L’assenza di solidarietà e democrazia può spegnere l’Europa

Pubblichiamo un importante l’articolo dei professori Corrado Malandrino – Stefano Quirico che,  attraverso le riflessioni degli autori sulle conseguenze della pandemia, deve spingerci a prendere coscienza della profonda crisi che sta attraversando l’Europa. L’articolo è ripreso dal sito DIGSPES.

Le minacce e i pericoli della pandemia Covid-19 sull’idea e sull’integrazione europee. Attenzione al mantenimento della solidarietà e della democrazia. La loro assenza può spegnere l’Europa.

La comunità internazionale fronteggia giorno dopo giorno la sempre più minacciosa e grave pandemia del nuovo Coronavirus (Covid-19), apparsa a fine 2019 in Cina e dilagata in tutto il mondo nell’arco di pochi mesi. Dal febbraio del 2020 soprattutto l’Europa – a partire dall’Italia, ma ormai con più o meno gravi fenomeni di contagio e di morte in quasi tutti gli Stati membri – diventa complessivamente il più rilevante focolaio di diffusione della malattia (al momento in cui scriviamo, i tre quarti dei contagi e dei decessi a livello mondiale sono in Europa). Sull’onda di tali eventi, si annunciano trasformazioni radicali nella vita quotidiana dei cittadini. Per una valutazione più ponderata dell’impatto di questi fatti inattesi sulle prospettive dell’integrazione europea, e dell’idea medesima di Europa, occorre naturalmente attendere gli sviluppi e la conclusione della pandemia.
Tuttavia, partendo dalle considerazioni più generali che svolgiamo nel volume in uscita dall’editore Carocci col titolo L’idea di Europa. Storie e prospettive, ci sembra possibile e utile avanzare brevi osservazioni su alcuni effetti gravi (e su qualche possibile iniziativa) che la pandemia sta già avendo sulla tenuta dei buoni rapporti tra i popoli che formano la comunità europea e sui pericoli incombenti se gli statisti che ne stanno a capo non si dimostreranno all’altezza dei compiti storici che vengono posti all’ordine del giorno.
Noi siamo consapevoli che, ben prima dell’inizio di questa funesta pandemia, da almeno vent’anni, sono visibili segnali di crisi del processo di unificazione europea, che si riflettono sull’idea di Europa che si vuol realizzare. Lo dimostra la discussione sulla costituzionalizzazione dell’UE, e sulla plausibilità o meno di un “popolo europeo”, che vede impegnati soprattutto in Germania e in Italia politologi, filosofi e giuristi tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo millennio. Essa testimonia le difficoltà che incontra la piena attuazione del Trattato di Maastricht sui terreni più vicini alla sfera politica. L’ingloriosa fine del Trattato di Roma del 2004 e i limiti del Trattato di Lisbona, approvato tra molte difficoltà e messo in nuove impasse dalla crisi economica-finanziaria mondiale a partire dal 2008, hanno confermato i problemi dell’unificazione europea, soprattutto per quei paesi facenti parte dell’Eurozona, che dal 2010 si trovano alle prese con una vieppiù acuita crisi dei propri debiti sovrani: Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia. L’ultimo decennio ha messo sempre di più in rilievo l’emergere del cosiddetto “vincolo esterno” che la politica di tutti i paesi europei trova nelle istituzioni comunitarie.
Dopo la forzata conclusione della Brexit, è fuor di dubbio che si pongono problemi importanti per la salute della stessa idea di Europa unita: per la prima volta una secolare tendenza aggregativa, che spinge l’Europa verso l’unificazione, viene ribaltata in un atto che ha proclamato viceversa la volontà di uscire dall’Unione. Ci chiediamo se, con un apparentemente inarrestabile effetto domino, già altri membri pensino di arrivare – forse con un po’ di esagerata fretta e approssimazione – a un exit dall’Unione e, quindi, a uno sgretolamento dell’UE e a una “messa in soffitta” dell’idea stessa di unità europea e della formula che da un paio di secoli è stata usata per simboleggiarla: Stati Uniti d’Europa.
Una contraddizione crescente sembra attanagliare lo stesso processo di “ampliamento” dell’UE che, dal 1951 a oggi, ha portato dai sei partner iniziali ai 27 odierni. Alla luce dello spirito che da alcuni anni aleggia nell’est dietro il patto dei paesi di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) e le leggi liberticide approvate in alcuni di essi, nonostante le messe in guardia degli organi europei a non oltrepassare certi limiti, si pone la domanda se qualcosa non sia andato storto nell’allargamento finora perseguito. Se, in fondo, la finalità dell’«unione sempre più intima», predicata nei preamboli dei trattati, a partire da quello di Parigi del 1951 che afferma essere gli Stati Uniti d’Europa la meta finale del processo di costruzione dell’Europa unita, non sia realmente condivisa da una serie di Stati che non fanno nulla per nasconderlo. Il caos che pervade su più fronti la vita dell’UE oggi – dai debiti sovrani, e le loro tempeste sull’euro, alle disfatte nella battaglia al terrorismo e in tema di difesa e sicurezza, dalle migrazioni ai problemi energetici e ambientali – mette forse in rilievo agli occhi di noi europei il pericolo che, in fin dei conti, quell’«unione sempre più intima» possa davvero rivelarsi impossibile da raggiungere.
Molti – non noi – cominciano a pensarlo o a convincersene. Specialmente oggi, alla luce di due grandi problemi politici che la pandemia mette in rilievo e che toccano due aspetti essenziali riguardanti le scelte che l’Europa dovrebbe fare per uscire dal guado in cui si trova e arrivare a un’unione politica più matura e completa: il rapporto delle sue istituzioni – e di quelle di tutti i suoi Stati membri – con i principi della liberaldemocrazia e l’esigenza di una maggiore solidarietà tra le genti europee, senza la quale l’anelito alla pace e l’integrazione economica non possono più bastare per assicurare una vita soddisfacente all’Unione. Parlando di (mancanza di) solidarietà, è sotto gli occhi di tutti la contraddizione che divide il blocco dei partner del nord guidati dalla Germania e dai Paesi Bassi, che non sembrano avvertirla sufficientemente, dal blocco dei paesi mediterranei guidati da Francia, Italia e Spagna, sul problema dei cosiddetti “coronabond” o “eurobond”, sul quale ritorneremo più avanti. Certamente alcune istituzioni europee, dopo i primi tentennamenti, come nel caso della Banca Centrale Europea, hanno già preso decisioni di grande importanza nell’aiuto eccezionale da dare alle popolazioni europee con la possibilità di mettere a disposizione un’ingente finanziamento di molte centinaia di miliardi di euro – che per esempio per l’Italia si traducono in 220 miliardi di euro – da spendere oltre il budget previsto proprio per le emergenze legate al Covid-19. Anche la Commissione europea e il Parlamento, per bocca dei loro presidenti, hanno manifestato disponibilità. Più restio il Consiglio dei capi di Stato e di governo. Ma questo è il momento di superare reticenze e immobilismi facendo scelte più qualificanti sul piano dell’avvicinamento a una vera Europa unità sotto i profili finanziario, fiscale e politico.
Non meno grave è la tendenza antidemocratica e illiberale che si sta manifestando negli ultimi anni negli atti politico-istituzionali di alcuni membri del patto di Visegrad (Polonia e Ungheria), che introducono un’altra gravissima contraddizione nella vita e nelle regole dell’UE. Essa è acuita dalla recente decisione del capo ungherese di farsi votare i pieni poteri (una vera scivolata verso una soluzione quasi dittatoriale incompatibile con le leggi europee) con la giustificazione apparente, ma in verità priva di fondamento, delle misure necessarie per contenere la pandemia. Che tale giustificazione sia insostenibile lo dimostra l’evidenza che l’Ungheria, pur toccata anch’essa dal Covid-19, non presenta la situazione di gravità ben più visibile di altri paesi come l’Italia, la Spagna, la Francia, in cui più drammatiche – sia quantitativamente sia qualitativamente – sono le cifre dei contagi e dei decessi. Eppure in nessuno di questi paesi, pur in presenza di draconiane misure di contenimento, sono approvate scelte che vanno contro i princìpi della liberaldemocrazia.
A questo punto occorre segnalare come l’emergenza sanitaria non solo torna a evidenziare i ritardi, l’incompletezza e la fragilità del quadro politico-istituzionale in cui il progetto europeo novecentesco si inscrive. Ma sta creando una situazione nuova che probabilmente esige decisioni non più rinviabili sul terreno appunto della solidarietà europea e della difesa dei principi di libertà e democrazia.
La circolazione inarrestabile del Covid-19 rientra nel novero delle sfide globali che richiedono risposte di livello sovranazionale, con un’ulteriore aggravante: diversamente da quanto avvenuto in altri ambiti sensibili – l’ambiente, le migrazioni o la digitalizzazione –, in campo medico l’UE non si è finora realmente avventurata, anche perché in quel settore gli Stati le hanno concesso solo competenze residuali. L’auspicabile “Europa della salute”, dunque, è un terreno ancora da dissodare.
D’altra parte, le ricadute della pandemia trascendono platealmente la dimensione sanitaria. Dal punto di vista economico-finanziario, si tratta di gestire le prevedibili conseguenze del blocco dell’attività sociale, produttiva e amministrativa decretata da numerosi governi. L’immediata sospensione del patto di stabilità e crescita – decisione epocale nella storia dell’UEM, che infrange un tabù quasi trentennale – intende consentire ai singoli Stati di finanziare in deficit spese e interventi pubblici straordinari, secondo un’ottica fondamentalmente nazionale. Quale impatto ciò potrà avere sull’idea di un’Europa concepita come comunità politicamente integrata di orientamento federalizzante? Avrebbe viceversa un respiro strutturale e autenticamente sovranazionale la scelta di sfruttare la crisi in atto per sperimentare lo strumento dei “coronabond” garantiti collettivamente dall’Eurozona e delineare, attraverso la graduale condivisione di una parte del debito pubblico, un percorso ordinato verso una politica fiscale e di bilancio propriamente europea.
È noto che il principale ostacolo su quella strada è posto dagli Stati centro-settentrionali – Germania, Austria, Paesi Bassi, Finlandia – e deriva dalla convinzione che i paesi dell’Europa mediterranea non siano intenzionati a onorare fino in fondo i vincoli finanziari comuni. Va riconosciuto che sul punto alcuni Stati membri non sono apparsi sempre irreprensibili, come attesta il livello raggiunto dal loro indebitamento. Non è tuttavia la mutualizzazione dei debiti pregressi che i governi di Francia, Italia e Spagna – per limitarci ai paesi maggiori – chiedono ai partner, le cui riserve a tal proposito sono insuperabili e per certi versi anche comprensibili. Ciò che si propone, viceversa, è un investimento politico e morale, prima ancora che economico, rivolto al presente e al futuro; la manifestazione di fiducia e responsabilità reciproche, figlie della consapevolezza che l’Europa è comunque attesa da un destino comune e solidale, al di là delle specificità nazionali.
Se questa determinante presa di coscienza avverrà in tempi brevi, ci saranno le condizioni per individuare le modalità concrete con cui trarne le conseguenze, siano esse i tanto discussi “coronabond” o altre iniziative votate al medesimo scopo. Su questo fronte si rileva l’attivismo della Commissione europea, promotrice di un fondo sovranazionale per il contrasto della disoccupazione, con cui si ridurrebbe quanto meno il cronico deficit di politica sociale che l’UE si trascina da decenni. Ma qualche timido segnale di apertura sembra cogliersi anche all’interno della classe politica e dell’opinione pubblica tedesca e olandese, nonché – e in forma ben più salda – nel partito transnazionale dei Verdi, la cui rinnovata energia, unita alla tradizionale vocazione eurofederalista, potrebbe rivelarsi vitale per il futuro immediato dell’Unione.
Nel contempo, dalla natura globale dell’emergenza sanitaria scaturiscono esplicite minacce alla libertà di movimento delle persone, sottoposta a ferree e molteplici restrizioni. Se è ragionevole pensare che quelle di matrice locale o nazionale siano soppresse una volta superata la fase acuta della pandemia, il discorso è più complesso per la chiusura di tutte le frontiere esterne dell’UE e di alcune fra quelle interne. Il congelamento dello spazio Schengen, in altri termini, potrebbe implicare la neutralizzazione del diritto alla mobilità inter-europea insito nella costruzione comunitaria delle origini e implementato nel corso degli ultimi settant’anni, non solo per facilitare gli scambi commerciali e professionali, ma anche per assicurare il dialogo sociale e culturale quale leva per lo sviluppo complessivo dell’Europa sociopolitica.
Motivata dalla necessità di contenere l’espansione del contagio (e forse anche di prevenirne un’eventuale ondata di ritorno), la decisione di blindare i confini esterni e rendere meno permeabili quelli interni rischia di alimentare gli appetiti neo-nazionalisti, sovranisti e autarchici che da anni invocano il ripiegamento degli Stati membri su se stessi per ragioni di ordine politico ed economico. Ci si chiede se proprio con tali avversari l’europeismo del XXI secolo dovrà confrontarsi per trarre da questa drammatica emergenza lezioni utili ad aggiornare e riorientare il progetto europeo, salvaguardandone tuttavia lo spirito originario e garantendo la realizzazione delle sue enormi e ancora intatte potenzialità. Ma resta la domanda campale: come e fino a quando può sussistere l’unità economica e politica senza il rispetto dei valori liberaldemocratici e della solidarietà europea?

Corrado Malandrino – Stefano Quirico

03.04.2020

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