto, mamma.”

“Egidio, come stai?”

“E ’brutto … mamma.”

“Arturo, dice che è brutto…”

“Pronto, Egidio, hai mangiato… è dura…ma sta’ tranquillo.”

“Sì delle patatine, niente altro. Non c’era niente altro.”

“Comunque hai mangiato… è dura, ma stai tranquillo.”

“E ’lunga. Un anno così è lungo.”

“Lo so. Anche io ho vissuto momenti difficili e…”

“E allora vieni tu al mio posto.” Risposi stizzito.

“Vieni tu… verrei… ma non posso.”

Mio padre ci era rimasto male. Io non capii che non ero il solo a soffrire.

Chiusi in fretta la telefonata, avvisando mestamente che forse per qualche giorno non avrei potuto contattarli.

Mi riunii al gruppo. Poco dopo, accompagnati dal caporale Lancellotti, fummo condotti nelle camerate. Mentre ci allontanavamo, il graduato, rivolgendosi ai tre, disse:” Lui- riferendosi a me- è l’unico specialista al tiro, lo farò venire nella camerata degli specialisti, così luciderà ben bene tutti gli scarponi, farà le pulizie. Dovrà rendere la camerata uno specchio!”

Il tutto detto con quella sua voce stridula che lo rendeva ancora più odioso.

Annuii, facendo una smorfia che apparve come un sorriso di assenso.

Attraversando il piazzale che divideva la cucina dalla palazzina delle camerate, il caporale iniziò a “banfare”:

“Dovete sudare! Perché qui c’è gente che si è fatta un culo così!” Facendoci intendere di essere fra quelli.

“Voi non avete idea di cosa hanno fatto i “vecchi” durante i CASTA”! Si sono fatti un culo così!

E voi dovete farvi un culo a lavorare!!” E urlava… urlava con quella sua voce stridula.

Eravamo confusi, storditi, oltre che stanchi e affamati. Non nascondo di essere rimasto intimorito da quelle parole.

Mentre camminavamo, ebbi l’impressione di un senso di abbandono ovunque, come se la caserma fosse deserta. Non incontrammo quasi nessuno e, arrivati al piano della nostra compagnia, trovammo un certo disordine. Capimmo poi il perché: la caserma “Cerutti”, fino a pochi giorni prima, aveva ospitato i partecipanti ai CASTA (giochi militari alpini) e tutto appariva ancora sottosopra.

Occupammo l’unica camerata libera, in attesa della nostra futura sistemazione.

Non c’erano né lenzuola, né federe, solo coperte e materassi messi alla rinfusa. Lacellotti, senza preoccuparsi di dirci dove trovare scope e stracci e di quello che avevamo trovato, ci lasciò, avvisandoci che ci avrebbe svegliato alle cinque per le pulizie.

Occupammo in fretta i nostri posti, poi ci lavammo e rademmo per essere già pronti la mattina successiva.

Faceva tanto freddo. Qualcuno si coricò semivestito. Io indossai il pigiama, era pesante, mi infilai sotto la coperta e sopra quella posi la giubba della

drop.

Ero troppo stanco per avere brutti pensieri. Mi addormentai ascoltando la conversazione fra Alberto e Matteo sulle disavventure vissute dal primo nel 1980, a Torino.

Il mattino successivo, alle cinque, fummo svegliati da Lancellotti, che ci indicò cosa fare. Avremmo fatto colazione solo dopo aver terminato i lavori. Pronunciò quell’ultima frase con una certa cattiveria.

Trovammo due o tre vecchie scope e ramazze, per il resto usammo un paio di nostri asciugamani e le mani, di detersivo neppure l’ombra. Quando andammo in mensa, di corsa perché era prossima l’adunata, non trovammo molto: i rimasugli del tè caldo e qualche uovo fritto, che però non avremmo fatto in tempo a consumare.

Dopo l’alzabandiera, fummo condotti al cospetto del comandante della 106, nonché della caserma, il capitano Lombardi (capitan Bialetti, per via dei baffi).

Nel corridoio della palazzina comando eravamo spaesati, salutavamo qualsiasi graduato, anche i caporali, come avevamo imparato al CAR.

Luigi stava sulle spine:” Mi raccomando-con tono lamentoso- non dite che sono di Boves.”

Ma Matteo e Alberto gli fecero crollare il mondo addosso: “Anche se non dici di dove sei, salta fuori dalla tua scheda personale.”

“No! – esclamò disperato- Sono perduto…”

Cercammo di rincuorarlo, ma non finimmo di parlare che fummo fatti entrare nell’ufficio del comandante.

Insieme a lui c’era un sottotenente. Il caporale ci fece schierare. Salutammo, presentandoci, grado, cognome, nome e specialità.

Mentre ci presentavamo il capitano Lombardi muoveva nervosamente i baffi, dimostrando di non gradire il nostro modo di farlo.

Quando toccò a Luigi, il comandante esclamò con un che di ironia: “Ah, ma lei è di Boves! E ‘ fortunato! Farà il militare a casa! Che fortuna!”

Guardai il caporale e il sottotenente presenti, dalle loro espressioni capii che la notizia sarebbe trapelata in un baleno.

Luigi minimizzò, come se volesse dire: “E’ stato un caso. Un semplice accidente.”

Ma il capitano rincarò la dose di ironia mista a malizia.

“E comunque è a casa! I suoi compagni vengono tutti da fuori. Lei è fortunato!”

Se Luigi avesse potuto sprofondare, lo avrebbe fatto. Provai pena per lui. Non avrei voluto essere al suo posto.

Era stato raccomandato, ma non era l’unico in quella caserma, nel battaglione “Saluzzo” e nella “Taurinense”.

Ma Luigi era la vittima giusta: era di Boves, un “figlio” di gennaio, ingenuo, per certi versi inerme. Certo era a casa, ma a che prezzo: i primi sette mesi li visse fra vessazioni ed insulti. Però in qualche modo pagavamo anche noi, colpevoli di essere suoi compagni di scaglione e di non odiarlo.

Quando uscimmo dal comando e ci recammo in infermeria per la visita medica, ci sentimmo osservati, come la preda dal rapace.

Entrammo nella palazzina dell’infermeria, ci fermammo davanti all’ambulatorio per essere poi visitati uno per uno. Eravamo in sette. Io fui fra gli ultimi. Dopo la visita avremmo dovuto andare al casermaggio per ritirare lenzuola e federe, ma quando uscii dall’ambulatorio vidi i miei compagni in sala d’attesa che scrutavano, dietro la finestra, i movimenti esterni. Tale era la paura di uscire e incappare in qualche “vecchio” pronto a comandare.

Uno ventilò l’idea di rimanere lì il più a lungo possibile. In infermeria saremmo stati al sicuro, i “vecchi” non sarebbero venuti a cercarci. Ma non potevamo starci per undici mesi, avevamo la necessità di uscire, di andare al casermaggio, di procurarci ciò che ci serviva anche per le pulizie. Decisi di recarmi al casermaggio e, con la scusa, di sondare il terreno. Ero il più vecchio (avevo 26 anni) e forse nei miei confronti gli “anziani” avrebbero avuto un minimo di rispetto. Era vero in parte, anche perché non dimostravo l’età anagrafica.

Uscii dall’infermeria, andai verso il magazzino del casermaggio, mentre i miei compagni mi seguivano da dietro la finestra, era chiuso. Lessi gli orari di apertura sulla tabella affissa alla porta. Tornai indietro. Da lontano notai uno che mi puntava. Feci finta di non vederlo. Ma lui cominciò a correre e a gridare: “Gennaio! Gennaio!”

Feci finta di non sentire, cercando di guadagnare l’infermeria, ma lui fu più veloce e intanto gridava: “Gennaio! Gennaio! Fermati!”

Mi fermai. Adirato, mi ordinò: “Gennaio! Attenti!”

Mi misi sull’attenti di fronte a quello.

Incuteva terrore. Era più alto di me, molto robusto e con un’espressione cattiva. Ebbi paura, ma cercai di non dimostrarlo.

“Quanti siete di gennaio! Dove siete! “

“Siamo sette. Siamo in infermeria. Il tenente medico sta ancora visitando.”

“Quando avete finito andate subito in camerata e presentatevi ai “vecchi”, che vi daranno degli ordini.”

“Ma se incontriamo qualche “vecchio” che ci dà dei comandi?”

“Ditegli che vi manda Tura. Ricordati il nome.”

“Va bene.”

“Devi rispondere signorsì! Attenti!”

“Signorsì!” Urlai, rimettendomi sull’attenti.

“Ora vai!”

Mi allontanai di corsa per riferire ai miei compagni in infermeria gli ordini di Tura. “Quando lotti con Tura lo devi vedere a terra morto e colpirlo ancora, se vuoi avere ragione di lui.” Mi disse qualcuno tempo dopo.

Egidio Lapenta

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