L’Assemblea Costituente e il dibattito sul lavoro. La stesura dell’articolo 4 della Costituzione

  1. Introduzione –

L’Assemblea costituente italiana è identificabile come il primo atto della ricostruzione del paese dopo la fine della Seconda guerra mondiale. L’Italia, dopo la conclusione del conflitto e più specificamente della guerra civile, si trovava in una condizione complicata. Due anni di guerra fratricida avevano prodotto grandi spaccature sociali all’interno della nazione che si sarebbero riverberate anche in futuro. La prima occasione per cercare di rimarginare le divisioni che il conflitto produsse fu la Costituente. In quel contesto erano presenti molti partiti e molte anime differenti all’interno degli stessi. Gli schieramenti che fecero parte del Comitato di Liberazione Nazionale si trovarono in una nuova fase: la necessità di costruire un nuovo Stato. Contestualmente al referendum del 2 giugno 1946 in cui gli elettori dovettero scegliere quale forma di governo dovesse avere l’Italia, si votò anche per l’elezione dell’Assemblea costituente. Tra Monarchia e Repubblica, la seconda ebbe la meglio. Per quanto riguarda l’Assemblea costituente furono eletti 556 deputati: 207 appartenevano alla Democrazia Cristiana; 115 al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria; 104 al Partito Comunista Italiano; 41 all’Unione Democratica Nazionale; 30 al Fronte dell’Uomo Qualunque; 23 al Partito Repubblicano Italiano; 16 al Blocco Nazionale della Libertà; 7 al Partito d’Azione; 4 al Movimento per l’Indipendenza della Sicilia; 2 alla Concentrazione Democratica Repubblicana; 2 al Partito Sardo d’Azione; 1 al Movimento Unionista Italiano; 1 al Partito Cristiano Sociale; 1 al Partito Democratico del Lavoro; 1 al Partito dei Contadini d’Italia e 1 al Fronte Democratico Progressista Repubblicano.

 2. Il lavoro nella concezione cattolica e marxista –

Storicamente, la concezione del lavoro si differenzia a seconda dell’angolo visuale dalla quale la si guarda. Più specificamente, cattolici e comunisti, in merito a questa tematica, svilupparono le proprie tesi partendo da presupposti culturali e filosofici differenti. Il comunismo esprimeva la centralità del lavoro in virtù del suo carattere materiale, mentre i cattolici attribuivano un carattere spirituale allo stesso. Dal pensiero di Karl Marx si intuisce chiaramente come il lavoro produttivo fosse l’attività umana per eccellenza, infatti, chi non lavorava non avrebbe potuto definirsi uomo, in quanto non avrebbe adempiuto alla sua ragione d’essere. Per questi aspetti, all’operaio manuale veniva attribuita intrinsecamente grande dignità e prestigio. Per il marxismo l’uomo affermava sé stesso, si completava e si perfezionava nell’attività produttiva. L’elemento centrale dell’esaltazione del lavoro umano risiedeva, nel pensiero marxista, nella preminenza dell’elemento materiale (la produzione). Il lavoro non veniva inteso come la realizzazione della totalità della vita, come invece era concepito nel pensiero cattolico, né aveva a che fare con la dignità dell’uomo o con il fatto che egli era un essere spirituale nell’ecosistema della società. Il progresso e il lavoro dell’umanità non avrebbero dovuto condurre ad una condizione ultraterrena, bensì realizzare condizioni tangibili nel presente.

Nel pensiero cattolico, il lavoro assumeva una condizione spirituale per la quale la redenzione si sarebbe attuata attraverso lo sforzo per rimuoverne gli elementi di condanna che potevano identificarsi nella fatica e nel sudore. Tuttavia, in entrambe le concezioni, il lavoro assumeva un carattere fondamentale in cui l’uomo si poteva e si doveva ritrovare. Il lavoro faticoso veniva concepito come espiazione, redenzione, offerta, preghiera, ma in tutte queste declinazioni il tratto comune era la collaborazione con Dio. Appare chiarificatore, nell’economia della trattazione, ciò che espresse l’apostolo Paolo: «nella comunità cristiana chi non vuole lavorare non mangi, e chi domanda aiuto o dimora, chieda lavoro perché non vi sia cristiano che viva in mezzo a voi disoccupato. Chi non si comporta così è uno sfruttatore delle dottrine di Cristo». Nella dottrina cattolica, con la redenzione del lavoro e creando il lavoro libero, era posta la condizione per la rimozione della schiavitù senza una rivoluzione violenta.

Anche nel pensiero comunista si faceva cenno al lavoro libero, abbandonando i tratti schiavistici e servili che lo avevano accompagnato nel tempo e che lo avevano reso repellente, non creando le condizioni soggettive ed oggettive in grado di rendere il lavoro attraente. La libertà del lavoro, ad ogni modo, non avrebbe dovuto renderlo “un gioco”, ma avrebbe permesso di costituire l’autorealizzazione dell’individuo e diventare lo strumento di regolazione di tutte le forza naturali, divenendo universale e riconosciuto da tutti i soggetti come un aspetto fondamentale della vita sociale. Nel pensiero marxista anche il rapporto produzione/bisogno è interessante da analizzare. «Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo universale; [l’animale] produce solo sotto l’imperio del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo la natura e il bisogno della specie a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi, l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza». Si intuisce chiaramente come l’essenza del lavoro in quanto fare totale sia proprio l’oggettivazione universale e libera da imposizioni dell’essenza umana. Il lavoro ricopre nel pensiero comunista un aspetto primario all’interno della sfera umana, ma al contempo deve essere svolto in libertà, senza costrizioni e nelle migliori condizioni possibili.

Il lavoro, invece, è definito dalla Dottrina Sociale della Chiesa un diritto fondamentale e un bene per l’uomo. Un bene utile, degno di lui perché adatto ad esprimere e accrescere la dignità umana. La Chiesa insegna il valore del lavoro non solo in virtù del carattere personalistico, ma anche per il carattere intrinseco di necessità. Gli uomini e le donne praticano il lavoro non solo per sviluppare la propria vita e contribuire al progresso dell’umanità, ma anche perché il lavoro è inteso come adempimento delle intenzioni di Dio. Il lavoro, in ottica cattolica, è l’attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, in particolar modo alla conservazione e al mantenimento in vita del singolo e della collettività, in quanto risponde a un dovere imposto dalla natura.

Da queste brevi considerazioni sulle differenze che separano le diverse dottrine e sui tratti che le accomunano, si può iniziare a comprendere quale fosse il punto di partenza nelle discussioni su questo tema e quale fosse il retroterra di pensiero che le alimentò. Il punto fondamentale su cui porre particolare attenzione è la centralità del lavoro in entrambi i pensieri, ma valutando con attenzione le diverse declinazioni dalle quali ne deriva la centralità. In questo modo si potrà comprendere il perché delle differenti proposte presentate dai diversi partiti e le motivazioni che spinsero gli stessi ad impegnare così tanti dibattiti su questo tema.

3 . Il lavoro nell’art. 1 della Costituzione –

Il tema del lavoro fu centrale durante i dibattiti costituenti e un’analisi approfondita delle discussioni inerenti ad esso non può prescindere da una breve introduzione sull’articolo 1 della Costituzione. In quell’occasione, infatti, emersero le diverse concezioni dei partiti in merito ad una tematica così importante.

Il dibattito sulla formulazione del primo comma dell’art. 1, che avvenne il 22 marzo del 1947, ben restituisce l’attenzione che i costituenti diedero al tema del lavoro e al contempo riesce a far emergere le differenze valoriali dei diversi partiti, che, nonostante ciò, riuscirono a convergere su una enunciazione comune.

Attraverso tre distinti emendamenti furono presentate tre formule su cui i costituenti avrebbero dovuto esprimersi: prima, “Repubblica di lavoratori”, seconda, “fondata sul lavoro”, terza, “fondata sui diritti di libertà e del lavoro”. Queste formule furono presentate rispettivamente dai comunisti (con l’appoggio dei socialisti), dai democristiani e in ultimo dai repubblicani.

La formula proposta con l’emendamento comunista, firmato da Amendola, nelle intenzioni dei proponenti avrebbe dovuto affermare la centralità dei lavoratori e della classe operaia all’interno del contesto repubblicano che si stava delineano. Lo stesso Amendola si espresse a sostegno dell’emendamento in questione a fronte dei dubbi sollevati dalla Democrazia Cristiana: «Il popolo ci chiede che la Costituzione italiana sia una Costituzione che possa impedire ogni ritorno di fascismo, sia una Costituzione che dia all’italiano garanzie di piena e sicura libertà […]. La sola garanzia valida, la sola garanzia seria di libertà e di democrazia può essere fornita da quelle misure che impediranno che nella vita del Paese i gruppi privilegiati che ieri hanno dominato possano continuare a dominare […] e queste misure concrete trovano il loro presupposto nella formula che noi domandiamo sia proclamata all’inizio della Costituzione, quale orientamento del nostro lavoro […]. Non abbiate paura, colleghi, e se credete veramente che il lavoro [sia] il fondamento della Repubblica non nascondete questa affermazione nelle pieghe di un capoverso che pochi leggeranno, ma proclamatelo solennemente, direi orgogliosamente nella prima riga della Costituzione». Anche i socialisti, per voce dell’on. Basso, condividevano l’impostazione dell’emendamento, ma ritenevano che potesse essere rigettato e perciò proposero una forma alternativa: “L’Italia è una Repubblica democratica, che ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale”. Appare evidente, anche in questa formulazione, la centralità che assume la figura del lavoratore, che viene inteso come il fulcro dell’ordinamento statale. La preoccupazione dei due schieramenti di sinistra era quella di rendere realmente effettivi i diritti dei lavoratori, evitando che fossero solamente sanciti sulla carta senza poi avere ricadute concrete all’interno della Repubblica. Coerentemente con gli ideali politici dei due schieramenti, la figura del lavoratore assunse un’importanza decisiva in gran parte delle discussioni all’interno dell’Assemblea costituente. Anche i quotidiani coevi di matrice comunista e socialista fecero da eco a queste richieste, sottolineando in numerosi articoli come i deputati stessero lavorando per sancire questi diritti e come l’accoglimento degli stessi si sarebbe dimostrato decisivo per lo sviluppo della penisola.

La formulazione proposta dal gruppo della Democrazia Cristiana con un emendamento sottoscritto da diversi deputati, tra i quali figurano Fanfani e Moro, corrisponde al testo definitivamente approvato. A differenza delle proposte analizzate in precedenza, questo emendamento non identifica chiaramente la figura del lavoratore, ma esprime il principio per il quale la Repubblica dovesse essere fondata sul lavoro. L’intervento di Fanfani in Assemblea esprime quali fossero le visioni del suo gruppo: «L’articolo 1 è stato sottoposto a parecchie critiche, rivelate, del resto, dai numerosi emendamenti finora proposti. […] Il nostro testo, accettato anche da altri colleghi di gruppi differenti dal nostro, dice: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. […] Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. […] L’espressione “fondata sul lavoro” segna quindi l’impegno, il tema di tutta la nostra Costituzione». Fanfani sottolineò successivamente come, con questa formulazione, non si volesse scontentare chi aveva votato favorevolmente alla dizione che prevedeva la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dello Stato. Ritenne inoltre che la formulazione proposta dai partiti di sinistra avrebbe potuto apparire a parte della popolazione italiana classistica e, per queste ragioni, avrebbe potuto allontanare qualche consenso alla nascente Repubblica. Appare evidente come il gruppo della Democrazia Cristiana iniziasse ad assumere il ruolo di mediatore tra visioni politiche differenti, cercando di trovare un compromesso che potesse far convergere la maggior parte dei deputati presenti all’interno della Costituente.

L’ultima proposta, formulata dal gruppo repubblicano, fu presentata in virtù della convinzione che i disegni degli schieramenti di sinistra rischiassero di far assumere un carattere troppo soggettivo alla costituzione e richiamassero esperienze storiche lontane dalla cultura italiana (alludendo all’Unione Sovietica). Di pari passo, anche la proposta democristiana veniva ritenuta di scarso contenuto dal punto di vista costituzionale perché il concetto di lavoro introdotto, giudicato in modo troppo generico, poteva prestarsi a molti equivoci e a strumentalizzazioni ideologiche e politiche. La Malfa, a nome del gruppo repubblicano, propose quindi di utilizzare la dizione “L’Italia è una repubblica democratica fondata sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro”. Attraverso questa formulazione, asseriva, «noi abbiamo oggettivato il significato del lavoro nella vita politica, economica e sociale dell’Italia democratica. Parlando di diritti del lavoro diamo a questo concetto un valore istituzionale, che non è dato per esempio quando parliamo di una repubblica democratica di lavoratori».

A fronte delle diverse impostazioni dei partiti, emerge chiaramente come il tema del lavoro assumesse un’importanza decisiva. Tutti gli schieramenti discussero apertamente sulla centralità che il lavoro avrebbe dovuto assumere all’interno della Repubblica; certamente le visioni non potevano essere comuni, vista la varietà di ideologie presenti all’interno della Costituente, ma si stavano ponendo le basi per la convergenza della maggioranza dei partiti sull’affermazione del lavoro come elemento cardine della Repubblica.

La prima votazione riguardante l’art. 1 si svolse sull’emendamento Basso, che fu bocciato a fronte di 239 voti contrari e 227 voti favorevoli. Posto in votazione l’emendamento La Malfa, fu bocciato anch’esso perché i deputati comunisti scelsero di votare a favore dell’emendamento proposto da Fanfani e dai democristiani. La convergenza del gruppo comunista sulla proposta democristiana venne sancita da Togliatti: «Di fronte all’alternativa che adesso si presenta, devo dichiarare a nome del gruppo al quale appartengo che noi preferiamo la formula proposta dall’onorevole Fanfani. Il motivo mi sembra evidente, prima di tutto la formula del collega Fanfani è quella che più si avvicina a quella che noi avevamo presentato, per questo semplice motivo mi sembra che noi avremmo il dovere di votarla. Per la sostanza, la formula “Repubblica fondata sul lavoro” si riferisce a un fatto di ordine sociale, e quindi è la più profonda». La formulazione dell’articolo 1 proposta da Fanfani fu approvata alla fine del pomeriggio di sabato 22 marzo del 1947. Il giorno seguente, i principali quotidiani della penisola espressero soddisfazione e nelle prime pagine furono pubblicati lunghi articoli su questa tematica. Il “Corriere della Sera” titolò «Approvato il primo articolo della nuova Costituzione: l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro»; “Il Popolo” dedicò l’intera prima pagina ad un approfondimento sull’articolo in questione dal titolo «Repubblica democratica fondata sul lavoro» e “l’Unità” riportò come l’approvazione del primo articolo della Costituzione potesse configurarsi come una «prima conquista» per i lavoratori.

Il dibattito sul primo articolo della Costituzione fece emergere chiaramente le differenze valoriali dei partiti rappresentati all’interno dell’Assemblea costituente, ma dimostrò anche la capacità degli stessi di trovare delle convergenze e di riuscire a collaborare tra loro. Fu uno snodo importante perché il lavoro venne sancito come uno dei princìpi a fondamento della Repubblica. Le discussioni dei costituenti continuarono ad animare numerose sedute e merita particolare attenzione l’analisi dei dibattiti che portarono alla stesura dell’articolo 4 della Costituzione, perché anche in quella circostanza risaltarono le differenze valoriali dei diversi partiti, facendo emergere con chiarezza l’importanza che il lavoro avrebbe dovuto assumere all’interno della nascente Repubblica italiana.

4. Il diritto al lavoro nei dibattiti delle Sottocommissioni –

L’Assemblea costituente iniziò ad approfondire le tematiche riguardanti il diritto al lavoro poco dopo la sua elezione. Il 26 luglio 1946, la prima riunione della terza Sottocommissione si concentrò prevalentemente sulle tematiche riguardanti il lavoro. L’on. Colitto, durante la sua disquisizione, fece emergere alcuni punti che sarebbero stati fondamentali nel prosieguo della trattazione: sottolineò l’importanza del lavoro dal punto di vista sociale e di sviluppo dell’uomo, ma concentrò l’attenzione anche sul principio del dovere al lavoro da parte dei cittadini. Sottolineò come il compito della Repubblica avrebbe dovuto essere quello di tutelare le persone più fragili come le donne e i fanciulli, ma non solo, ritenne che dovesse essere data grande attenzione anche allo sviluppo dell’assicurazione contro le malattie, gli infortuni, la disoccupazione forzata, la vecchiaia, l’invalidità e la morte. Terminò successivamente la sua disquisizione con un interrogativo che si sarebbe riproposto per tutto il corso della discussione costituente: «vedrà anche la Sottocommissione come rispondere al quesito, se accanto al dovere del singolo verso la società di lavorare esista un dovere della società di prestare al singolo occasione di lavoro».

Che l’Assemblea considerasse il lavoro come un elemento imprescindibile per lo sviluppo della Repubblica lo si evince dal fatto che a seguito della presentazione in aula, da parte dell’on. Fanfani, di uno schema di lavoro sulle «garanzie economico-sociali del diritto alla vita (dovere sociale del lavoro e diritto al lavoro; diritto all’assistenza)», molti, tra cui l’on. Simonini, interrogarono il proponente, rimarcando che «nessuno ha il diritto a vivere nella Repubblica se non lavora». Su questo punto sarebbe tornato l’on. Giovanni Lombardi nel corso della prima Sottocommissione del 9 settembre 1946. Egli riteneva che l’elemento del lavoro fosse imprescindibile per uno Stato appena uscito dalla guerra e che attraverso il lavoro di tutti si potessero scongiurare nuove guerre. Il diritto al lavoro avrebbe dovuto essere introdotto sicuramente in Costituzione, ma, parimenti, avrebbe dovuto essere inserito il dovere al lavoro, perché nessun cittadino avrebbe potuto vivere nell’ozio, intendendo con questa fattispecie chi vive di rendita. Tutti, a prescindere dalle condizioni economiche di partenza, avrebbero dovuto lavorare e contribuire allo sviluppo della penisola. Lombardi in questa sede chiese altresì che venisse previsto nella nuova legislazione penale un reato ad hoc per chi non avrebbe lavorato. In queste fasi è ben chiaro come ci fosse grande attenzione alla tematica del lavoro, che veniva ritenuto un aspetto nevralgico per lo sviluppo della nascente Repubblica, nonché lo strumento per consentire ai singoli di migliorare le proprie condizioni di partenza. La Costituzione, inoltre, secondo molti onorevoli, non avrebbe dovuto rispecchiare necessariamente le condizioni dell’Italia coeva, ma avrebbe dovuto essere uno strumento programmatico capace di indicare la direzione da seguire per raggiungere i diversi obiettivi delineati dai costituenti. L’on. Di Vittorio fu uno dei fautori di questa posizione, secondo lui la Costituzione, pur ispirandosi alla realtà, avrebbe dovuto proiettarsi nel futuro attraverso un’ottica progressista. Egli riteneva che senza la chiara affermazione del diritto al lavoro dei cittadini l’Assemblea avrebbe fallito rispetto ad uno dei suoi compiti fondamentali. Sottolineò successivamente che garantire il diritto al lavoro non avrebbe significato che un disoccupato avrebbe potuto citare in giudizio lo Stato per l’assenza di lavoro, ma affermare come lo Stato avrebbe perseguito tutte le condizioni utili affinché ci potessero essere maggiori posti di lavoro. Questo diritto non avrebbe dovuto essere inteso come un’opportunità concreta riguardante quel preciso momento, bensì come l’indirizzo che la Costituzione avrebbe dovuto dare al Paese. Fotografando la condizione dell’Italia del 1946, Di Vittorio ribadì come esistesse un problema legato alla disoccupazione, ma, nonostante ciò, la Confederazione generale del lavoro non avrebbe chiesto sussidi allo Stato, bensì che fossero poste le condizioni per poter dare da lavorare ai disoccupati. Lo Stato avrebbe dovuto trarre dalle classi abbienti tutte le possibilità affinché i più fragili fossero posti in condizioni di lavorare, portando beneficio alla vita e al progresso della società nazionale. L’on. Colitto, relatore per la stesura di questo articolo, riteneva invece che sancire espressamente il diritto al lavoro in Costituzione con una formula tassativa avrebbe potuto rivelarsi allora, ma anche in futuro, solamente un’amara ironia per via delle condizioni lavorative in Italia. Riteneva che non si dovesse parlare di diritto al lavoro garantito dallo Stato e che si dovessero evitare affermazioni categoriche. Sostenne che si dovesse usare una formula più generica, che non avrebbe impegnato lo Stato in funzioni che non sarebbe stato in grado di assolvere.

In questa fase sono evidenti le divisioni dei componenti delle Sottocommissione. Gli onorevoli di sinistra ritenevano che ci dovesse essere un impegno concreto da parte dello Stato sulla tematica del lavoro, garantendo le condizioni per lo sviluppo occupazionale nella penisola e prevedendo anche un intervento statale deciso per potere raggiungere questi obiettivi. Gli altri, invece, credevano che fosse necessario riconoscere la centralità del lavoro, ma con una formula più neutra e che non impegnasse lo Stato, affinché in futuro non potessero svilupparsi controversie tra l’ente e i cittadini. Occorre ricordare che in questa fase le condizioni occupazionali in Italia erano molto complicate e che su questa tematica si espressero anche diverse testate giornalistiche. Secondo la maggioranza dei deputati la Costituente non avrebbe dovuto unicamente formulare la Costituzione repubblicana, ma anche porre le basi per lo sviluppo della penisola, non solo nel breve periodo, ma soprattutto in un’ottica di lungo periodo, cercando di rispondere alle esigenze coeve, ma anche e soprattutto a quelle future. Le divergenze erano ampie tra i vari schieramenti e nei periodi successivi si cercò di lavorare per limarle e declinare il diritto al lavoro nel modo più inclusivo possibile, provando a recepire le istanze dei diversi schieramenti e allo stesso tempo a rispondere alle esigenze del paese.

L’indomani, il 10 settembre 1946, il relatore Colitto riprese la discussione sul diritto al lavoro ribadendo che dal suo punto di vista ciascun cittadino avrebbe dovuto avere diritto a lavorare senza limitazioni, mentre sarebbe stato diverso affermare che ogni cittadino avesse diritto al lavoro. In quest’ultimo caso, infatti, lo Stato sarebbe diventato una parte proattiva del rapporto. In Costituzione, secondo l’on. Colitto, non avrebbe dovuto trovare spazio un’affermazione simile perché avrebbe vincolato lo Stato a compiere azioni difficilmente realizzabili. Oltre a ciò, ritenne che la dicitura sostenuta dalla maggioranza andasse modificata, perché si sarebbe rivelata «una vera irrisione all’enorme massa dei disoccupati che non diminuisce, ma purtroppo aumenta, inserire nella Carta costituzionale che lo Stato ha il dovere di trovare lavoro ai disoccupati quando è certo che, per tradurre tale dovere in pratica, sono necessari provvidenze e istituzioni estremamente complesse e soprattutto possibilità finanziarie che non l’Italia soltanto, ma la più parte degli Stati, è ben lungi dal possedere».

Molti onorevoli entrarono in aperto contrasto con le affermazioni dell’on. Colitto. Tra questi, l’on. Taviani provò a fare emergere la fallacia del ragionamento che lo aveva preceduto, interrogandosi sulle motivazioni che spingevano alcuni colleghi ad avere difficoltà ad affermare il diritto al lavoro, dal quale conseguirebbe un dovere per lo Stato di dare lavoro a tutti, ma dall’assenza di preoccupazioni in senso contrario. Affermare il dovere al lavoro, seguendo la disquisizione di Colitto, dal suo punto di vista sarebbe equivalso a dire che lo Stato avrebbe potuto obbligare tutti a lavorare. Secondo l’on. Taviani questo era un ragionamento profondamento sbagliato, perché le indicazioni che si stavano cercando di dare erano di carattere generale e non si potevano valutare caso per caso. Rimaneva comunque importante, se non fondamentale, affermare come fosse diritto dei cittadini avere un lavoro e per tale ragione, in una carta programmatica, riteneva importante che questa dicitura fosse inserita senza titubanze. A tal proposito propose che venisse inserita la formula «primo fine della politica economica dello Stato deve essere il pieno impiego», cioè non «garantire a tutti il diritto al lavoro», bensì «creare le condizioni tali perché possa verificarsi il diritto al lavoro». L’on. Di Vittorio in linea di principio concordò con quanto affermato dall’on. Taviani, ma ritenne che si dovesse enunciare con maggiore chiarezza il diritto al lavoro. Infatti, una Costituzione non avrebbe dovuto essere una legge con lo scopo unicamente di soddisfare le esigenze correnti, ma al contrario avrebbe dovuto tracciare una linea da seguire anche in futuro, in grado di portare al suo compimento a raggiungere le condizioni politiche e storiche enunciate nella stessa. «Bisogna, pertanto, affermare il diritto al lavoro; ciò significa che lo Stato deve seguire un indirizzo politico-sociale tale da assicurarne l’esercizio, quando le condizioni economiche-sociali lo consentiranno». Propose quindi che venisse inserita in Costituzione la dicitura: «lo Stato riconosce il diritto al lavoro per tutti i cittadini italiani». Secondo l’on Di Vittorio, a questa enunciazione si sarebbe potuto aggiungere: «La legislazione deve tendere a realizzare condizioni tali da poter assicurare concretamente questo diritto».

La discussione su questa tematica continuò successivamente con gli interventi degli onorevoli Fanfani, Togni e Giua che cercarono di formulare un’enunciazione che potesse essere accettata da tutti, convergenza che l’on. Marinaro provò a trovare con le seguenti parole: «Il lavoro è un diritto e nello stesso tempo un dovere di ogni cittadino, che li esercita in conformità della propria idoneità e della propria scelta. Lo Stato creerà, con tutti i mezzi a sua disposizione, le più vaste possibilità di lavoro e ne tutelerà i rapporti in modo da assicurare il maggior vantaggio ai singoli cittadini e alla collettività».

L’on. Di Vittorio manifestò la sua contrarietà a questa enunciazione per la sua genericità, ritenendo che non avrebbe contribuito ad un progresso nel campo sociale. Ribadì ancora una volta come la Costituzione avrebbe dovuto contribuire ad un deciso sviluppo sociale e legislativo e che si dovesse trovare la formula capace di determinare concretamente le condizioni in grado di assicurare il diritto al lavoro di tutti i cittadini.

L’on. Togni concordò con l’on. Di Vittorio, ma ritenne che dinnanzi ad un principio così impegnativo si dovesse graduarne la realizzazione. Lo stesso Di Vittorio ribadì di rendersi conto che la formulazione proposta fosse impegnativa, ma che allo stesso modo, seguendo la sua proposta, si sarebbe lasciato al potere legislativo la possibilità di decidere in che termini attuarla.

L’on. Paratore specificò che la discussione che si stava affrontando sarebbe stata determinante per il futuro della penisola in quanto si sarebbe trattato di un cambio di paradigma. Lo Stato, secondo lui, fino ad ora era intervenuto nel campo del lavoro tramite l’assistenza. Si trattava quindi di trasformare l’intervento statale da assistenziale a proattivo. Ritenne comunque che impegnare lo Stato con tali affermazioni avrebbe potuto rivelarsi pericoloso e propose una formula più neutra, in grado di riconoscere tale principio senza impegnare lo Stato.

Dopo numerose discussioni, l’on. Angelina Merlin propose la seguente formulazione: «Lo Stato riconosce il diritto al lavoro ed il dovere dei cittadini al lavoro ed è tenuto a promuoverne i piani economici che assicurino il minimo necessario alla vita, e se non è possibile, l’assistenza». La proposta fu ritenuta troppo ideologica e per via delle diverse anime politiche presenti all’interno della Sottocommissione non venne presa in considerazione, cercando invece di trovare una via più neutra, in grado di rispondere alle esigenze di tutti i presenti. La discussione si soffermò contestualmente sulla diversità tra diritto e dovere e sul modo in cui l’uno si potesse conciliare con l’altro.

L’on. Di Vittorio ritenne che l’affermazione del lavoro quale dovere sociale avesse un valore esclusivamente etico, mentre l’affermazione del diritto al lavoro avrebbe rappresentato una conquista delle masse lavoratrici, nonché un progresso della legislazione. L’accento, secondo lui, doveva essere posto proprio su questo aspetto, affermando che la Repubblica avrebbe riconosciuto il diritto al lavoro a tutti i cittadini italiani.

L’on. Taviani propose di adottare la formula: «Ogni cittadino ha il diritto e il dovere di lavorare conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta». Il Presidente Ghidini, sentita la discussione, mise ai voti quest’ultima formulazione, che fu approvata all’unanimità. Pose successivamente ai voti la seconda parte dell’articolo: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini italiani il diritto al lavoro». Anch’essa approvata all’unanimità. L’on Fanfani propose di aggiungere a quest’ultima formula la frase: «e predispone i mezzi necessari al suo godimento». L’on. Paratore dichiarò che avrebbe votato contro la formula perché riteneva che fosse equivoca e impegnativa, mentre l’on. Colitto dichiarò di astenersi per le stesse ragioni espresse dall’on. Paratore e l’on. Molè dichiarò di astenersi perché avrebbe preferito una formula più neutra e meno impegnativa per lasciare spazio di manovra ai governi successivi. La formula proposta dall’on. Fanfani fu approvata con il voto favorevole degli onorevoli Di Vittorio, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Marinaro, Merlin Angelina, Noce Teresa, Rapelli, Taviani, Togni. Votò in senso contrario l’on. Paratore e si astennero gli on. Colitto e Molè.

L’articolo approvato dalla terza Sottocommissione fu: «Ogni cittadino ha il dovere e il diritto di lavorare conformemente alle proprie possibilità ed alla propria scelta. La Repubblica riconosce il diritto al lavoro e predispone i mezzi necessari al suo godimento».

Il 4 ottobre 1946 la prima Sottocommissione, partendo dall’articolo approvato dalla terza Sottocommissione, ritenne di dovere apportare alcune modifiche al fine di rendere più completo lo stesso. Si susseguirono numerosi interventi degli on. Moro, Dossetti, Mastrojanni, Lucifero e Togliatti, alcuni in aperto contrasto tra loro in virtù della composizione eterogena della Sottocommissione. Il dibattito ripercorse ciò che era già avvenuto nel corso della terza Sottocommissione e si concentrò prevalentemente sulle diverse concezioni di diritto e dovere nei confronti del lavoro. Al termine del lungo dibattito fu posto in votazione l’emendamento Moro-Dossetti che modificava l’articolo approvato dalla terza Sottocommissione in questo modo: «Ogni cittadino ha diritto al lavoro e ha il dovere di svolgere un’attività o esplicare una funzione, idonee allo sviluppo economico o culturale, o morale o spirituale della società umana conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta». La formulazione fu approvata con i voti a favore degli on. Merlin Umberto, Caristia, Dossetti, La Pira, Togliatti, Tupini, Mancini, Cevolotto, Corsanego, Moro. Votano contro gli on. Lucifero, Mastrojanni, De Vita. A seguito dell’approvazione, l’on. Moro e l’on. Basso discussero sulla possibilità di porre il dovere al lavoro come condizione per potere esercitare i diritti politici. L’istanza fu approvata e inserita nel progetto di Costituzione da portare all’attenzione dell’Assemblea costituente.

Il testo definitivo che approdò all’esame dell’Assemblea costituente, a seguito della concertazione tra prima e terza Sottocommissione, risultò formulato così: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività od una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta. L’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici».

5. Il diritto al lavoro nei dibattiti dell’Assemblea costituente –

La prima volta che si pose l’accento sulla tematica del lavoro durante una seduta dell’Assemblea costituente fu il 4 marzo 1947, quando l’on. Lucifero prese la parola e argomentò una dura contrapposizione rispetto alla bozza di articolo formulata dalle Sottocommissioni. Egli riteneva che l’articolo fosse fortemente tendenzioso e lasciasse numerose zone d’ombra, a tal punto da dover inserire anche le monache di clausura tra coloro che svolgono un lavoro, così che anch’esse potessero avere accesso ai diritti politici. Riteneva che esse svolgessero sicuramente una funzione spirituale ma che non potessero configurarsi come lavoratrici, ma nonostante ciò dovessero comunque avere accesso ai diritti politici. In virtù di queste constatazioni ritenne che i diritti politici non dovessero e non potessero essere una conseguenza del lavoro. Anche l’on. Calamandrei si dimostrò contrario alla formulazione dell’articolo e si chiese se «si voglia con ciò imitare quell’articolo della costituzione russa, nel quale è scritto il principio che chi non lavora non mangia». Credeva che questo non fosse lo spirito dell’articolo, ma anche lui rilevò una debolezza nell’associazione diritti politici-lavoro. Egli riteneva che ciò potesse portare a molte incomprensioni su alcune categorie, tra le quali chi vive di rendita, gli oziosi o chi vive del lavoro altrui. Si chiese quindi se questi soggetti sarebbero stati ammessi all’esercizio dei diritti politici o se gli sarebbero stati negati. Concluse dicendo che dal suo punto di vista essi avrebbero avuto diritti politici come tutti gli altri soggetti perché rilevava come in nessun’altro articolo, né in nessuna legge elettorale il lavoro o lo svolgimento di una funzione fossero indicati come condizione per potere avere accesso ai diritti politici.

Il giorno successivo proseguì la discussione e l’on. Tupini esordì dicendo che «la libertà e la dignità dell’uomo non saranno mai sicure se non si darà al lavoro la preminenza su ogni altro valore economico e se il lavoro non sarà il fondamento stesso della Repubblica». Rispose all’on. Calamandrei dicendo che i diritti politici sarebbero stati attribuiti a chiunque avrebbe svolto un’attività o una funzione all’interno della Repubblica che non sarebbe stata quella del «dolce far niente», ma di concorrere allo sviluppo materiale e spirituale della società. Precisò che «è lavoratore […] non solo l’operaio manuale, l’artigiano, ma anche il maestro, ma anche il sacerdote, ma anche il missionario: chiunque concorra alla potenza della tecnica e della cultura, della civiltà e della morale italiana, comprese anche, onorevole Lucifero, le cosiddette suore di clausura che, secondo la legge divina della compensazione, pregano e con le loro preghiere ristabiliscono l’equilibrio turbato dei nostri e dei vostri peccati». L’on. Mastrojanni prese la parola e ribadì come dal suo punto di vista fosse troppo restrittivo definire la Repubblica – seguendo le indicazioni dell’on. Togliatti – come «Repubblica democratica di lavoratori». Così facendo, secondo lui, si sarebbe escluso dalla vita della Repubblica chi non era identificabile in quella categoria. Ritenne altresì che fosse doveroso fare attenzione ad associare i diritti politici con lo svolgimento di un’attività lavorativa o di una funzione, perché, così facendo, alcuni soggetti avrebbero potuto essere esclusi dall’esercizio di quel diritto. Sebbene il lavoro fosse tra le funzioni più nobili, riteneva che ci dovesse essere una certa misura nel proporre definizioni come quelle auspicate da altri deputati. Il 6 marzo, l’on. Basso riprese la discussione sul lavoro rimarcando come la definizione emersa dal progetto di Costituzione avesse uno scopo ben preciso: non concepire l’individuo contrapposto allo Stato, bensì intendere l’individuo come membro della società e partecipe della vita associata. «La Repubblica, espressione della vita collettiva, trae il suo senso e il suo significato solo dalla partecipazione effettiva di tutti i lavoratori [intesi nel più ampio senso possibile] all’organizzazione politica, economica e sociale». Lo scopo di questo articolo era quindi quello di far partecipare attivamente i cittadini alla vita pubblica dello Stato. Una democrazia poteva essere realizzata solo se ci sarebbero state le condizioni per far partecipare tutti alla gestione economica e politica della vita collettiva. Per esplicare maggiormente il concetto, l’on. Basso ribadì come avrebbero dovuto partecipare alla funzione pubblica veramente tutti, «fino all’ultimo pastore dell’Abruzzo, fino all’ultimo minatore della Sardegna, fino all’ultimo contadino della Sicilia, fino all’ultimo montanaro delle Alpi, tutti, fino all’ultima donna di casa nei dispersi casolari della Calabria, della Basilicata». Riteneva che questo fosse il senso profondo dell’articolo, ovvero che tutti dovessero essere parte dello Stato e dovessero contribuire al suo sviluppo portando in dote le proprie esperienze e conoscenze. Chiosò dicendo che il lavoro avrebbe dovuto essere un elemento imprescindibile dello Stato perché fino a quando non sarebbe stato garantito a tutti, non sarebbe stata garantita a tutti la libertà. Riteneva che l’unico modo per realizzare la democrazia in Italia fosse quello di attenersi e realizzare interamente la Costituzione, così come definita nella bozza di Costituzione. Nei giorni successivi la discussione si protrasse e molti onorevoli presero la parola per argomentare tesi a sostegno delle due diverse visioni. Gli appartenenti agli schieramenti di sinistra ribadirono come fosse imprescindibile dare attenzione al diritto al lavoro, ponendolo al centro della Repubblica; gli altri, pur condividendo l’importanza del lavoro all’interno di uno Stato, ritenevano che non si dovessero legare a doppio filo le figure di cittadino e lavoratore, perché, così facendo, ci sarebbe stato il rischio di far emergere diverse storture, soprattutto negli anni successivi. Dopo numerose discussioni, l’8 maggio 1947 si iniziarono a porre in votazione i diversi commi che componevano l’articolo. Il primo comma recitava: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto». L’on. Giannini dichiarò che il Fronte dell’uomo qualunque avrebbe votato contro questo comma, ma anche a tutti gli altri. Riteneva che il lavoro non fosse materia pertinente di un’Assemblea costituente, ma di una legge sul lavoro che avrebbe dovuto essere discussa all’interno della Camera dei deputati. Il comma, nonostante le osservazioni dell’on. Giannini, fu approvato.

Si passò successivamente all’esame del secondo comma che recitava: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività od una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta». L’on. Canevari chiese che la votazione avvenisse in due momenti distinti e che l’ultima parte del comma «e alla propria scelta» fosse votata successivamente e contestualmente dichiarò che avrebbe votato a favore della prima parte e contro la seconda. Il Presidente Tupini ricordò che fosse un suo diritto e quindi procedette con quanto richiesto dall’on. Canevari. La prima parte del comma fu posta in votazione e fu approvata. Prima della votazione sulla seconda parte del comma chiese di intervenire l’on. Lucifero che argomentò il proprio disaccordo con l’on. Canevari sostenendo che fosse importante includere le parole «e alla propria scelta». Intravedeva nella richiesta di soppressione di queste parole «l’ipotesi che, in uno Stato libero, degli uomini liberi possano essere costretti ad esercitare un lavoro diverso da quello da essi liberamente prescelto». Non credeva che «un giorno in Italia, culla del diritto, si possa dire ad un cittadino qualunque: ad metalla, abbandona la professione che hai liberamente scelto!». L’on. Lucifero era comunque convinto che non si sarebbe perseguita questa strada. Dopo alcuni interventi a sostegno della visione dell’on. Lucifero fu posta in votazione la seconda parte del secondo comma che recitava «e alla propria scelta». Fu approvata.

Sul finire della seduta gli on. Montagnana, Pajetta e Pesenti, a cui si associò anche l’on. Foa, presentarono un emendamento che prevedeva di aggiungere, dopo il secondo comma, «allo scopo di garantire il diritto al lavoro a tutti i cittadini lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione, secondo un piano che dia il massimo rendimento per la collettività». La discussione venne rinviata al giorno successivo.

In virtù dell’emendamento presentato da alcuni esponenti del Partito Comunista, nella notte, alcuni giornali scrissero che in Assemblea costituente i comunisti stavano forzando la mano proprio sul finire della discussione sul diritto al lavoro.

Il pomeriggio del 9 maggio prese la parola l’on. Pajetta e affermò di essere stupito che la stampa etichettasse la proposta come un colpo di mano dei comunisti e ribadì come la stessa fosse già stata presentata dall’on. Togliatti nel corso della prima Sottocommissione. Riteneva che i toni allarmistici fossero esagerati perché il socialismo era una cosa seria e non si poteva istituire unicamente tramite l’inserimento di un comma nella Costituzione. Ricordò che si era deciso che il diritto al lavoro dovesse essere inserito in Costituzione e affermò che la presentazione di quel comma andava nella direzione concreta di rendere attuabile tale diritto. Inoltre, riteneva che non si dovesse essere spaventati dalla previsione di un intervento statale perché esso era una prassi di ogni giorno nella vita economica. Con questo emendamento, spiegò, si voleva attuare una programmazione strutturale secondo piani ben definiti, senza farla giorno per giorno. In questo modo si voleva affermare «che su un problema essenziale come questo [si intende] andare più in là di una semplice affermazione e [si vuole] dimostrare [che ci sia] una decisa volontà nel realizzarlo». Prese la parola l’on. Ghidini che riportò le indicazioni della maggioranza, ritenendo che l’emendamento, così formulato, in futuro avrebbe potuto non essere applicabile per le condizioni del paese. Riteneva che fosse meglio non modificare l’articolo approvato il giorno precedente, così da poter adattare gli interventi in base alle contingenze future. Sostenne che la Costituzione non dovesse prevedere in quella sede le modalità di applicazione, ma che al contrario dovesse essere il legislatore a stabilire come attuare quelle misure in funzione delle necessità e possibilità del tempo. Si dichiarò quindi contrario all’emendamento presentato.

Il presidente Terracini pose in votazione tale emendamento, su cui venne chiesto che la votazione avvenisse per appello nominale. Prima di votare alcuni deputati intervennero con una dichiarazione di voto. L’on. Einaudi prese la parola e in una lunga dichiarazione di voto sostenne la tesi secondo la quale affermare in Costituzione quanto chiesto dal partito comunista equivalesse a negare quanto precedentemente approvato. Ribadì che, se lo Stato avesse imposto dall’alto un piano talmente totalizzante da investire l’intera economia del paese, esso non si sarebbe conciliato con il principio di «libera scelta» affermato in precedenza. Esemplificò l’argomentazione dicendo che se «lo Stato stabilisse che una data industria dovrebbe impiegare 50.000 operai, ma gli operai per propria scelta non fossero 50.000 ma solo 10, 15, 20 mila» ci si troverebbe davanti ad una condizione insanabile. L’articolo, così come verrebbe formulato, prevederebbe al contempo la possibilità per ogni cittadino di scegliere liberamente il proprio lavoro e la possibilità dello Stato di pianificare lo svolgimento delle attività economiche. Alla luce di questo ragionamento l’articolo sarebbe stato inapplicabile perché avrebbe previsto contemporaneamente due fattispecie alternative tra loro, generando così confusione. Il voto contrario dell’on. Einaudi risiedeva nella convinzione che il comma proposto fosse, di fatto, in aperto contrasto con ciò che era stato approvato nella giornata precedente.

Prese la parola l’on. Taviani e dichiarò che il gruppo democristiano avrebbe votato contro l’emendamento presentato, sostenendo l’inconciliabilità di quest’ultimo con quanto già approvato in precedenza. Aggiunse inoltre che così facendo si sarebbe aperta la strada alla pianificazione integrale dell’economia, che era inconciliabile con la visione politica del partito a cui apparteneva. Ribadì che i democristiani non ebbero difficoltà, come gruppo, a votare insieme a comunisti e socialisti l’affermazione del diritto al lavoro e l’impegno della Repubblica a renderlo effettivo; anzi, sostennero anch’essi questa visione. Ritenne che, però, con quest’ultimo articolo si stesse tentando di fare un passo in avanti nell’attuazione di quei principi socialisti di pianificazione statale in campo economico che lui e il suo gruppo non condividevano; pertanto, dichiarò la loro contrarietà a questa proposta.

L’on. Giannini prese la parola e dichiarò di trovarsi su posizioni diametralmente opposte da quelle del partito comunista, affermò di non essere contrario ai piani, che erano necessari, bensì contrario allo Stato pianificatore. Ribadì di non avere «fiducia nello Stato commerciante, nello Stato industriale, nello Stato direttore» e continuò affermando che il suo gruppo avrebbe voluto «che lo Stato non vendesse nemmeno le sigarette e il tabacco, perché si trovano a miglior prezzo e a migliori condizioni nella borsa nera che almeno, per quanto riguarda i tabacchi, è una cosa più seria del monopolio di Stato». Sostenne di essere profondamente sfiduciato dallo Stato e che conseguentemente non si potesse affidare ad esso l’intera direzione della vita pubblica italiana. Ribadì di essere contro lo Stato pianificatore e confermò il dissenso dottrinale, anche su un terreno pratico e tecnico, dichiarando di conseguenza che avrebbe votato contro all’emendamento proposto.

L’on. Mazzei affermò che il gruppo repubblicano si sarebbe opposto all’emendamento. Pur non essendo pregiudizialmente contrario all’intervento statale, esso ritenne che seguendo questa direzione lo Stato avrebbe investito con la sua azione tutto il movimento economico-sociale. A questo principio, per convinzioni ideologiche, i repubblicani non avrebbero acconsentito, sostenendo una ideologia che proponeva linee di intervento ben diverse rispetto a quella presentata.

Prima di passare alla votazione dell’emendamento proposto, alcuni deputati di sinistra sostennero ancora una volta la necessità di approvare quella formulazione. Secondo la maggior parte dei deputati comunisti e socialisti, solo attraverso questa modifica sarebbe stato attuabile concretamente il diritto al lavoro, che altrimenti sarebbe rimasto unicamente una formulazione generica e difficilmente realizzabile. Ritenevano che i deputati degli altri partiti avessero frainteso le loro volontà e le avessero valutate dal loro angolo visuale ideologico, senza andare alla radice del problema. I sostenitori dell’emendamento ritenevano che solo attraverso un massiccio intervento statale si potesse raggiungere la piena occupazione, dando così ai cittadini e ai lavoratori lo strumento per emanciparsi. Infine, credevano che lo Stato dovesse pianificare le attività in campo economico, così da riuscire a dare una visione di insieme che altrimenti sarebbe stata lasciata alla volontà dei singoli, senza perseguire strategie comuni e diventando inevitabilmente meno efficace.

L’emendamento fu posto in votazione e dopo il sorteggio il primo deputato a votare fu l’on. Grieco. Alla fine delle operazioni di voto a cui parteciparono 418 deputati, i voti favorevoli furono 174 e quelli contrari 244. L’emendamento non fu approvato.

L’ultima votazione concernente l’articolo sul diritto al lavoro riguardò un emendamento soppressivo del terzo comma che recitava: «l’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici». Il Presidente mise in votazione l’emendamento soppressivo. Parteciparono alla votazione 355 deputati e con 235 voti favorevoli e 120 contrari l’emendamento fu approvato.

Si concluse con questa votazione l’esame dell’articolo sul diritto al lavoro e il testo approvato dell’art. 4 della Costituzione recitava «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».

6. Conclusioni –

L’analisi dei dibattiti che portarono alla stesura dell’articolo 4 della Costituzione ci consente di intercettare le tendenze di fondo e di capire su quali aspetti i deputati si concentrarono maggiormente. Appare evidente come ci sia stato grande dibattito in merito al rapporto tra diritto e dovere e come i partiti di sinistra diedero grande importanza alla trattazione delle tematiche riguardanti il lavoro, ritenendolo imprescindibile per lo sviluppo della nascente Repubblica, oltre che uno strumento di emancipazione dei cittadini. I partiti di sinistra, inoltre, ritenevano che la Costituzione dovesse assumere un carattere programmatico e non avrebbe dovuto limitarsi a fotografare le condizioni coeve, perché altrimenti non avrebbe potuto avere uno sviluppo futuro. Coerentemente con questa visione, ritenevano che la Carta dovesse porre delle condizioni da raggiungere gradualmente, che avrebbero condotto ad uno sviluppo concreto della nazione. Durante i lavori delle Sottocommissioni i partiti non appartenenti agli schieramenti di sinistra ritenevano invece che questo modo di agire sarebbe stato potenzialmente pericoloso e avrebbe illuso i cittadini di avere una promessa che in realtà lo Stato non avrebbe potuto mantenere. Sul finire dei dibattiti della prima Sottocommissione emerge un altro aspetto interessante: la proposta degli on. Moro e Basso di collegare il diritto al lavoro con i diritti politici, secondo la concezione che solo i lavoratori avrebbero avuto accesso ai diritti politici. Questa proposta, ampiamente criticata dai partiti conservatori, dimostra concretamente l’attenzione che comunisti, socialisti e una parte di deputati democristiani diedero al lavoro e la centralità che lo stesso avrebbe dovuto assumere all’interno della Repubblica. Nel corso delle discussioni all’interno dell’Assemblea costituente emergono altri aspetti interessanti, tra cui la concezione che il lavoro fosse il fondamento della libertà e le diverse concezioni della figura del cittadino. Secondo i partiti di sinistra il cittadino era identificabile con il lavoratore, mentre per gli altri schieramenti le due figure dovevano essere sicuramente distinte per non creare confusione e problematiche nell’attuazione di altri diritti, ad esempio quelli politici. Tra i partiti maggiormente in contrasto con il riconoscimento del diritto al lavoro in Costituzione, il più intransigente fu il Fronte dell’uomo qualunque, che riteneva che questo diritto non dovesse essere inserito in Costituzione. L’ultimo aspetto su cui è bene concentrarsi è l’ultima proposta presentata dai partiti di sinistra sul finire della discussione. Essi, proponendo di inserire all’interno della Costituzione la possibilità di prevedere un intervento statale per coordinare e dirigere le attività produttive attraverso piani in grado di ottenere la massima produttività e occupazione, dimostrarono come dal loro punto di vista fosse fondamentale concentrare le risorse per ottenere il pieno impiego dei cittadini. La proposta fu respinta da tutti gli altri schieramenti perché ritenuta troppo ideologica e soprattutto in aperto contrasto con la restante parte dell’articolo, in cui si prevedeva per i cittadini la possibilità di scegliere l’occupazione in base alle proprie possibilità e inclinazioni.

In conclusione, il lavoro è stato un elemento ricorrente nel corso dei dibattiti dell’Assemblea costituente e ha ricoperto un ruolo primario durante le trattative. La maggior parte dei partiti hanno dato attenzione a questo aspetto e hanno cercato di legiferare tenendo fede ai loro princìpi e alle loro inclinazioni, dando luce ad un articolo in grado di bilanciare le varie anime presenti all’interno della Costituente e al contempo di affermare con forza quanto la Repubblica italiana si sarebbe dovuta fondare concretamente sul lavoro.

Alberto Drera

pubblicato nel numero 75 del Quaderno di Storia Contemporanea CSC dell’ISRAL

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