Le radici totalitarie del neoliberismo. IV. “Magnifiche e progressive sorti del liberalismo” o dialettica dell’illuminismo?

La Via della schiavitù è il saggio che segna il passaggio definitivo, il «salto del Rubicone» per Friedrich Von Hayek dalla scienza economica alla antropologia filosofica e alla filosofia politica, un passaggio senza ritorno. Sconfitto dalle teorie antagoniste (J.M. Keynes) e dalle pratiche economico-politiche del suo tempo delle «patrie del liberalismo» (gli Stati Uniti di F. D. Roosvelt prima, la Gran Bretagna di Beveridge poi) nel campo della dottrina economica del «monetarismo»,di cui più che custode sembrava ormai esserne diventato l’esecutore testamentario, Von Hayek aveva trovato «rifugio» nel campo dell’antropologia filosofica, indossando le vesti di filosofo politico o di filosofo della storia. In La via della schiavitù, come abbiamo visto, egli attribuisce alla figura dell’individuo moderno, finalmente «liberato» sul piano delle libertà sociali, politiche, religiose e naturalmente economiche, il possibile ruolo salvifico rispetto alla cupa parabola storica della sua epoca.

Più o meno consapevolmente, ciò che non poteva più essere sostenuto sul piano della scienza economica con argomentazioni «sperimentalmente verificate », riscontrabili nei fatti, Von Hayek andava ricercando nel campo di un «idealismo liberale», nella costruzione o ricostruzione dottrinaria di una nuova antropologia, quella dell’individuo padrone del proprio destino, capace nella peggiore dell’ ipotesi di assumere su di sé «virilmente» ed «eroicamente» il destino avverso, o capace nella migliore delle ipotesi, quella privilegiata, di assurgere a campione in grado di affermare le sorti vincenti delle proprie decisioni e azioni, di diventare un individuo vincente sulla scena della storia. L’intera ricostruzione dell’affermazione del liberalismo e del capitalismo nell’età moderna veniva interpretata, come abbiamo visto, unilateralmente come l’assunzione dell’intera tradizione della civiltà occidentale . Questa rappresentazione unilaterale trasformava l’analisi di Von Hayek in una narrazione mitologica, in una vera e propria mitologia dell’individualismo liberale.

Tale narrazione non era attraversata da alcun dubbio o pensiero critico sulle «magnifiche e progressive sorti del liberalismo» nell’età moderna, da nessuna consapevolezza sul lato oscuro, dialettico o contraddittorio di tale processo, quello che Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, avrebbero chiamato Dialettica dell’Illuminismo, titolo di un loro celebre saggio pubblicato praticamente in contemporanea alla Via della schiavitù.

Per «dialettica dell’illuminismo» Horkheimer e Adorno intendevano il processo interrotto di emancipazione della classe sociale della borghesia : quella borghesia che una volta emancipatosi dalle catene feudali, aristocratiche ed ecclesiastiche che l’ avevano soggiogata per oltre un millennio, si spaventò davanti alla prospettiva che il diritto dell’Homme privato e del Citoyen pubblico avrebbe dovuto implicare la stessa emancipazione di quei ceti interni o classi subordinate dei lavoratori manuali (il proletariato) la cui schiavizzazione di fatto era invece consustanziale alla sua stessa esistenza ed affermazione, in quanto classe del capitalismo. Il diritto formale liberale dell’individuo, in quanto diritto della borghesia e del capitale, si rivelava essere non autenticamente universalistico ma censitario, classista e oligarchico / gerarchico.

Su questo processo dialettico della modernità ritorneremo fra breve, ma prima è opportuno fare un passaggio intermedio e rilevare gli effetti, sia sul piano della ricezione critica che quelli sull’opinione pubblica del proprio tempo, del saggio La via della schiavitù.

Sul piano della risposta intellettuale all’opera di Hayek riportiamo in breve tre significative osservazioni. La prima è quella, insospettabilmente, dell’antico antagonista: John Maynard Keynes.

Keynes, in una lettera indirizzata ad Hayek, dopo aver elogiato il richiamo dell’economista austriaco a un giusto orientamento morale da parte degli individui, per impedire che i piani sociali, economici e politici di pianificazione dei governanti di una democrazia precipitassero nel totalitarismo, fa la seguente considerazione critica rivolta ad Hayek: « Lei ammette qua e là che è questione di sapere dove fermarsi(su quello che Hayek chiama «piano inclinato» della discesa verso il totalitarismo nella pianificazione centralizzata, ndr.) . Ammette che bisogna tracciare la linea a un certo punto e che l’estremo logico non è possibile. Però non ci fornisce indicazioni su dove farlo. E’ incontestabile che lei e io probabilmente la tracceremmo in punti diversi. Potrei dire che, secondo me, lei sottovaluta grandemente la possibilità di una via di mezzo. Ma appena ammette che l’estremo non è possibile e che va posto un limite, allora è spacciato per quanto riguarda la sua tesi dato che sta cercando di convincerci che appena ci si muove di un millimetro verso la pianificazione s’imbocca per forza il piano sdrucciolevole che a tempo debito farà precipitare nel baratro».

Un secondo giudizio critico, anch’esso inaspettato, giunge all’opera di Hayek da George Orwell, il futuro autore del romanzo distopico 1984, dove avrebbe tratteggiato la minaccia del possibile avvento di una società totalitaria. Questa la sua osservazione critica ad Hayek: «Nella parte negativa della tesi del professor Hayek c’è tanta verità . Il collettivismo non è intrinsecamente democratico, anzi, conferisce a una minoranza tirannica poteri che l’Inquisizione spagnola non s’è mai sognata». Però aggiungeva : «Il professor Hayek non capisce o non ammette…che il ritorno alla libera concorrenza significa per la grande massa di persone una tirannide forse peggiore perché più irresponsabile di quella dello Stato. Il problema della concorrenza è che qualcuno vince. Il professor Hayek nega che il libero capitalismo porti necessariamente al monopolio, ma in pratica è lì che conduce e, dato che la stragrande maggioranza di persone preferisce di gran lunga l’irreggimentazione statale alle crisi e alla disoccupazione, la deriva verso il collettivismo è destinata a proseguire se l’opinione pubblica non ha voce in capitolo».

Un terzo giudizio molto critico nei confronti della Via della schiavitù fu formulato, sulla scia di una serie di stroncature di accademici dell’epoca delle università americane, da Hermann Finner, professore di scienze politiche dell’università di Chicago e di Harvard che in riposta ad Hayek scrisse il saggio The road to Reaction in cui stroncava la «giungla di errori» di Hayek . Osservava Finner nel suo saggio : «l’apparato teorico di Hayek è carente, le sue letture incomplete. la sua comprensione del processo economico settaria, il resoconto storico falso. La scienza politica quasi inesistente, la terminologia fuorviante, la comprensione del processo politico e della mentalità britannici e americani gravemente deficitaria, e . il suo atteggiamento nei confronti degli uomini e delle donne qualsiasi fortemente autoritario» Per Finner il saggio di Hayek era «la più sinistra offensiva contro la democrazia uscita da un paese democratico da molti decenni».

Si potrebbe pensare che a tali critiche da parte degli intellettuali dovesse corrispondere un analogo insuccesso nella ricezione del saggio di Hayek da parte dell’opinione pubblica. Ma non fu così, né in Inghilterra, né a maggior ragione, negli Stati Uniti. In particolare negli Stati Uniti, nel giro di poco tempo, si susseguirono tre tirature dell’opera, la prima di duemila, la seconda di cinquemila, la terza di diecimila copie, decretandone il successo editoriale. La via della schiavitù ottenne anche una recensione e una forte promozione da parte del New York Times, una versione condensata venne preparata per il Reader Digest . Di questa versione ne furono ordinate nel giro di poche settimane milioni di copie. La rivista Look ne fece addirittura una versione a fumetti. Ironizzando si potrebbe fare la battuta che La via della schiavitù ebbe la stessa influenza che nel corso dei secoli esercitò la mitologia greca antica prima che intervenisse a minare questa fede l’età della democrazia ateniese e della filosofia socratica. Ma non c’era nulla di cui scherzare. Evidentemente per l’opinione pubblica americana il mito del self made man, dell’individuo che forgia da sé con le proprie forze il proprio destino e decide del suo successo o insuccesso, si era talmente radicato nella cultura popolare che era duro a morire, nonostante i colpi che quel modello economico, politico e filosofico aveva inferto alla classe media e alla classe popolare con la Grande Depressione del 29 e degli anni 30.

Hayek intraprese un tour promozionale per il suo libro in America, travolto dal suo stesso successo di pubblico. Dovette tenere cinque serie di conferenze in cinque università davanti a platee di alcune migliaia di persone, come fosse una rock star o un star del cinema, come diremmo oggi. Ma l’attore delle sue stesse idee, come da lui stesso confessato, imparò ad esserlo con il passare degli anni, calandosi nei panni del saggio o del veggente durante le sue conferenze.

La manifesta ostilità generale del mondo accademico di allora a La via della schiavitù, in contrasto al suo essere diventato un best seller, gli imputava principalmente di avere una visione totalmente contraffatta, ideologica, del processo storico e del ruolo assunto dal liberalismo in quel processo. La Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno, a cui accennavamo all’inizio, che i due autori intendono come cifra propria del cammino di civiltà dell’uomo occidentale fin dai suoi primordi, un cammino che porta costantemente con sé un lato d’ombra, un’ oscurità potenzialmente distruttiva, non attraversa mai minimamente il pensiero e la narrazione di Hayek. Il successo di pubblico incoraggiò anzi Hayek a proseguire lungo il suo cammino,e a cercare nuove strategie di messa in pratica dei suoi mitologemi,come vedremo in conclusione del discorso.

L’ oscurità, o il lato d’ombra, del processo della modernità, è stato al contrario recepito in modo serio, anche se variamente inteso, dalle diverse scuole filosofiche tra diciannovesimo e ventesimo secolo:interpretato ad esempio, come «avvento del nichilismo» da Friedrich Niezschte, o come «compimento della metafisica nell’età della tecnica » da Martin Heidegger; come «calvario del cammino dello Spirito » da Hegel ; come «continuazione della preistoria dell’umanità e non ancora inizio della sua storia », sotto le nuove forme dell’alienazione e sfruttamento del capitalismo, da parte di Karl Marx, come «perdita di senso» e «gabbia d’acciao » della ragione strumentale da Max Weber.

E’ ora opportuno confrontare tra di loro i tre autori che più hanno influenzato la concezione di dialettica dell’Illuminismo in Horkheimer e Adorno– Hegel, Marx e Max Weber (accanto a tanti altri, tra i quali Freud e Lukacs)– per misurare la distanza abissale che intercorre tra la loro riflessione critica e le tesi apologetiche di Hayek sulla modernità.

In Hegel, nella sua metafisica politica , i Lineamenti di filosofia del diritto, emerge nitidamente come la precisazione del significato e del ruolo dell’individuo, così come del significato e del ruolo della comunità(anzi delle diverse «cerchie comunitarie»), e sopratutto del rapporto tra i due, sia decisivo nel campo dell’etica.

La scissione in due masse della sostanza etica dello spirito elevata a coscienza , l’eticità della cittadinanza, dei diritti e doveri formali della persona giuridica, e l’eticità naturale, immediata e spontanea dei legami, affetti e rapporti familiari( un etica comunitaria, se vogliamo), ognuna delle quali masse avvoca a sé l’intera sostanza etica, un ‘etica assoluta, provoca una condizione tragica all’interno dell’etico, condizione già rilevata da Hegel nell’interpretazione che egli dà della tragedia classica sofoclea l’Antigone, nella Fenomenologia dello spirito. In seguito Hegel cercherà una soluzione o sintesi dialettica tra le due «sostanze etiche» nella più matura opera Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio .

Nel capitolo sesto della Fenomenologia dello spirito, intitolato lo Spirito, Hegel presenta l’etica del diritto positivo come l’etica di una pluralità atomistica di persone regolate da uno Stato giuridico che ne riconosce l’universalità astratta; è l’etica dello Stato del diritto personale o formale. Esso va storicamente dall’antico diritto del cives romano al moderno diritto del citoyen della Rivoluzione francese, codificato poi definitivamente dal codice napoleonico.

Questo Stato giuridico, nell’interpretazione di Hegel, prevede la dispersione atomistica delle persone, a cui, come esito finale del processo politico tanto dell’antica repubblica romana, che della moderna repubblica rivoluzionaria francese, per contrappeso si propone la concentrazione di tale condizione formale in una« persona assoluta», il« signore del mondo», che si oppone come forza negativa a« tutti» mostrando la sostanziale vuotezza della loro singolarità(da Augusto a Napoleone).

Non è questo il luogo per esporre in tutta la sua complessità e possanza la dottrina dell’eticità in Hegel. Quello a cui schematicamente, però, si può qui accennare, è che Hegel, in Lineamenti fondamentali della filosofia del diritto, ricercando una sintesi dialettica tra l’etica della cerchia comunitaria della famiglia(l’etica dei legami familiari) e l’etica della società civile degli individui, citoyen pubblici e hommes privati allo stesso tempo(l’etica delle libertà individuali), la trova in un modello di Stato nazione che contempli il potenziale di entrambe ed eviti l’assunzione assoluta e radicale di uno dei due modelli, con tutta la distruttività a tale assunzione legata.

L’eticità o scienza etica per Hegel è quella che ricerca la meta della liberazione del soggetto, quel soggetto liberato che Hegel chiama «spirito oggettivo»; tale spirito oggettivo però non ha niente a che fare con il concetto d’individuo meramente inteso, il concetto d’individuo dato per scontato dalla dottrina di Hayek.

Lo «spirito oggettivo» hegeliano, che potrebbe anche essere chiamato «soggetto-oggetto», è sì la liberazione della volontà soggettiva, ma niente affatto coincidente con la «volontà particolare» dell’individuo, semplice portatore di pulsioni, istinti e desideri da soddisfare.

La volontà del soggetto è invece per Hegel la volontà portata al suo diritto o libertà autentica, cioè alla sua razionalità universale. Il concetto di razionalità universale può apparire meramente astratto, ma non è così nell’etica di Hegel, perché il soggetto o volontà dotata di razionalità universale costruisce e stratifica la sua «natura » o personalità solo nel rapporto costante con gli istituti sociali storicamente dati della famiglia, della società civile e dello Stato nazione, solo nel suo rapporto costitutivo con tali «cerchie comunitarie» in costante evoluzione, in quello che Hegel chiama «universale concreto».

Tali entità storiche date– famiglia, società e Stato– costruiscono la personalità del soggetto in una loro continua compenetrazione, per cui ciò che noi intendiamo per mero individuo ne viene, nella sua accezione elementare, completamente rovesciato e trasformato. Ad es. il costituirsi di un nucleo familiare in seguito al rapporto amoroso tra i coniugi, è la fondazione di un unione che più che un contratto matrimoniale si manifesta come l’uscita dal punto di vista della personalità singola (dell’individualità) che è invece il punto di partenza di ogni rapporto contrattuale privato(di ogni rapporto dentro la società civile) per costituire invece, sulla base di un consenso libero delle persone, una sola persona, che è l’autocoscienza sostanziale di quel rapporto. Ne consegue che la natura etica della famiglia si articola nel matrimonio, nel patrimonio della famiglia e nell’educazione dei figli. La procreazione, educazione e crescita dei figli è il momento dell’eticità familiare che conduce a un tempo al compimento e alla disintegrazione della famiglia, con la formazione o (potremmo dire) il ritorno a nuove persone giuridicamente autonome (l’homme e il citoyen) della società civile.

Anche il rapporto tra la società civile e l’individuo forgia in quest’ultimo un lato della sua natura, un altro tipo di cerchia relazionale, che però non è più definibile come «cerchia comunitaria» se ci atteniamo al significato etimologico di «comunitario» come un donarsi reciproco. La società civile è infatti un sistema atomistico di rapporti sociali ed economici egoistici ed estrinseci. E’ il mondo del «sistema dei bisogni » che Hegel chiama anche «sistema dell’atomistica», e ne dà la seguente definizione: «Nella società civile ciascuno è fine a sé stesso, ogni altra cosa per lui è nulla. Ma senza il rapporto con gli altri, esso non può conseguire l’ambito dei suoi fini: pertanto questi altri sono mezzo al fine del particolare, ma il fine particolare, mediante il rapporto con gli altri, si dà la forma dell’universalità e si appaga, poiché esso insieme, appaga nello stesso tempo il benessere altrui….La particolarità, limitata dall’universalità, è unicamente il modo con il quale ogni particolarità promuove il proprio benessere».(Lineamenti di filosofia del diritto).

Accettando la concezione di Adam Smith secondo cui l’egoismo personale nelle relazioni sociali ed economiche, perseguendo l’utilitarismo attraverso l’operare raziocinante e strumentale dell’intelletto, «magicamente » trova una concordia e armonia generale che producono il benessere collettivo, viene qui sviluppato il concetto smithiano dell’intreccio della società come dipendenza reciproca degli individui per la soddisfazione dei bisogni attraverso una loro preventiva moltiplicazione, differenziazione e sofisticazione. Osserva Hegel che lo strumento per ottenere ciò è il lavoro, quale mezzo di educazione degli individui, e in sovrappiù la divisione sociale del lavoro con una sempre maggiore specializzazione e la possibilità che l’uomo venga sostituito dalla macchina. L’egoismo soggettivo si rovescia così necessariamente nel contributo della persona all’appagamento dei bisogni altrui, che non si risolve in una pura e illimitata frantumazione sociale ma, al contrario, trova dei contenitori di aggregazione nelle «classi » sociali. In questo campo sociale legge fondamentale è quella del diritto alla proprietà privata.

Da questo punto di vista Hegel riconosce un ‘eticità relativa all’individuo in società civile,

ma si tratta appunto di un ‘eticità limitata e circoscritta a quel campo di relazioni, non il modello assoluto ed esclusivo di etica che vorrebbe imporre Von Hayek.

Tant’è che, osservando le dinamiche delle società liberali capitalistiche avanzate del proprio tempo, l’Inghilterra e la Francia dei primi decenni dell’ottocento, Hegel sempre nell’Eticità , sezione terza della Filosofia del diritto, può constatare che :Par. 244 ««Il decadere di una grande massa al di sotto della misura di un certo modo di sussistenza, il quale si regola da sé stesso come il modo necessario per un membro della società – e con ciò il decadere alla perdita del sentimento del diritto, della rettitudine e dell’onore di sussistere mediante propria attività e lavoro, – genera la produzione della plebe, produzione che in pari tempo porta con sé d’altro lato una maggiore facilità di concentrare in poche mani ricchezze sproporzionate».

E ancora: Par. 245: ««…Per mantenere la massa che si avvia alla povertà nella situazione del suo ordinario modo di vita, in tal caso (d’intervento dello Stato, ndr) la sussistenza dei bisogni verrebbe assicurata senza essere mediata dal lavoro– ciò che sarebbe contro il principio della società civile e del sentimento degli individui facenti parte di essa intorno alla loro autonomia e al loro onore–oppure se essa venisse mediata dal lavoro (dall’occasione per questo) verrebbe accresciuto il volume delle produzioni, nella cui sovrabbondanza e nella mancanza di proporzionati consumatori essi stessi produttivi, consiste precisamente il male, che in entrambi i modi s’ingrandisce soltanto. Vien qui in evidenza che malgrado l’eccesso di ricchezza la società civile non è ricca abbastanza, cioè nelle risorse ad essa peculiari non possiede abbastanza per ovviare all’eccesso della povertà e alla produzione della plebe».

Alla dialettica tra ricchezza e povertà, focalizzata in quest’opera del 1820, in passi che non fanno altro che preannunciare il corso storico dei due secoli successivi, Hegel non vede altro rimedio che l’emigrazione in massa nelle terre ancore vergini delle Americhe. Ma il fatalismo che si accompagna a queste osservazioni, impedisce altresì ad Hegel di glorificare la società dell’economia del libero mercato e di fare dell’individuo il suo eroe eponimo, come invece accade in Von Hayek.

L’individuo della società civile, così come non poteva cancellare la sua costituzione mediante i rapporti e legami familiari, allo stesso modo non può esimersi, se vuole essere citoyen e non semplice homme (privato), dal rapportarsi con le istituzioni dello Stato nazione, che costituisce la cerchia comunitaria della politica, sintesi suprema delle cerchie precedenti. Lo Stato hegelianamente deve appunto essere l’autentica incarnazione dello Spirito oggettivo o volontà razionale universale.

Tale esito può essere solo il frutto di una razionalizzazione del processo storico. Solo la mediazione «stratificata» o «concreta» («concresciuta») delle cerchie comunitarie o strutture dell’eticità della famiglia, della società civile e, come loro organizzazione o sintesi dialettica, dello Stato politico, possono fare degli individui, in quanto membri di tali cerchie, delle volontà dotate di razionalità universale, ossia dei soggetti liberi.

Per Hegel scienza del diritto ed eticità coincidono perché la prima solo marginalmente corrisponde al campo tradizionale del diritto positivo(quello che Hegel chiama diritto astratto o formale) ossia il codice di leggi e norme formalizzato e sanzionato come vigente. Essa è invece appunto la scienza della libertà della volontà che non coincide, se non a uno stadio embrionale e primitivo, con la volontà dell’individuo, ma corrisponde allo spirito oggettivo.

Lo Stato nazione come coronamento o sintesi dei due stadi precedenti, viene a svolgere il suo ruolo, sia nei confronti della famiglia che nei confronti della società civile, di organizzatore istituzionale delle «cerchie comunitarie» di cui gli individui sono singoli membri. Di conseguenza le istituzioni statuali che compiono questa organizzazione –dall’amministrazione della giustizia, alla polizia, ai corpi intermedi alla società delle corporazioni (che noi oggi chiameremmo sindacati), per finire con il potere esecutivo(il governo) e quello legislativo (il parlamento)– tutte hanno di mira sempre la meta etica della liberazione della volontà soggettiva(che potremmo ridefinire con le parole dell’articolo 3 della nostra Costituzione il fine del «pieno e libero sviluppo della personalità umana»).

Se la volontà dell’individuo è solo uno stadio embrionale o primitivo della liberazione del soggetto o spirito oggettivo, quest’ultimo raffigura una sua precisa dinamica. Ci dice Hegel che a un tempo il movente della libertà è innato già a livello della volontà dell’individuo, ma, a sua volta, la stessa volontà non è più riducibile al solo complesso psicologistico o psicosomatico di pulsioni,istinti, passioni, sentimenti e desideri.

La libertà, come stella polare della volontà, si può dare solo in un processo storico della sua «liberazione», ossia di razionalizzazione delle istituzioni sociali, economiche, politiche e giuridiche dell’uomo, e solo questa complessiva architettura storica è la libertà o volontà in sé e per sé, dunque universale, ma in senso oggettivo (di istituti concreti del processo storico dell’umanità) e non in senso meramente soggettivo o di universalità astratta e formale(la libertà astratta della moralità kantiana).

Potremmo dire che la libertà del soggetto per Hegel coincide con la sostanza oggettiva della volontà individuale, dunque con l’ossimoro per cui il singolo o individuo è sé stesso solo fuori da sé, oltre sé stesso, solo così egli diventa soggetto.

Tutto ciò ha a che fare con i fondamentali della filosofia hegeliana, con quella filosofia dello spirito o autocoscienza soggettiva capace di estraniarsi o alienarsi nell’esperienza oggettiva dei processi storici, per poi essere in grado, al termine di tale erranza dialettica nel mondo, al culmine del superamento delle esperienze contraddittorie del processo storico, di recuperarsi e«ritornare in sé o al sé» della padronanza soggettiva.

Si tratta dunque dell’ aprirsi dell’autocoscienza metafisica a una sua propria origine processuale, a una sua costitutiva alienazione o all’ «essere autocoscienza al lavoro o in divenire». Sul concetto dello spirito, la stessa Filosofia del diritto di Hegel, in un celebre passo della sua Prefazione, ribadisce che :« La forza dello spirito è grande quanto la sua estrinsecazione; la sua profondità è profonda soltanto in quella misura secondo la quale esso ardisca di espandersi e di perdersi(alienarsi da sé, ndr.) mentre dispiega sé stesso ».

Anche Hegel si pone l’antico compito filosofico della conoscenza di sé(il«conosci tè stesso») , ma questo per lui può avvenire solo tramite la trasposizione verso l’esterno della soggettività. La soggettività deve essere manifestata, non deve essere o rimanere un tessuto interiore sia pure capace di esistere come tale.

La formazione della soggettività libera è per Hegel non uno stato, non un possesso, ma un processo graduale, e questo sviluppo graduale avviene attraverso il metodo della negazione dialettica; il processo attraversa lo stadio iniziale del complesso pulsionale e opinativo della volontà individuale, corrispondente allo stadio sociale del Diritto astratto , per passare poi per lo stadio della Moralità(della filosofia morale kantiana) in cui la volontà nega la sua natura pulsionale particolare e individuale, si riflette in sé stessa come ragione universale ma ancora formalistica e astratta, come legge dell’interiorità autonoma e indipendente, in cui la soggettività si sente formalmente libera in quanto astratta e distaccata da ogni oggetto materiale o empirico, e qui enuncia il principio moderno della libertà.

L’assunzione della natura universale della legge interiore o morale (la formulazione e assunzione di postulati, assiomi, principi e imperativi categorici) fa sì che la volontà si senta soggettività che si autodetermina, e sia in modo innato portata all’astrazione, al contrasto con la natura particolare del soggetto, con i suoi fini e i suoi interessi, con la ricerca del loro appagamento, e dunque con la loro felicità relativa.

Hegel in questa posizione intravede il pericolo del «rigorismo morale», secondo cui il dovere morale diventa un compito spiacevole e opposto agli impulsi, un compito che determina un contrasto di principio tra fini soggettivi ed oggettivi, contrasto affermato solo dall’intelletto astratto. Ma la coscienza morale astratta,separata dal contenuto che essa deve realizzare, non è ancora per Hegel il soggetto autenticamente autocosciente e libero.

Esso si affaccia solo là dove benessere oggettivo (appagamento pulsionale e desiderativo) e soggettività (legislazione universale dell’intelletto) s’integrano come autenticamente universali, nella sintesi tra il bene come fine assoluto e la coscienza morale. Da qui il sorgere necessario del terzo stadio della liberazione dell’autocoscienza soggettiva, lo stadio dell’ Eticità o spirito oggettivo.

L’ Eticità è dunque la piena liberazione del soggetto o l’ autocoscienza oggettiva, nella sua trascorrenza tra le potenze etiche del mondo storico della famiglia, della società civile e dello Stato quale sintesi o conciliazione delle prime due.

Ci siamo soffermati sulla dottrina etica hegeliana, pur presentandola in modo schematico, per misurare la distanza abissale che intercorre tra la riflessione sul soggetto libero o liberato di Hegel e l’individuo tout court, meramente inteso, nell’opera di Von Hayek.

Se sussumiamo invece l’apologia dell’affermazione dell’individuo nella società liberale e capitalistica moderna che presenta Von Hayek al giudizio generale sotto cui accomunava i suoi celebratori Karl Marx,potremmo presumere che il pensatore di Treviri con ogni probabilità avrebbe appellato questa agiografia dell’individuo «eroe» moderno con il nome di «robinsonata», così come aveva denominato le analoghe dottrine di ben più illustri predecessori di Hayek, i padri del giusnaturalismo e del liberalismo moderni: John Locke, Adam Smith, Maltus.

L’appellativo marxiano di «robinsonata» indica quella costruzione ideologica portata avanti da questi autori e basata su due postulati fondamentali: 1) il capitalismo sarebbe un modo naturale di vivere e di lavorare(una «legge di natura»), 2) un vero e proprio mito di fondazione, una «mitopoiesi», secondo cui il processo di accumulazione originaria di capitale, da cui far partire il susseguente processo produttivo, sarebbe stato il frutto dell’astinenza di un virtuoso gruppo d’individui parsimoniosi e morigerati.

Come Robinson Crusoe, il protagonista del romanzo omonimo di Daniel Defoe, intraprende una vera e propria accumulazione originaria di capitale nella solitudine dell’isola su cui ha fatto naufragio, così quella costruzione ideologica finge che l’accumulazione capitalistica si sarebbe avviata a partire dal risparmio e dal sudore dei primi capitalisti, e che addirittura la relazione economica implicasse esclusivamente il rapporto dell’uomo alla natura e non anche quello dell’uomo all’altro uomo e alla società nel suo complesso.

Dunque le «Robinsonate » proiettano retrospettivamente a un’ immaginaria origine una condizione che è desiderata ma che è sconosciuta alle vicende storiche realmente accadute.

La robinsonata pretende d’indicare una condizione come essenziale in quanto esistente in modo stabile, poichè prescinde da quelle determinazioni che differenziano un periodo storico dall’altro, una società da un’altra, rendendo quella condizione una legge naturale.

In realtà, osserva Marx, bisogna che prima il capitalismo si affermi come modo di produzione generalizzato, affinché poi il capitalista e l’operaio s’incontrino sul mercato e si scambino le loro rispettive «merci» (offerta di lavoro e domanda di lavoro/ offerta di forza lavoro) senza che il rapporto venga imposto dalla legge o dall’impiego della violenza.

Dunque l’obbligo esclusivamente per ragioni economiche del lavoratore di vendere la propria forza-lavoro al capitalista ha come presupposto il fatto che si creasse una massa d’individui nullatenenti che, pur formalmente liberi, fossero poi costretti a vendere la propria forza-lavoro. Il «fondamento realmente dato » del modo di produzione capitalistico è dunque la separazione del «libero » lavoratore dalle condizioni del suo lavoro e dai mezzi di sussistenza.

«Finché il lavoratore può accumulare per sé stesso – e lo può finché rimane proprietario dei suoi mezzi di produzione(ad es, un appezzamento di terreno da cui ricavare il proprio sostentamento, ndr,) – sono impossibili l’accumulazione capitalistica e il modo di produzione capitalistico». Come si osserva nei Grundrisse (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica) «solo a un certo livello dello sviluppo del capitale lo scambio tra capitale e lavoro diventa di fatto formalmente libero ».

Nell’indagare sulla preistoria della cosiddetta accumulazione originaria del capitale Marx s’imbatte in una verità pietrificante: il capitale non nasce dalla dissoluzione della schiavitù diretta del lavoratore ma piuttosto si fonda su di essa, e solo in un secondo momento se ne libera per assumere la forma della schiavitù mascherata del lavoro salariato.

La separazione del lavoratore dai suoi mezzi di lavoro e di sussistenza(fondo agricolo, attività artigianale, etc.) che origina l’affermazione dell’ordinamento capitalistico, osserva Marx, è una separazione ottenuta con una violenza e un assoggettamento extraeconomici, ossia politici e giuridici, nella loro forma più brutale. Questo «peccato originale » dell’accumulazione originaria del capitalismo si sarebbe verificato a partire dal XV ° secolo (Marx si riferisce in particolare alla situazione storica dell’Inghilterra).

Indagando l’archeologia o la genesi di questi processi, Marx si sofferma sulla storia inglese tra quattro e cinquecento. Già i Grundrisse avevano evidenziato come i due grandi presupposti per la nascita del modo di produzione capitalistico fossero : 1)porre come fine della produzione la valorizzazione del denaro, ossia la creazione di valore di scambio; 2) «il distacco del lavoratore dalla terra quale suo laboratorio naturale»(lo sviluppo del capitalismo è impossibile fin tanto che sussiste il libero accesso a una terra relativamente abbondante) .

Nell’ultimo capitolo del primo volume del Capitale Marx ribadisce il concetto.

Tale espropriazione originaria, radicalizzata tra la fine del XV° e l’inizio del XVI° secolo, «la separazione del produttore dai suoi mezzi di produzione», ha portato alla formazione dei due schieramenti tra di loro contrapposti dei nuovi nobili imprenditori, una sorta di «proto-borghesi» proprietari dei mezzi di produzione, e i «proto-proletari», totalmente privi di essi. Si tratta di una espropriazione coercitiva e violenta che priva grandi masse della popolazione dei mezzi di sussistenza(i piccoli appezzamenti di terra che in epoca feudale consentivano ai servi della gleba di sopravvivere).

I contadini espropriati vengono« gettati sul mercato del lavoro come proletari eslege», ossia come uomini che non dispongono più di altre risorse al di fuori delle proprie braccia. E’ dalla dissoluzione della società feudale che si sono liberati gli elementi su cui è sorta la società capitalistica. Questa interpretazione marxiana che assume a paradigma l’Inghilterra come modello classico tanto dell’accumulazione originaria del capitale che dello sviluppo del capitalismo industriale e tecnologico del proprio tempo, ha conosciuto una revisione importante intorno alla metà del novecento, da parte di due studiosi marxisti.

Il primo, Paul Marlor Sweezy, sostenne che il commercio internazionale, in particolare nel triangolo tra Inghilterra, Africa e America(commercio schiavistico e coloniale) , fu l’elemento dominante per l’accumulazione del capitale monetario necessario per il successivo decollo industriale. Il secondo, Maurice Dobb, sostenne invece che il fattore decisivo per la transizione capitalistica non fu «esterno» ma bensì interno, legato alla transizione da un ‘agricoltura e artigianato pre-capitalistici a un agricoltura e un artigianato capitalistici(passaggio dai campi aperti alle enclosures, formazione della classe dei fittavoli capitalisti, il passaggio dal lavoro artigianale a domicilio alla manifattura e successivamente alla fabbrica vera e propria).

Da parte sua Marx tratteggia una situazione precapitalistica di relativa prosperità generale nella quale abbondava una sorta di ricchezza popolare di cui beneficiavano anche gli strati sociali più bassi quali i servi della gleba. Al contrario lo slancio della manifattura laniera europea causò un sempre maggiore esproprio dei piccoli e medi contadini a favore dei grandi proprietari fondiari, i quali recintarono il terreno fino ad allora adibito alla coltivazione e lo trasformarono in terreno da pascolo(enclosures) .

Avida di denaro la nuova nobiltà inglese accoglieva la sempre crescente richiesta di lana da parte dei fiamminghi trasformandosi in capitalismo agrario produttore di materie prima per la manifattura laniera. Nel corso di questo sviluppo irreversibile, la proprietà comune (a cui erano legati diritti consuetudinari delle comunità dei villaggi, quali il diritto di pascolo, legnaggio, spigolatura, etc.) che fino ad allora era stata utilizzata da tutti e aveva garantito un sostentamento ai più, così come pure il terreno a maggese, furono recintati e trasformati mediante il violento esproprio, in proprietà privata. Il servaggio dell’età feudale divenne elemento del nuovo modo di produzione capitalistico, trasformandosi in una forma di libera contrattazione salariale.

Vi è dunque una dialettica all’origine del moderno processo capitalistico. Da una parte la dissoluzione della società feudale e dei suoi rapporti di produzione, ha liberato il produttore immediato dai tutti quei vincoli che facevano di lui un servo della gleba al servizio di un’altra persona ; il lavoratore si è affrancato altresì dal dominio esercitato dalle corporazioni con tutte le loro regole lavorative. Sotto questo aspetto si è realizzato, osserva Marx, «un positivo processo di liberazione dalla servitù e dalla coercizione corporativa».

Dall’altra parte però, come rovescio della medaglia, tale liberazione exlege prevede quella privazione di tutti i mezzi di produzione di cui godeva il lavoratore feudale e delle relative garanzie per l’esistenza sancite dal precedente statuto giuridico, e ciò avviene con un’espropriazione violenta, «scritta negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco», delle terre comuni lavorate dai contadini secondo la legislazione feudale.

Con i decreti delle Bills for inclosures of commons«i signori dei fondi regalavano a sé stessi, come proprietà privata, terre del popolo». Le masse private così di tutti i mezzi di sostentamento, si trovano obbligate o a mettersi in vendita ai nuovi proprietari di quelle terre o a ingrossare le fila dei «mendicanti, vagabondi, briganti, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze».

Dalla seconda via molti di costoro, sotto la minaccia della forca, della gogna, o della frusta sono stati spinti alla prima stretta via che conduce al mercato del lavoro.

In questa fase i nuovi «operai» son in tutto e per tutto schiavi diretti del capitale, ed è la legge stessa a costringerli a vendersi volontariamente, educandoli alla dura necessità del lavoro salariato. Per Marx questo è il procedimento seguendo il quale il capitale si costruisce un mondo a propria immagine e somiglianza, creando un modo di esistenza che gli corrisponda pienamente. Si svilupperebbe così una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione» a cui inizialmente opponeva resistenza. Solo una volta che, con il passare delle generazioni, l’operaio salariato viva quel nuovo modo di produzione come l’unico possibile, e lo interiorizzi come un necessità ineluttabile, solo allora la costrizione extraeconomica può diradarsi per lasciare il posto alle nuove garanzie giusnaturalistiche delle libertà formali di ogni cittadino.

Della nuova forma mascherata di schiavitù del lavoro salariato non vi è menzione alcuna negli scritti dei pensatori borghesi-liberali che esaltano l’aspetto delle libertà formali giuridiche dell’individuo, compreso non da ultimo il «nostro» Friedrich Von Hayek.

E’ lo status politico meramente formale che consente la più potente delle discriminazioni tra gli uomini: la discriminazione di natura economica e sociale(la disuguaglianza) .

Osserva Marx che l’emancipazione politica è del tutto insufficiente e non corrisponde all’emancipazione reale, ossia l’emancipazione dell’uomo dal punto di vista delle condizioni sociali ed economiche. E’ lo Stato liberale in quanto tale che andrebbe criticato, poichè in questo modello di Stato non è data la realizzazione della vita comunitaria del genere umano, il momento etico supremo, al quale in un certo senso aspirava Hegel, ma, al contrario, in esso la società civile non è affatto assorbita e «addomesticata » dalla forma statuale e dalla sua presunta classe universale della burocrazia, ma conduce invece un esistenza parallela e autonoma che trova legittimazione nello Stato stesso.

Per Marx il liberalismo politico si accompagna di necessità con una libertà di sfruttamento del debole da parte del forte, con un ‘oppressione di classe. Per Marx lo Stato liberale non è nè può diventare(come suggeriva in un certo senso Hegel) il luogo in cui le contraddizioni si superano sintetizzandosi nella piena realizzazione, concreta e universale, dell’ eticità.

Lo Stato può essere il momento etico supremo solo nel caso in cui in esso si realizzi la vita comunitaria del genere umano. Ma ciò non è dato dalla forma liberale dello Stato, quello Stato che decreta che tutti gli uomini sono politicamente uguali, ma al tempo stesso permette e anzi protegge con le leggi il fatto che siano socialmente diversi.

Come una sorta di risposta anticipata al panegerico dell’individuo «indipendente e padrone di sé, padrone del proprio destino» sbandierato da Hayek in La via della schiavitù, giusto cent’anni prima il giovane Marx osserva come negli Stati liberali di fatto la politica è subordinata all’economia borghese, «il citoyen viene ritenuto servo dell’homme egoista » e «non l’uomo come citoyen ma l’uomo come bourgeois viene scambiato per l’uomo in senso autentico».

Marx osserva che la stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della Rivoluzione francese rivela che quelli che la Rivoluzione contrabbandò come universali diritti dell’uomo erano in realtà i diritti del borghese, innalzati al grado dell’universalità, fatti passare ideologicamente come diritti di tutti e diritti naturali dell’uomo in quanto tale.

«Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo si spinge al di là dell’uomo egoista, dell’uomo in quanto membro della società civile, ossia individuo ripiegato in sé, nel suo interesse privato e nel suo privato arbitrio, e separato dalla comunità».

La libertà rivoluzionaria fu essenzialmente una liberazione da costrizioni: libertà di accrescere ad libitum le proprie ricchezze, di agire senza inciampi e ostacoli da parte degli altri borghesi o dello Stato stesso, una «libertà dell’uomo inteso come monade isolata » resa istituzionale. Questa libertà spacciata come autentica e universale è una « libertà che non vede nell’altro uomo la realizzazione ma piuttosto il limite della propria libertà ».

E’ un modello di società civile fondato su atomi o monadi egoisticamente richiuse su sé stesse che vedono nell’altro individuo solo uno strumento per i propri fini economici utilitaristici, che invera la concezione hobbesiana del bellum omnium contra omnes, in cui l’uomo si fa lupo all’uomo. Una società che nega l’essenza comunitaria(Gemeinwesen) dell’uomo, in cui gli individui come tanti atomi epicurei s’incontrano solo in modo accidentale, tendendo a respingersi l’uno con l’altro.

Un ulteriore vaglio critico all’epopea moderna dell’individuo self made man, esibita nel suo argomentare in La via della schiavitù da Von Hayek, un suo ultimo ipotetico censore, sicuramente terzo grande ispiratore della concezione di Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno, può essere rintracciato in Max Weber, nel suo pensiero e opera .

Max Weber è generalmente conosciuto come uno dei padri della moderna disciplina della sociologia, della scienza della società, ma questa definizione, sia pure fondata e lusinghiera, è ancora limitativa nei confronti della sua opera monumentale, che è invece ascrivibile al campo più vasto di filosofia della storia a cui appartengono tanto il pensiero di Hegel quanto quello di Marx. Forse nell’opera di Weber è rintracciabile la visione più compiuta sui destini contraddittori e dialettici della modernizzazione occidentale.

Sopratutto il suo monumentale Trattato di sociologia delle religioni, in cui la analisi delle religioni mondiali (l’ebraismo, il cristianesimo, l’islam, il buddismo e l’induismo, il confucianesimo e il taoismo,) è finalizzata alla ricerca di ciò che ha condotto le diverse rappresentazioni religiose verso un loro «disincanto», una loro peculiare razionalizzazione di comportamento individuale e sociale, verso una specifica etica comunitaria, è in realtà incentrato sulla specifica ricerca sulla genesi e sviluppo della razionalizzazione moderna dell’occidente (europeo-americano).

In particolare la ricostruzione che Weber compie della storia delle concezioni morali e giuridiche dell’occidente moderno, è finalizzata a cogliere il sorgere dell’etica economica capitalistica, a una spiegazione esatta delle condizioni culturali nelle quali si compie la transizione verso il capitalismo. Questo perché Weber coglie come problema di evoluzione centrale in Occidente la modalità in cui s’integra e diventa organo vitale centrale della società un sistema settoriale differenziato (l’economia di mercato) che presenta un modello di agire razionale rispetto allo scopo (e cioè di razionalità strumentale e di razionalità selettiva dello scopo tra quelli dati ).

Weber si focalizza dunque sul problema di come le idee di una dottrina religiosa (il protestantesimo) consentano di far assumere come modello di razionalità rispetto al valore(di «etica dell’intenzione»), all’interno dell’ordinamento vitale del lavoro sociale, il modello di agire razionale rispetto allo scopo (di razionalità strumentale).

Nell’indagine di Weber emerge l’interrogativo del perchè è proprio della modernità occidentale lo sviluppo di una specifica e articolata concezione della razionalizzazione della realtà, di una sua peculiare cifra di «disincanto delle immagini del mondo» attraverso lo sviluppo e il potenziamento dell’ autocoscienza razionale filosofica, che si costituisce in «sfere autonome » della realtà, ognuna con i suoi postulati, leggi e istituzioni :1) la sfera della razionalità scientifica, cognitivo strumentale, con il suo metodo d’indagine logico-matematico e sperimentale;2) la sfera morale-giuridica, tra etica religiosa e diritto; 3) la sfera estetico-espressiva della cultura e dell’arte.

Questo ricco e articolato apparato di razionalizzazione del mondo della modernità occidentale, in tutta la sua potenzialità, viene però in Weber messo a contrasto con il modello effettivamente realizzato, rispetto a quello spettro complessivo, e cioè il modello della società capitalistica. Questo avviene attraverso l’affermazione sociale di una fase post-tradizionale della coscienza morale nella forma dell’etica protestante.

Ma perché ciò si realizzi è necessario che le strutture di un etica della convinzione, che elevano l’agire razionale rispetto al valore a principio della condotta intramondana di vita, determinino lo stile di vita di ampi strati sociali così da radicarsi come movente per l’agire economico razionale strumentale(creino una simbiosi tra razionalità valoriale e strumentale) .

Essendo la sfera di emancipazione e autonomia moderna della coscienza morale una sfera pratica condivisa dal campo del diritto, Weber deve asserire un processo parallelo, sia pure non simultaneo, per il diritto moderno. L’eticizzazione delle immagini del mondo coinvolge anche la razionalizzazione della coscienza giuridica ma ugualmente non in derivazione diretta e immediata. E’ necessario il fondamento del diritto naturale razionale(la cosiddetta dottrina del jusnaturalismo) affinché si trasformino materiali giuridici in concetti fondamentali del diritto formale (in vere e proprie costituzioni scritte degli Stati) e si creino istituzioni(potere giudiziario e potere legislativo) che soddisfino formalmente principi universalistici, e proprio quelli che regolano lo scambio privato dei possessori di merci(il diritto civile privato) e l’attività complementare dell’amministrazione pubblica (diritto civile pubblico) .

Weber però evidenzia in maniera più spiccata la relazione della razionalizzazione della religione (la religione riformata) all’ etica economica che non all’evoluzione del diritto. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che il nascere della dottrina del diritto naturale razionale non è spiegabile solamente con la razionalizzazione etica delle immagini del mondo ma dipende in ampia misura dallo sviluppo scientifico ( tanto dai metodi logico-matematici della gnoseologia quanto dai modelli della fisica meccanica cartesiani-galileiani, se vediamo i modelli di riferimento sia delle dottrine politiche di T. Hobbes che delle dottrine politiche di J. Locke).

Allora la questione centrale relativa alla modernità intesa come razionalizzazione sociale è la seguente: come è possibile l’istituzionalizzazione di orientamenti di agire razionale rispetto allo scopo(di razionalità strumentale) nella sfera del lavoro sociale? Come si trasformano in istituzioni l’agire economico e l’agire amministrativo-burocratico?

Weber spiega questa trasformazione con: 1) il radicamento di tale modello o struttura di razionalità nel sistema della personalità o coscienza tramite un ‘etica della convinzione che penetra sistematicamente tutti i campi, e che, in modo razionale rispetto al valore (alla convinzione o intenzione) fissa gli orientamenti di azione razionale strumentale nel sistema della personalità con l’etica protestante.(quindi congiunge i due modelli di razionalità rispetto allo scopo o strumentale, e rispetto al valore o intenzione).

2) Un sottosistema sociale che garantisce la riproduzione culturale di tali modelli di etica della convinzione o del valore(tramite le comunità religiose e la famiglia).

3) Un sistema di norme coercitive che per la sua struttura formale (diritto penale, diritto privato e diritto civili borghesi) è adeguato a pretendere dagli agenti come comportamento legittimo il perseguimento dei propri interessi in modo razionale strumentale, esclusivamente orientato al successo (al profitto, all’espansione economica e alla conquista di posizioni sociali), in una sfera eticamente neutralizzata.

Weber crede che tale trasformazione avvenga mediante un materializzarsi in istituzioni di quelle strutture di coscienza che sono emerse dalla razionalizzazione etica delle immagini del mondo.

L’indagine di Weber su come sia nata e si sia sviluppata la società capitalistica e i moderni sistemi sociali e politici in generale (le istituzioni dello Stato moderno basato sullo sviluppo del diritto formale – costituzionale, civile pubblico e privato, penale – e sulla divisione dei poteri) avrebbe come interrogativo di partenza sottinteso se la via della razionalizzazione europea è solo una tra più vie sistematicamente possibili.

L’implicazione della ricerca di Weber sarebbe la questione se quella modernizzazione che si afferma con il capitalismo deve essere considerata come una realizzazione solo parziale delle strutture della coscienza moderna costituitesi e sviluppatesi in sfere tra di loro autonome, e in questo caso come possa essere spiegata la scelta del modello della razionalizzazione capitalistica (che Horkheimer e Adorno nel loro saggio avrebbero definito quale legge preistorica della storia umana, legge di dominio naturale sulla «sovranatura » umana) .

Relativamente all’impresa capitalistica Weber non segue il proprio metodo sistematico di procedere dal livello della razionalizzazione culturale(delle tre sfere autonome della razionalizzazione) al livello di quella sociale ma parte dal fatto che nell’impresa capitalistica è stata istituzionalizzata la razionalità strumentale dell’azione dell’imprenditore e che la spiegazione di questo fatto chiarisce la modernizzazione capitalistica.

A differenza di Marx che su questo tema sviluppa una teoria del valore-lavoro (valore d’uso del prodotto del lavoro e valore di scambio dello stesso come merce nella legge della domanda e dell’offerta del «libero» mercato), Weber deduce il diventare istituzione dell’agire economico razionale strumentale prima di tutto con l’aiuto della cultura della «professione» o «vocazione» o «chiamata» protestante (la beruf luterana, chiamata divina all’attività lavorativa specializzata indefessa, disciplinata, razionalizzata, in una parola ascetica), e successivamente con l’aiuto del moderno sistema giuridico.

Entrambi razionalizzano gli ordinamenti vitali della società estendendo ordinamenti (istituzioni) legittimi di agire razionale strumentale perché questi vengono ad incarnare concezioni giuridiche e morali post-tradizionali.

Nasce così una nuova organizzazione della società che soddisfa gli imperativi funzionali (procedurali o strumentali) dell’economia capitalistica.

Per Weber questo modello, questa forma di razionalizzazione, viene a costituire la razionalizzazione della società tout court, poiché di fatto, nei processi o dinamiche funzionali generali, quell’agire imprenditoriale razionale strumentale dimostra di avere un ruolo centrale nelle società moderne. La riflessione teorica di Weber non fa che ratificare o giustificare a posteriori questo fenomeno centrale. Osserva il filosofo Jurgen Habermas (Teoria dell’agire comunicativo) che nel contempo questa «sovrastima» viene in Weber rafforzata dalla sua propensione teorica generale a valorizzare l’elemento di razionalità rispetto allo scopo(razionalità strumentale) nel campo della ragion pratica rispetto a un possibile più comprensivo concetto di razionalità.

Annota ancora Habermas, è come se Weber nel passaggio dall’analisi della razionalizzazione culturale in sfere di valori autonomi alla razionalizzazione sociale, restringesse il concetto di razionalità e affrontasse direttamente le forme di razionalismo occidentale incontrate di fatto senza rifletterle nelle possibilità controfattuali( forse delle potenzialità utopiche?) di un mondo vitale razionalizzato.

Ma dall’altra parte, in maniera contraddittoria, l’orizzonte di una più ampia potenzialità razionale, riemerge nella diagnosi epocale di Weber, quale criterio o parametro in base al quale giudicare e criticare la razionalizzazione atrofizzata a razionalità strumentale.

Riemerge in questo contesto il modello sistematico di razionalità a due livelli che appaiono tra di loro separati : il primo livello la razionalizzazione culturale, il secondo livello la razionalizzazione sociale.

E’ stato osservato da studiosi della dottrina weberiana che in essa manca la trattazione delle relazioni causali (o intercausali, cioè dialettiche) tra etica protestante e lo spirito del capitalismo filtrato nella deontologia professionale moderna, limitandosi a sviluppare il loro rapporto su semplici affinità elettive o strutturali.

Quindi non soddisfano nemmeno l’istanza espressa da Weber di un ‘analisi «della maniera in cui l’ascesi protestante è stata da parte sua influenzata, nel suo divenire e nel suo carattere specifico, dal complesso delle condizioni culturali della società, in particolare da quelle economiche». L’etica protestante è per Weber una variabile -chiave dell’evoluzione culturale complessiva dell’Occidente.

Infatti egli considera la moderna cultura professionale (la deontologia professionale) come non solo un derivato delle strutture della coscienza moderna, bensì proprio come quella implementazione dell’etica della convinzione (protestante) per mezzo della quale l’agire razionale strumentale dell’imprenditore trova radici e fondamenti motivazionali che ha importanti conseguenze per l’impresa capitalistica.

Ma fino a che livello viene selezionato e ristretto il modello di agire razionale strumentale nella comprensione eticizzata del mondo tipica della cultura professionale protestante?

Quest’ultima questione viene in un ulteriore passo affrontata da Weber con argomenti di assoluta attualità, e sola essa può stabilire quale sia stato il valore e l’importanza effettiva dell’etica protestante nello sviluppo del razionalismo occidentale. Il passo è il seguente: «Secondo la dottrina calvinistica il successo dell’attività professionale non va considerato direttamente come mezzo per conseguire la salvezza eterna(come opera per la salvezza ultraterrena, ndr.), bensì come segno mondano, esteriore, per accertare uno stato di grazia in linea di principio incerto e oscuramente predestinato».

Weber utilizza tale elemento ideologico per spiegare il significato funzionale che il calvinismo ha assunto non solo per la diffusione di atteggiamenti intramondano-ascetici, bensì specificamente per una condotta di vita oggettivata, sistematizzata e incentrata sull’attività professionale che si basa sulla razionalità strumentale.

Weber vuole spiegare non come siano venuti meno gli ostacoli cattolici contro la ricerca del profitto commerciale, ma piuttosto quale sia stato il mezzo con cui sia stato possibile il passaggio dal profitto economico occasionale a un sistema economico, lo sviluppo dal romanticismo dell’avventura economica alla metodica di vita economica razionale.

Weber vede nel Calvinismo e nelle sue sette ascetiche da un lato le dottrine che segnarono la condotta metodica di vita come una via per perscrutare la possibilità della salvezza; dall’altro lato, nella vita religiosa comunitaria che ispira l’educazione familiare, egli vede l’istituzione che assicurò l’efficacia pedagogica delle dottrine religiose nelle classi sociali portanti del primo capitalismo.

La prima osservazione di Weber è che il Calvinismo esorta i credenti a privare la prassi quotidiana della sua asistematicità, per far sì che la ricerca della salvezza da parte dell’individuo comporti una messa in pratica in tutte le sfere e fasi della vita della convinzione etica e della morale retta da principi. La seconda osservazione è pero allusa da un riferimento alla vita del “santo”: qui si afferma un ulteriore tratto della devozione di setta, che è l’unico che spiega perché l’etica protestante abbia reso possibile non solo l’ascesi intramondana in generale, bensì specialmente quegli orientamenti di azione propri della condotta metodica di vita degli imprenditori del primo capitalismo.

Si è costituita cioè la possibilità che il laico sistematizzi la propria condotta di vita regolandola in modo autonomo, secondo i principi di una morale post-convenzionale, senza affidarsi alla grazia dei sacramenti (comunione e confessione) dispensata dai preti, al soccorso di un ‘istituzione di grazia dotata di un carisma di un ufficio quale la chiesa cattolica, e cioè senza dover suddividere il proprio mondo vitale in sfere di vita rilevanti per la salvezza e in sfere che non lo sono. La caratterizzazione fondamentale della condotta di vita definita «metodica» da Weber consiste nel fatto che la sfera di vita della professione viene «oggettivata», ossia scomposta, analizzata e segmentata, e allo stesso tempo elevata sul piano morale (cioè orientata allo stesso tempo a un agire razionale strumentale o efficace, e «avvallata» da un agire razionale rispetto al valore) .

Fondamentale è la considerazione, però, che le relazioni o interazioni soggettive nel campo del lavoro professionale vengono moralmente neutralizzate in modo tale che l’agire socio-economico può essere staccato dai valori e dalle norme (dallo sfondo o orizzonte della razionalità della convinzione o intenzione), e orientato al perseguimento del successo, razionale rispetto allo scopo, dei propri interessi. Contemporaneamente il successo professionale (la razionalità strumentale o efficace nel rapporto mezzi-scopo) è così congiunto con il destino individuale di salvezza che il lavoro professionale nel suo insieme viene eticamente connotato e drammatizzato.

In quella citazione Weber accenna appena al fatto che il radicamento in una morale post-tradizionale della sfera della prova professionale razionale strumentale è connesso a quel tratto dell’etica protestante – di una limitazione dell’etica religiosa della convinzione– relativa a un «particolarismo della grazia» («predestinazione» o «elezione») che elimina la compresenza cattolica dell’etica dei monaci, dei preti e dei laici, a favore di una separazione elitaria fra« religiosità di virtuosi » e religiosità di massa. (nelle sette ascetiche del calvinismo: puritanesimo, precisismo, metodismo, etc.).

Lo studioso di Weber W. Schluchter, ricollegandosi alla distinzione di Troeltsch tra Chiesa e Setta, ha sviluppato fino in fondo le conseguenze comportamentali (etiche) di questo particolarismo della Grazia di cui è campione il «calvinismo di setta».

L’isolamento interiore dell’individuo e la concezione del prossimo come altro neutralizzato o oggettivato in legami di azione strategica (di agire razionale strumentale) ne costituiscono le conseguenze più appariscenti.

Dice Schluchter: « Il protestantesimo ascetico formula quindi per il laico un ‘etica religiosa dei virtuosi, che appare disumana dal punto di vista del cattolico normale….Il suo individualismo assoluto non riconduce alla comunità di amore divino proto-cristiano. Esso ammette sì l’idea della figliolanza divina, ma non quella della comunità divina. L’etica religiosa del protestantesimo ascetico è quindi un ‘etica monologica della convinzione avente conseguenze antifraterne. Proprio qui ne scorgo il potenziale di sviluppo»

Questo potenziale di sviluppo non è per Schluchter una generale razionalizzazione etica della vita ma quella specifica oggettivazione delle relazioni interpersonali (loro «reificazione») necessaria affinché l’imprenditore capitalistico possa agire in un campo, neutralizzato dal punto di vista etico, sistematicamente in modo razionale strumentale, con atteggiamento oggettivante.

L’oggettivazione o oggettualizzazione delle relazioni interpersonali è considerata tanto da Weber che da Schluchter l’unica via possibile per un distacco razionale dai costumi di vita tradizionali e convenzionali.

Schluchter prosegue nel suo ragionamento: «L’etica del protestantesimo ascetico non pone solo, come in ultima analisi tutti i filoni coerentemente cristiani delle religioni di redenzione, la relazione del singolo con Dio al di sopra delle sue relazioni con gli uomini; essa conferisce altresì a tali relazioni un nuovo significato nel fatto che essa non le interpreta più sulla base di concetti di pietas. Essa crea in tal modo una motivazione per oggettivare(reificare) le relazioni interumane anzitutto nel ambito religioso e poi negli altri ambiti».

Perché questa oggettivazione, svalutante tutte le norme tradizionali quali mere convenzioni, si affermi, deve essere distrutto il fondamento di legittimazione della pietas.

Vediamo l’argomentazione weberiana in merito nel dettaglio : per Weber l’etica cristiana della fratellanza è la forma esemplare di un etica della convinzione (o intenzione) razionalizzata (di un ‘agire razionale rispetto al valore) . I tratti di un’etica religiosa della fratellanza emersa dalla «nuova comunità sociale » di «una religiosità comunitaria soteriologica o redentiva» creata da profezie, e portata avanti con la massima coerenza, consistevano nel rafforzamento dei comandamenti nati dall’etica della reciprocità propria del gruppo di vicinato(con il comunismo fraterno nei rapporti esteriori, o con il sentimento della charitas nelle dinamiche interiori; con l’amore per il sofferente, con l’amore per il prossimo, per l’umanità e infine con l’amore per il nemico) . Questi tratti dell’etica della fratellanza si tradurrebbero in un sistema di etica razionale della convinzione (o intenzione) attraverso una formulazione universalistica dei principi morali, attraverso la forma di autocontrollo dell’io resosi autonomo, attraverso orientamenti di valore interiorizzati e adeguatamente astratti, e infine attraverso una completa reciprocità delle relazioni fra gli appartenenti ad una comunità di comunicazione.

L’intermezzo, titolo della considerazione intermedia del Trattato di sociologia delle religioni, è un unico argomento in sostegno della tesi che questa etica comunicativa della convinzione contrasta nel modo più acuto con gli ordinamenti vitali intramondani ostili alla fratellanza quanto più questi ultimi vengono radicalmente razionalizzati . «Perciò il cosmo della moderna economia capitalistica razionale è diventato, quanto più segue le sue leggi immanenti, inaccessibile a qualsiasi tipo di relazione con un’etica religiosa della fratellanza». Infatti nell’economia come nella politica questo tipo di etica religiosa sarebbe inevitabilmente un ostacolo alla razionalità formale .

L’etica universalistica della fratellanza, nell’accezione di Weber, si scontra con le forme della razionalità economica e giuridico-amministrativa nelle quali l’economia e lo Stato si oggettivano in un cosmo ostile alla fratellanza: «Come l’agire economico e politico razionale segue la sua autonoma legalità, così anche ogni altro agire razionale all’interno del mondo rimane indissolubilmente legato alle condizioni del mondo estranee alla fratellanza, che devono costituire i suoi mezzi e i suoi scopi, ed entra perciò in qualche modo in tensione con l’etica della fratellanza».

Il conflitto strutturale tra etica della fratellanza ed «etica » della non fratellanza si attenua parzialmente solo seguendo due vie alternative: o la mistica cristiana della «fratellanza acosmica» oppure la via dell’ascesi intramondana e quindi «il paradosso dell’etica professionale protestante che, essendo una religiosità di virtuosi (di “ santi eletti”) rinunciava all’universalismo dell’amore, oggettivava razionalmente ogni operare nel mondo intendendolo come servizio al volere di Dio – un volere divino del tutto incomprensibile nel suo senso ultimo, ma tuttavia l’unico positivamente riconoscibile – e come prova del proprio stato di grazia (di elezione alla salvezza eterna), e che accettava quindi, come voluta da Dio e come materia per l’adempimento del proprio dovere, anche l’oggettivazione del cosmo economico, svalutato insieme a tutto il mondo in quanto creaturale e corrotto.

Ciò rappresentava, nel suo fondamento ultimo, la rinuncia di principio a una redenzione come fine raggiungibile per mezzo di uomini e per ogni uomo, in favore della grazia immotivata, ma sempre esclusivamente particolare»(la grazia degli «eletti o illuminati», un ‘attitudine e una convinzione di fondo che potremmo forse ritrovare anche nei cosiddetti « masters of universe», gli attuali «padroni» del mondo, ndr.) . «In verità, questo punto di vista della non-fratellanza non era ormai più una vera e propria religione della redenzione».

Quindi Weber vede l’etica professionale ascetica(condotta metodica e razionale di vita), egocentricamente limitata, una volta inserita nell’ antifratellanza dell’economia capitalistica, come il portato dell’ ‘etica del particolarismo della grazia, che per questa sua conseguenza ricade al di sotto del livello dell”etica cristiana della fratellanza, ricade al di sotto dell’etica comunitaria e «comunicativa» tradizionale della pietas.

L’etica professionale protestante soddisfa condizioni necessarie alla creazione di un corpus di moventi e motivi per processi e azioni razionali strumentali nel mondo del lavoro sociale(della divisione sociale del lavoro). Con tale radicamento in un agire razionale rispetto al valore (in un etica della convinzione o intenzione) di orientamenti di agire razionale strumentale, tale etica, in modo dualistico, soddisfa le condizioni di avvio della società capitalistica: mette in moto il capitalismo, senza però poterne assicurare le condizioni della stabilizzazione interna.

Weber crede che i sotto-sistemi dell’agire razionale strumentale costituiscano per l’etica protestante sul lungo periodo un contesto distruttivo tanto più in quanto essi si dispiegano secondo le leggi autonome scientifico- tecnologiche -industriali della crescita della produzione e dell’ espansione del profitto (incline all’infinito e cioè alla lacaniana «pulsione di morte») del capitalismo e della riproduzione giuridico-giudiziaria del potere politico dello Stato.

La stessa razionalità pratico-morale, che dovrebbe fondarsi sull’etica della convinzione in valori o principi assoluti, non può diventare un ‘istituzione «pedagogica» stabile (né religiosa né laico-filosofica) della società a cui essa dà inizio (nella riforma protestante). Sul lungo periodo l’etica della convinzione pratico-morale protestante viene sostituita da un utilitarismo (predicato nella forma dell’egoismo «benedetto e santificato » dalla mano invisibile regolatrice e conciliatrice degli interessi personali di Adam Smith o dal grado massimo dell’utilità personale di Bentham) grazie a una reinterpretazione empiristica della morale, e cioè alla valorizzazione pseudomorale della razionalità strumentale, che non dispone più di una relazione interna con il mondo dei valori morali.

Come spiega Weber questo modello autodistruttivo della razionalizzazione sociale? Se nell’etica calvinistica, nella sua variante settaria e ascetica, il paradigma della fratellanza era già andato distrutto, è la sua generica contrapposizione di razionalizzazione della religione della redenzione agli ordinamenti vitali scientificamente razionalizzati che decide del suo destino: «La forma moderna della razionalizzazione integrale, a un tempo teorica e pratica, intellettuale e strumentale, dell’immagine del mondo e della condotta di vita ha avuto come conseguenza generale che, quanto più progrediva questo particolare tipo di razionalizzazione, tanto più la religione veniva trasferita a sua volta nell’irrazionale – considerato dal punto di vista della formazione intellettuale dell’immagine del mondo».

In maniera ancora più accentuata nell’Intermezzo : « Il conoscere razionale, al quale aveva fatto appello la stessa religiosità etica, elaborava – seguendo in maniera autonoma e intra-mondana le sue proprie norme – un cosmo di verità che oramai non aveva più nulla a che fare con i postulati sistematici dell’etica religiosa razionale secondo cui il mondo, essendo un cosmo, avrebbe dovuto corrispondere alle sue esigenze, oppure mostrare un senso qualsiasi; al contrario esso doveva rifiutare in linea di principio questa pretesa. Il cosmo della causalità naturale e il cosmo postulato della causalità della compensazione etica si contrapponevano in un ‘antitesi inconciliabile.

E sebbene la scienza, che creava questo cosmo, non sembrasse in grado di dare una spiegazione sicura dei propri presupposti ultimi, tuttavia essa pretendeva – in nome dell’onestà intellettuale – di essere l’unica forma possibile di considerazione concettuale del mondo . Come tutti i valori culturali, così anche l’intelletto creava un’aristocrazia del possesso razionale della cultura che era indipendente da tutte le qualità etiche personali degli uomini, e perciò non era fraterna».

Weber si limita a fare solo osservazioni occasionali (ma ugualmente esplicite) sul carattere irrazionale della dottrina elettiva della grazia, «il particolarismo della grazia», e del tipo di condotta fondata su di essa. Se questo tema fosse stato posto al centro della sua riflessione allora esso sarebbe diventato un suo principio sistematico. L’etica protestante non è affatto un ‘incarnazione esemplare, bensì distorta e estremamente irrazionale della coscienza morale, la quale coscienza morale si esprime anzitutto nell’etica religiosa della fratellanza.

Con l’etica protestante le strutture di coscienza, che sino a quel momento avevano un referente o significato extraterreno, sono state radicate in alcune classi sociali portatrici del capitalismo. Questa avvenuta istituzionalizzazione (o radicamento in ordinamenti vitali della società) è stata però pagata al prezzo di utilizzare solo alcune delle strutture di coscienza accessibili in linea di principio.

In questo contesto si osserva in particolare il radicarsi di quella figura di un Dio legato al particolarismo della sua grazia, il cui decreto è fondamentalmente imperscrutabile, e che rivela come quella crudele incertezza della grazia dovette rendersi psicologicamente tollerabile attraverso costruzioni ausiliari manifeste(il perseguimento del successo nel operare mondano).

La selezione di alcune strutture della coscienza morale e non di altre, si rivela nel calvinista sia nei tratti repressivi della socializzazione religiosa, sia nel totale isolamento interiore del virtuoso religioso – che persino all’interno della propria comunità, si orienta ad un atteggiamento strumentale nei confronti dell’«altro» – oppure nella rigidità del controllo delle pulsioni (della struttura passionale – desiderante- inconscia del soggetto attraverso l’imposizione di un SuperIo onnipotente, si sarebbe potuto dire freudianamente) che esclude un rapporto libero dell’individuo con la propria natura.

Weber nella sua trattazione mette in risalto questi aspetti sgradevoli e sintomatici (psicanalitici) della condotta metodico-razionale di vita calvinista(la furia iconoclastica della distruzione delle immagini del divino nelle chiese riformate precedentemente adibite al culto cattolico, o la totale nudità dei nuovi edifici di culto, facevano parte della lotta alla natura «magica e pagana delle immagini religiose del mondo » così come ai sacramenti del rito cattolico, nell’accezione protestante, ndr.).

Una serie di domande sorge a questo punto spontanea: 1) La condotta di vita metodica dei gruppi protestanti analizzati da Weber ha forse conquistato la sua importanza storica solo perchè essi hanno realizzato un modello di moralità post tradizionale (razionalizzata o sistematizzata) che era funzionale (ossia incontrava e si accordava bene) con l’orientamento dell’impresa capitalistica? .2)L’instabilità di questi gruppi osservata da Weber non è forse attribuibile al fatto che lo sviluppo capitalistico ammette orientamenti di azione post-tradizionali (cioè razionalizzata) solo in forma limitata? Cioè per il fatto che esso favorisce un modello di razionalizzazione in cui la razionalità strumentale e cognitiva (scientificizzata) esonda dai suoi campi dell’economia e della politica, per penetrare in altri campi di vita diventando lì dominante, (cioè colonizzando culturalmente le coscienze) a danno della razionalità pratico-morale ed estetico-pratica(favorendo l’affermazione totalitaria della combinazione tra il principio d’identità e il valore di scambio o di strumentalità che s’incarna nel concetto stesso d’individuo, secondo la riflessione di Adorno in Dialettica negativa, ndr.)?.

Weber non ha risposto a questi quesiti anche se essi erano implicati nella sua teoria impostata su due livelli(la razionalizzazione delle sfere culturali, e la loro incarnazione in ordinamenti vitali, la loro razionalizzazione sociale). Le ricerche empiriche (concrete o esperienziali) di Weber sono incentrate direttamente sulla genesi del capitalismo e su come, in questo processo di formazione, gli orientamenti di azione razionale rispetto allo scopo(di razionalità strumentale) poterono diventare istituzioni di fatto. Così immediatamente Weber riferisce la razionalizzazione sociale (la razionalizzazione pratica) all’agire razionale strumentale senza riferire questo processo a quel più ampio orizzonte della razionalizzazione che storicamente e strutturalmente essa avrebbe potuto seguire.

In questo solco si colloca anche la riflessione di Weber sulla razionalizzazione del diritto nell’epoca moderna occidentale: Weber osserva che la razionalizzazione del diritto sembra consentire l’istituzionalizzazione dell’agire economico e politico-amministrativo razional-strumentale e allo stesso tempo il distacco dei sottosistemi di agire razionale strumentale dai loro fondamenti pratico- morali.

La condotta metodica di vita, tanto nelle relazioni parentali quanto nella vita professionale, è considerata un ‘incarnazione di strutture della coscienza pratico- morale, ma l’etica professionale retta da principi resta operante solo finché è collocata in un contesto religioso.

Per Weber la dialettica o il paradosso dello sviluppo della scienza e della religione deve offrire la fondazione empirica del fatto che gli orientamenti etici di azione(e cioè i modelli di agire razionale rispetto al valore o intenzione), a seguito del sovvertimento delle certezze di fede religiosa, non possono essere più riprodotti in modo attendibile.

Per la sua sociologia del diritto (trattata tanto nell’Intermezzo che in Economia e società) però Weber addotta una strategia differente da quella utilizzata per le sue indagini di sociologia delle religioni. Mentre per l’etica protestante egli indica i motivi per cui non si può giungere a un ‘istituzionalizzazione duratura delle strutture della coscienza pratico- morale, Weber reinterpreta il diritto moderno come staccato dalla sfera di ogni agire razionale rispetto al valore, da ogni etica della convinzione, e lo fa apparire fin dal principio come un ‘incarnazione o materializzazione in istituzioni di un ‘agire razionale strumentale-cognitivo.

Collegato a questa trattazione del diritto moderno è la doppia natura di diagnosi epocale del presente sviluppata da Weber nell’Intermezzo .

Weber porta avanti nell’Intermezzo la sua diagnosi epocale del presente attenendosi in modo rigoroso alla teoria per cui la modernizzazione si configura come una prosecuzione del processo storico-universale di disincantamento. Le due linee di tendenza seguite da Weber in modo unitario per sviluppare la sua critica del presente, sono, come abbiamo visto, la differenziazione di sfere autonome di valore culturali, rilevante per la genesi del capitalismo,da una parte, e il rendersi autonomi dei sottosistemi di agire razionale rispetto allo scopo (la razionalità strumentale dei sottosistemi sociali) che caratterizza il dispiegarsi della società capitalistica a partire dal tardo XVIII ° secolo, dall’altra parte .

La differenziazione di sfere di valore culturali rende consapevoli della loro autonoma e interna legalità. Ciò ha conseguenze paradossali o dialettiche, secondo Weber. Da un lato solo grazie a tale differenziazione diventa possibile razionalizzare sistemi simbolici secondo differenti criteri di valori astratti (la verità scientifica o la verità filosofica; la giustizia delle leggi o la bontà delle regole etiche ; la bellezza oggettiva o l’espressività autentica e la creatività soggettiva) .

Dall’altro lato però in questo modo si disgrega l’unità fondatrice di senso di immagini metafisico-religiose del mondo.

La diagnosi epocale di Weber sul destino della razionalizzazione della modernità occidentale (potremmo dire la sua previsione di «dialettica dell’illuminismo») sulla base del differenziarsi di sfere autonome di valore culturali è la seguente: la modernità occidentale è dominata da ordinamenti vitali (i sottosistemi sociali dell’economia di mercato e delle istituzioni politiche dello Stato moderno) in cui giungono a dominare le sfere della razionalità cognitivo-strumentale e della razionalità estetico-pratica, rispetto alla sfera della razionalità pratico-morale, istituendo, secondo una «divisione sociale del lavoro», un «dominio mondiale della non fratellanza». Guardando alla nostra contemporaneità potremmo dire che nel tempo intercorso dalla diagnosi di Weber questo dominio sia progressivamente giunto a una nuova fusione da tale «divisione sociale del lavoro»: in termini freudiani-lacaniani si potrebbe parlare dell’affermazione della legge unitaria della jouissance o pulsione di morte(sintesi tra Super-Io ed Es) .

Ma vediamo più nel dettaglio le due sfere della razionalizzazione che hanno portato a questo esito secondo Weber.

La «razionalità cognitivo-strumentale », che si istituzionalizza nell’impresa scientifica, e nei sottosistemi sociali dell’impresa economica capitalistica e delle istituzioni politiche dello Stato, oggettiva il mondo in senso cognitivo-strumentale e impone su di esso il dominio della razionalità strumentale sia attraverso la proceduralità tecnico-scientifica che attraverso le leggi dell’economia di mercato, dalla cui fusione tra identità formale, logico-matematica, e la legge economica del valore di scambio, prende già fisionomia il concetto «eroico » dell’identità individuale alla Von Hayek( una sorta di prefigurazione della fusione tra uomo-macchina e uomo -merce?).

Da parte sua «la razionalità estetico-pratica » si istituzionalizza a sua volta nell’impresa artistica, ma, nel giudizio di Weber, l’arte autonoma esercita un effetto complessivo sulla struttura della società altrettanto scarso quanto quello delle instabili controculture intellettuali che orbitano intorno a questo sottosistema. I valori extraquotidiani di questa sfera rappresentano piuttosto il fuoco di uno stile di vita edonistico finalizzato a una redenzione o liberazione intramondana proprio di un’ umanità «gaudente» (proprio della jouissance o «godimento puro», direbbe Lacan) che reagisce alla «pressione (alla legge del Superio sociale, nell’accezione di Freud) del razionalismo teorico e pratico» (scientifico e giuridico- economico) dell’ «umanità professionalizzata instauratasi nella scienza, nell’economia e nello Stato»(potremmo parlare in Weber dei prodromi dell’intuizione del costituirsi della sfera culturale in «industria culturale», per dirla con Adorno, ndr.) .

Di fronte a un siffatto mondo non hanno possibilità di affermarsi le concezioni morali che aspirano a un’autonomia radicata nella conciliazione affratellante. L’etica della fratellanza non trova un supporto nelle istituzioni attraverso le quali potrebbe riprodursi culturalmente sul lungo periodo. Ma su la questione della perdita di senso della visione del mondo (sull’«avvento del nichilismo» nelle parole di Niezschte) in seguito a questi processi di razionalizzazione moderna, Weber compie un ulteriore riflessione che investe lo stesso campo della razionalità pratico-morale (il campo dell’etica religiosa e della filosofia del diritto moderno).

Non solo l’etica religiosa della fratellanza, osserva Weber, ma anche quella forma di etica che si adegua «alla mancanza di amore del cosmo economico oggettivato», l’etica protestante, viene stritolata sul lungo periodo fra le macine degli altri due complessi di razionalità(sostituita a livello dell’ elaborazione teorica in economia dall’affermazione «salvifica » del mondo e della società del puro perseguimento egoistico e utilitaristico dei propri interessi affaristici – Smith, Bentham– e dell’assunzione, nelle scienze sociali, del modello evoluzionista delle specie viventi – Il darwinismo applicato alla società umana da Spencer – in nome della presunta legge «naturale » di autoconservazione dell’individuo e della prosecuzione della specie).

Sebbene tale etica «del particolarismo della grazia» si affermi a livello d’istituzioni nella cultura professionale protestante a un punto tale che si creano le condizioni per il decollo della modernizzazione, tuttavia questi stessi processi di modernizzazione sovvertono con un’ azione a ritroso i fondamenti – che si trovano in un agire razionale rispetto al valore– dell’agire razionale strumentale.

Secondo la diagnosi weberiana i fondamenti, legati all’etica della convinzione, dell’indirizzo professionale, vengono spazzati via a favore di una condotta lavorativa strumentale utilitaristica (egoismo, utilitarismo e evoluzionismo «naturale » dell’etica economica e sociale). Questo perchè gli orientamenti di etica della convizione dell’agire professionale, in seguito al sovvertimento delle certezze di fede religiosa, implicito negli stessi principi dottrinari del «particolarismo della grazia », dell’oscura predestinazione alla salvezza dell’individuo nel calvinismo ascetico, non riescono più ad essere modelli vincolanti.

Rimane alla fine inappagato il bisogno proprio del sentimento e spirito religioso che è stato il motore di tutte le forme di razionalizzazione : l’esigenza che «il corso del mondo almeno per quanto tocca gli interessi degli uomini, sia un processo in qualche modo fornito di senso ». Il paradosso della razionalizzazione sociale è dato dall’esperienza «della mancanza di senso del processo di autoperfezionamento puramente intramondano verso l’uomo civile(verso la civilizzazione o civiltà),ossia del valore ultimo a cui sembrava riducibile la cultura».

Dunque per Weber il fondamento vero e proprio della dialettica della razionalizzazione occidentale moderna(la «dialettica dell’illuminismo » nell’accezione di Horkheimer e Adorno) è dato già in quella differenziazione delle legalità interne delle sfere di valore culturali: quella stessa differenziazione che rese possibile la razionalizzazione del mondo ha in sé il germe o principio originario della sua distruzione.

Ma la diagnosi epocale sul destino della modernità presenta in Weber anche un ‘altra faccia, legata all’evoluzione del sistema del diritto moderno. Il processo di razionalizzazione si mostra così come un Giano bifronte, legato sia a un destino di perdita del senso(dell’avvento del nichilismo) sia a un destino di perdita di libertà(nella gabbia d’acciaio dei sottosistemi di razionalità strumentale dell’economia, della burocrazia– la divisione sociale degli uffici o compiti – e del sistema giuridico-politico).

La perdita di senso si collega in Weber alla perdita dell’ unità del mondo vitale del soggetto. perdita data dal nascere di rapporti di concorrenza tra le sfere di valore resesi autonome, rapporti non più conciliabili dalla prospettiva onnicomprensiva di un ordinamento del mondo divino o cosmologico.

Non appena gli ordinamenti vitali dei sottosistemi sociali(economici, giuridico-politici, culturali) si fissano intorno alle idee ultime delle rispettive sfere di valore culturale, queste sfere di vita «entrano in quelle tensioni reciproche ….che rimangono celate all’originaria spontaneità della relazione con il mondo esterno». (M. Weber, Trattato di sociologia delle religioni).

Nella misura in cui la legalità autonoma delle sfere di valore culturale si tramuta nelle strutture sociali di sfere di vita corrispondentemente differenziate, quello che sul piano culturale è una differenza tra richieste o istanze di valori, sul piano della società diventa o può trasformarsi in tensioni tra orientamenti di azione (di agire razionale strumentale) trasformati in istituzioni, e cioè in conflitti di azione.

Un individuo agente può infatti assumere atteggiamenti di fondo contrastanti di volta in volta rispetto allo stesso campo di realtà. Ad es. di fronte alla natura l’individuo può avere un atteggiamento oggettivante, scientifico oppure «simpatetico», espressivo, poetico ; di fronte alla società può assumere un atteggiamento conforme alle norme, oppure oggettivante; di fronte alla natura soggettiva interiore può avere un atteggiamento espressivo/ creativo ma anche uno conforme alle norme(conformista). Queste possibilità alternative di atteggiamento di fondo del soggetto agente sono determinate dai differenti gradi o modelli di libertà che egli sviluppa nella sua coscienza. Ma questi stessi differenti gradi di libertà possono però diventare causa di conflitti non appena le diverse sfere di valori culturali penetrano allo stesso tempo all’interno nei medesimi ordinamenti vitali o sottosistemi sociali di azione o campi istituzionalizzati, in modo che nello stesso luogo processi di razionalizzazione di tipo diverso entrano in reciproca concorrenza.

Weber ammonisce sul fatto che gli orientamenti di azione cognitivo-strumentali(scientifico-tecnologici e i sottosistemi del capitalismo e del potere politico), pratico-morali e estetico-espressivi, non debbano autonomizzarsi in ordinamenti vitali antagonistici in modo tale da soverchiare la capacità media d’integrazione da parte della personalità del soggetto, provocando in lui conflitti permanenti fra stili di vita.

Come può essere garantita questa composizione unitaria del mondo vitale del soggetto, nella molteplicità e differenziazione esistente nelle situazioni di azione sociale? (che per il filosofo Adorno sarà un’atomizzazione o scissione in mille frantumi dell’autocoscienza dell’individuo moderno e contemporaneo) . In un rapido excursus Weber passa in rassegna i modi in cui tale integrazione è stata tentata nella storia delle civiltà umane: innanzitutto con i mezzi di un ‘interpretazione mitica nelle società tribali arcaiche, in cui ogni sfera di valori e di ordinamenti di vita viene rappresentata da una propria potenza originaria che comunica con tutte le altre potenze; poi con il politeismo che consente di personificare la concorrenza tra i problemi della vita come lotta fra gli dei proiettandola nel cielo .

Quando si sviluppano le grandi civiltà (impero persiano, egiziano, indiano, cinese, macedone, etc.) la società si differenzia in gruppi professionali e strati sociali e questo comporta la necessità che la garanzia dell’unità del mondo vitale venga assicurata da immagini teologico-metafisiche del mondo, non potendo più farlo le interpretazioni mitiche. E le immagini religioso-metafisiche svolgono quella funzione tanto più quanto più sono razionalizzate(sistematizzate ossia organizzate in modo coerente e deduttivo).

Ma proprio questa capacità integrativa del mondo vitale viene messa in crisi dalla differenziazione moderna delle sfere di valore culturali. Nel livello o grado in cui la razionalizzazione delle immagini del mondo produce da sé le strutture formalmente autonomizzatesi della coscienza moderna, queste si disgregano nella loro qualità d’immagini del mondo.

Possiamo leggere il potente passo su questo passaggio epocale dalla conferenza Il Lavoro intellettuale come professione dello stesso Weber:

«Il grandioso razionalismo della condotta della vita secondo un ‘etica metodica, che sgorga da ogni profezia religiosa, aveva detronizzato questo politeismo a favore dell’Uno che è necessario; e poi di fronte alla realtà della vita interiore ed esteriore, si è visto costretto a scendere a quei compromessi e a quelle relativizzazioni che tutti conosciamo dalla storia del cristianesimo. Ma ciò è oggi una realtà quotidiana per la religione . Gli antichi dei, spogliati del loro fascino e perciò ridotti a potenze impersonali («potenze formali») si levano dalle loro tombe, aspirano a dominare sulla nostra vita e riprendono quindi la loro eterna contesa.

Ma ciò che per l’uomo moderno è appunto tanto difficile e sommamente difficile per la giovane generazione, è il sapere far fronte a siffatta realtà quotidiana. Tutto quell’affannarsi in cerca dell’esperienza vissuta deriva da questa debolezza . Giacché è una debolezza non saper tenere levato lo sguardo al volto severo del destino dei tempi».

Le immagini religiose del mondo razionalizzate in senso etico, così come le immagini metafisiche del mondo razionalizzate in senso scientifico (gnoseologico-cognitivo), avevano ancora tenuto coesi nei loro principi (Dio per le immagini religiose, la natura e la ragione o autocoscienza soggettiva assoluta, per le immagini scientifico-metafisiche) i tre aspetti dai quali il mondo era stato di volta in volta reso accessibile all’elaborazione razionale : il mondo oggettivo, il mondo sociale e il mondo soggettivo.

Tali immagini perciò erano state capaci d’imprimere un senso unificante alle condotte di vita ispirate a quelle immagini. Weber, nell’ Intermezzo (del Trattato di sociologia delle Religioni) e nella conferenza Il lavoro intellettuale come professione, elabora le due tesi connesse secondo le quali, a fronte della legalità razionale degli ordinamenti vitali moderni (nel rendersi del sistema dell’economia di mercato, della amministrazione burocratica statale e del diritto razionale moderno, dei sistemi coerenti autoreferenziali) , tanto l’unificazione etica del mondo nel nome di una fede soggettivata quanto l’unificazione teorica del medesimo nel nome della scienza sono diventate entrambe assolutamente irrealizzabili.

Weber vede l’emblema della nostra epoca nel ritorno di un politeismo nel quale però la lotta tra gli dei assume la forma depersonificata, oggettivata, di un antagonismo tra ordinamenti di valore e di vita inconciliabili . Il mondo razionalizzato è diventato privo di senso(nichilista) «in quanto tra i diversi valori che presiedono all’ordinamento del mondo il contrasto è inconciliabile. Il vecchio Mill dice in qualche luogo che partendo dalla pura esperienza si giunge al politeismo . La formula è superficiale e sembra un paradosso, tuttavia contiene un nocciolo di verità. Di questo, se non altro, oggi siamo certi ; che qualcosa può essere sacro non solo anche senza essere bello, bensì perché e in quanto non è bello; che qualcosa può essere bello non solo anche senza essere buono, bensì in quanto non è tale, come abbiamo imparato da Nietzsche e anche prima lo abbiamo trovato illustrato nei Fleurs du mal, come chiamò Baudelaire il suo volume di poesie ; ed è infine una verità di tutti i giorni che qualcosa può essere vero, sebbene e in quanto non sia bello, né sacro, né buono.

Ma questi sono soltanto gli esempi più elementari di tale conflitto tra gli dei che presiedono ai singoli ordinamenti e valori… Mutato soltanto l’aspetto, avviene come nel mondo antico, ancora sotto l’incanto dei suoi dei e dei suoi demoni: come i Greci sacrificavano ora ad Afrodite e ora ad Apollo, e ciascuno in particolare agli dei della propria città, così è ancor oggi, senza l’incantesimo e l’ammanto di quella trasfigurazione plastica, mitica ma intimamente vera. Su questi dei e sulle loro lotte domina il destino, non certo la scienza».

Nella formula del «nuovo politeismo» Weber enuncia la tesi della perdita di senso (del nichilismo enfatizzato da Nietzsche) e accanto ad essa anche quella della perdita della libertà individuale.

Tale teoria trova la sua fondazione in una dialettica del processo storico (in una «dialettica dell’illuminismo») che sarebbe già implicita nel processo di disincantamento della storia delle religioni, e cioè nello sprigionarsi delle strutture della coscienza moderna: la ragione stessa si scinde in una pluralità di sfere di valore resesi autonome e autoreferenziali, e così facendo distrugge la propria universalità . Secondo Weber l’assunzione di consapevolezza del destino di perdita di senso(«destino nichilistico») del processo della modernità dovrebbe spingere, a livello esistenziale, il singolo, affinché istituisca ora, nella privatezza della propria vita individuale, con il coraggio della disperazione, con l’assurda speranza dei senza speranza, quell’unità che non più essere istituita negli ordinamenti della società.

La razionalità pratica(la legge morale), che congiunge e fonda in modo razionale rispetto al valore gli orientamenti di azione razionale strumentale(o procedurale-formale) , può trovare la sua collocazione, se non nel carisma di nuovi capi, soltanto nella personalità dell’individuo solitario. Ma allo stesso tempo, questa autonomia interiore che va affermata in modo eroico, è minacciata nella sua libertà individuale(da qui la congiunta tesi della perdita di libertà), perché all’interno della società moderna non si trova più alcun ordinamento legittimo che possa garantire la riproduzione culturale dei corrispondenti orientamenti di valore e disposizioni all’azione.(Weber evidentemente non crede che possano farsi interprete di un tale ordinamento legittimo una società e uno Stato socialisti.)

Il celebre passo in cui Weber deduce che, dalla perdita di senso unitario dei processi della modernità derivi il fatto che i sottosistemi sociali di azione razionale strumentale(l’economia capitalistica di mercato, l’amministrazione burocratica dello Stato e il sistema razionale del diritto) inevitabilmente si rendano autonomi e autoreferenziali, e minaccino la perdita della libertà individuale, è il seguente:

« Uno degli elementi costitutivi dello spirito capitalistico moderno (e della civiltà moderna) ossia la condotta razionale della vita sul fondamento dell’idea di professione, è nato …. dallo spirito dell’ascesi cristiana….Quando infatti l’ascesi fu trasferita dalle celle dei monaci alla vita professionale e cominciò a dominare l’eticità intra-mondana, essa cooperò per la sua parte all’edificazione di quel possente cosmo dell’ordinamento economico moderno, legato ai presupposti economici e tecnici della produzione meccanica, che oggi determina con strapotente forza coercitiva – e forse continuerà a determinare fino a quando non sarà bruciato l’ultimo quintale di combustibile fossile – lo stile di vita di tutti gli individui nati in questo ingranaggio, e non soltanto di quelli direttamente attivi nell’acquisizione economica.

Secondo l’opinione di Richard Baxter, la cura per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle dei suoi santi soltanto come un “ sottile mantello che si possa gettare via in ogni momento”.Ma il destino fece del mantello una gabbia d’acciaio. Mentre l’ascesi (dell’etica protestante, ndr,) intraprendeva lo sforzo di trasformare il mondo e di esercitare la sua influenza nel mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistavano un potere crescente, e alla fine, ineluttabile sull’uomo, come mai prima nella storia . Oggi il suo spirito – chissà se per sempre – è fuggito da questa gabbia . In ogni caso il capitalismo vittorioso, da quando si fonda su una base meccanica, non ha più bisogno di questo sostegno….

Nessuno sa chi in futuro abiterà in quella gabbia e se, alla fine di questo enorme sviluppo, vi saranno profeti interamente nuovi o una potente rinascita di principi e di ideali antichi, oppure ancora – escludendo l’una e l’altra alternativa – una pietrificazione meccanizzata, adornata di una specie di convulso desiderio di sentirsi importante. Allora, certo, per gli ultimi uomini di questo sviluppo culturale potrebbe diventare verità il principio: “specialisti” senza spirito, gaudenti senza cuore – questo nulla s’immagina di essere salito a un grado mai prima raggiunto di umanità».

Qui Weber ribadisce con forza evocativa come, attraverso l’etica professionale protestante e lo sviluppo del diritto moderno, la razionalità cognitivo-strumentale venga istituzionalizzata nell’economia e nello Stato, decidendo il destino di reificazione di questi sistemi settoriali in una gabbia d’acciaio onnipervasiva. La tesi della perdita di libertà non sarebbe in Weber una semplice constatazione empirica, in base all’osservazione concreta di una tendenza a produrre conseguenze collaterali disfunzionali della burocratizzazione che penetra tutto(di un abuso della divisione sociale del lavoro, della sua iperspecializzazione o «tecnologizzazione») , ma sia deducibile a livello di teoria dalla prima tesi della perdita di una visione o di un senso unitario della realtà.

All’osservazione che fa Weber della crescita inevitabile e necessaria del sistema del diritto moderno in parallelo alla crescita del sistema economico e del sistema amministrativo-burocratico sempre più complesso, segue la sua deduzione che la sistematizzazione del diritto è sempre più indispensabile man mano che si esauriscono le fonti morali(religiose o metafisiche razionali) che nutrono di motivazioni il sistema.

Egli vede, di conseguenza allo sviluppo di questo processo, l’attenuarsi delle analogie di struttura esistenti tra l’evoluzione della morale e la razionalizzazione del diritto. Per lui il diritto si presenta come una sfera che, come i processi materiali economici o la lotta politica per il potere legale(la propaganda, le campagne elettorali, l’ascesa al potere legislativo ed esecutivo), è predisposto alla razionalizzazione formale (procedurale- strumentale).

La riconduzione che Weber fa della razionalizzazione dell’ordinamento giuridico, esclusivamente al modello di razionalità strumentale, analogamente all’ordinamento dell’economia e del potere politico, implica che vi sia, o vi possa essere, un legame interno tra il criterio astratto del valore del diritto(il valore «metagiuridico» della giustizia delle norme o leggi) e valori o contenuti materiali particolaristici, quali la ricchezza o il potere.

Scomparirebbe così, il legame interno ai postulati delle tre sfere culturali individuate da Weber all’origine della modernità, e questo modello sarebbe sostituito dalla comparizione di una serie di valori particolari, tra di loro incompatibili e costitutivamente irrazionali –verità, bellezza, ricchezza, salute, diritto, potere, santità, etc.– i cui conflitti sono irrisolvibili con argomentazioni razionali («l ‘eterna contesa tra gli dei»).

Per questo insieme di valori particolari (un insieme di scopi non sottoponibili a giudizio critico sulla loro validità universale) l’unico procedimento razionale possibile sarebbe quello di un agire razionale rispetto allo scopo o razionale strumentale, unicamente una relazione razionale fine-mezzi. Nel campo della giurisprudenza, date determinate regole o norme giuridiche positive, se si vuole raggiungere un dato scopo, la regola giuridica obbligatoria da applicare è quella determinata, e non un’altra. Il giurista che applica il codice non si interroga più se il diritto debba basarsi proprio su quelle regole(se quelle regole siano «giuste» oppure no) ma sotto quale legge data, legge positiva, rientri il caso in questione. Weber pare concepire il diritto sistematizzato moderno unicamente sotto la forma di un sistema normativo positivo, sulla base di un pensiero giuridico in parte cogentemente logico e in parte basato su convenzioni.

In questo modello la derivazione del diritto razionale dalle fonti della razionalità morale si perderebbe lungo la strada della sua formalizzazione e specializzazione nei campi del diritto privato, pubblico, penale e civile . Si perderebbe cioè l’orizzonte di legittimazione del diritto in una fonte giuridica primaria del diritto, nel diritto fondato sulla costituzione, sui diritti e doveri universali dell”«uomo» e del «cittadino », ossia su principi «metagiuridici».

Di conseguenza il diritto moderno positivo «allungherebbe» la via della sua legittimazione in principi metagiuridici(antropologico-filosofici) espressi dalle carte dei diritti dell’uomo e del cittadino, riversati poi nelle Costituzioni scritte delle democrazie liberali, fino al punto di rischiare di perdere l’orizzonte di tali fondamenti costituzionali, di tali principi, di perderli dietro la «giungla giuridica » dei differenti campi giuridici e dei loro codici.

Una tale visione è quella che compare davanti ai profani o non professionisti del diritto,al cittadino comune, della continua legiferazione di diritto positivo. Una giungla giuridica che induce l’utente del diritto a credere nella legittimità dei singoli decreti o leggi promulgate e applicate dalle autorità costituite, sulla base di un mero principio di autorità scambiato per legittimità e autorevolezza, senza neanche chiedersi se quelle leggi e la loro applicazione rientrino nell’orizzonte dei diritti metagiuridici dell’uomo e del cittadino, dei diritti costituzionali.

L’orizzonte metagiuridico in questione si origina nel pensiero jusnaturalista, il pensiero del diritto naturale razionale per cui gli uomini naturalmente si accordano tra di loro per costituire un patto o contratto sociale e politico, che gli garantisca la possibilità di usufruire dei fondamentali diritti di libertà innati all’essere umano :l’ inviolabilità della propria persona fisica e morale (l’habeas corpus), la libertà di opinione, di espressione, di riunione, di associazione, etc., a cui le moderne costituzioni occidentali (tra cui la nostra) hanno aggiunto un ulteriore corpus relativo ai diritti al lavoro e sul lavoro, alla risoluzione delle controversie internazionali senza l’uso di strumenti bellici, etc.

Weber manifesta un radicale scetticismo sulla possibilità che tale legame con i fondamenti metagiuridici possa essere conservati sul lungo periodo, e ciò proprio a causa del continuo sviluppo del diritto positivo, e paventa invece la possibilità che il principio di legalità si sovverta in un principio di illegittimità costituzionale, nel momento cui si affida unicamente a un modello di agire razionale strumentale, basato unicamente sul rapporto-fine-mezzi(dato quell’articolo di legge, questa è la procedura formale per la sua applicazione).

Come avverrebbe per Weber tale percorso «involutivo» del diritto moderno?

Se il corpus complessivo del diritto deve mantenere questa cinghia di trasmissione tra fondamenti metagiuridici o costituzionali e elaborazione dei differenti codici e istituti specialistici del diritto, questa conservazione deve da una parte prevedere che alla fonte primaria del diritto vi sia l’idea di un libero accordo discorsivo tra i contraenti il patto sociale, accordo guidato da un modello di agire razionale rispetto ai valori.

Ma, viceversa e a sua volta, perché questo modello di agire razionale rispetto al valore, affermatosi come dottrina dei diritti naturali universali o razionali dell’uomo e del cittadino, possa trasformarsi in un corpus o sistema di leggi, in un insieme di codici di diritto positivo, cioè vincolante e coercitivo, (diritto pubblico, civile, privato e penale) deve esso stesso diventare riflessivo, cioè analitico e critico dei suoi stessi principi. Il radicamento del diritto positivo moderno si trasferisce dai principi metagiuridici a principi giuridici (dei diversi codici). In questo passaggio il corpus del diritto diventa autonomo restando però allo stesso tempo riferito a nessi metagiuridici o antropologici-filosofici, (per cui i principi del diritto positivo restano ipotetici, cioè riformabili in qualsiasi momento).

Questa, che Weber chiama, la «via lunga della razionalizzazione del diritto», vede allo stesso tempo la elaborazione differenziata in campi specialistici del diritto e un’elaborazione in concetti dei fondamenti metagiuridici del diritto( carta costituzionale degli articoli dei diritti e dei doveri, e delle istituzioni politiche dello Stato). Così il corpus del diritto moderno è a un tempo posto su una base di principi «settoriali» e una base metagiuridica (o antropologico-filosofica).

Tali strutture del diritto rimangono dunque sospese tra la necessità di sviluppare procedure formali funzionali all’economia, alla società e alla burocrazia, ossia una generalizzazione dell’agire razionale strumentale, e l’altra necessità di non perdere la loro derivazione dai fondamenti metagiuridici o d’«idealismo giuridico».

Tale idealismo giuridico è il prodotto delle strutture di una coscienza post-tradizionale, di una coscienza morale emancipata dai vincoli tradizionali, ossia dotata di un costitutivo pensiero critico sulle leggi e sul diritto in generale. Essa inoltre deve potere concepire l’ideale di un contratto sociale che contempli l’accordo razionale tra soggetti in linea di principio liberi ed eguali su idee vincolanti sul piano normativo. Infine su queste stesse basi tale coscienza morale deve essere capace di sostenere l’idea «metagiuridica», il «tratto mancante» che unifichi universalità e fondatezza delle norme giuridiche, e il tratto mancante non può che essere il concetto di «persona giuridica astratta» soggetto fondativo del diritto stesso (nel jusnaturalismo il concetto religioso, cristiano di persona, permane come «il fine in sé», non più la «maschera» scrigno dell’anima immortale, ma del soggetto riflessivo o autocosciente o del cittadino ossia essere comunitario).

L’istituzione di un sistema di diritto positivo separa da sé, dalla propria operatività, o sposta in altra sede i problemi dei fondamenti o principi costitutivi (diritto costituzionale) e quindi alleggerisce in modo ampio l’applicazione tecnica del diritto (degli articoli dei codici di diritto specialistici) da problemi di fondazione.

Nell’interpretazione e diagnosi sullo sviluppo moderno del diritto, Weber vede questo spostamento e alleggerimento del corpus del diritto dai suoi fondamenti costituzionali, come se inevitabilmente le proprietà strutturali e formalistiche di un diritto specialistico – positività, legalità e formalità – portino al danneggiamento e all’offuscamento della necessità di fondazione. Con questo orientamento Weber assimila il diritto a uno strumento organizzativo di agire razionale strumentale e stacca la razionalizzazione del diritto dalla sfera di razionalità pratico- morale (rispetto al valore) e la riduce a una mera razionalizzazione delle relazioni fine- mezzi.

Questo esito a suo avviso inevitabile della razionalizzazione del diritto è rintracciabile, secondo Weber, seguendo tre linee d’indagine: 1) l’interpretazione del diritto naturale razionale; 2) l’equiparazione positivistica tra legalità e legittimità (ciò che è decretata come legge è anche di per sé legittimo e cioè ha un valore fondamentale) o «credenza nella legalità»;3) la tesi della minaccia che apporta alle proprietà formali del diritto la «razionalizzazione materiale» (economico-politica).

Weber vede nel diritto naturale razionale « il tipo più puro di validità razionale rispetto al valore» citandolo come esempio impressionante dell’efficacia esterna dei legami interiori di valore o validità: «Per quanto sempre limitata essa sia nei confronti delle sue pretese ideali, non si può tuttavia contestare una certa misura di influenza reale dei suoi principi logicamente dedotti sull’agire».

Weber dunque ammette che il diritto razionale si fonda su un principio di fondazione razionale ed è più avanzato nel senso della razionalizzazione pratico-morale rispetto all’etica protestante che è ancora fondata sulla religione (sul rapporto particolaristico tra coscienza soggettiva, guida del comportamento individuale, e Dio). Ciò nonostante Weber non fa rientrare il diritto razionale di per sé nel diritto moderno(istituito positivamente), o per meglio dire dubita che possa conservarsi un saldo legame tra i due modelli.

Su questa premessa Weber costruisce una contrapposizione tra il diritto moderno che si fonda unicamente sul principio della istituzione (codificazione) e il diritto non ancora compiutamente «formale» che poggia su principi di fondazione(pur sempre razionali).

Un dualismo di «ritorno» si determina all’interno della riflessione di Weber sul processo moderno di razionalizzazione del diritto una volta che egli riconfigura tale diritto sotto un concetto positivistico, ed elabora accanto a questo un concetto decisionistico di «legittimità procedurale»( in questo secondo concetto di «legittimità procedurale» forse potrebbe rientrare la legiferazione «extra-ordinaria» degli ultimi governi dello Stato italiano sotto l’impulso dello Stato di eccezione emergenziale sanitario degli ultimi 2 anni, ndr.) . Il dualismo di ritorno del diritto è quello tra un ‘analisi indipendente secondo i valori scientifici e procedurali-strumentali e un altrettanto indipendente orizzonte di razionalizzazione etica.

Ma questo secondo tipo di analisi relativa all’incarnazione in istituzioni della sfera di valori della coscienza pratico- morale può essere non solo accantonata ma addirittura rovesciata nel suo contrario, non appena la razionalizzazione del diritto viene reinterpretata come un problema(cognitivo-procedurale) autonomo e indipendente di organizzazione razionale strumentale dell’agire economico e politico -amministrativo.

Infatti le istituzioni di razionalità pratico- morale(la costituzione scritta e qualcuna delle istituzioni politiche come incarnazioni di tale carta dei diritti e doveri, ad es. magari l’attuale parlamento italiano, ndr.) ora, dal punto di vista della sistematizzazione del diritto, appaiono come fonte d’irrazionalità o comunque come «fattori che attenuano il razionalismo giuridico-formale».

Inevitabilmente il corpus giuridico presenterebbe la «vocazione» alla necessità di dare un fondamento legittimo – di valori universali – al potere legale (produttivo di leggi e attuativo del loro dettato) che assegna di volta in volta tale «patente» ad alcuni valori particolari contingenti ed emergenziali (nell’esempio da noi addotto all’«emergenza» sui valori della salvaguardia e incolumità della vita biologica sulla linea della presunta terribilità del virus respiratorio, del suo contenimento e della sua «terapizzazione » farmacologica), valori particolari che limiterebbero o addirittura annullerebbero l’orizzonte di riferimento dei fondamentali diritti di libertà costituenti il patto socio-politico.

In questa ottica la razionalizzazione materiale (e non semplicemente formale) del diritto, ossia la sua fondazione in principi e valori «meta-giuridici», paradossalmente non significherebbe la sua progressiva eticizzazione, bensì si scontrerebbe e minaccerebbe la distruzione della razionalità cognitiva del diritto. Lo dimostra la seguente considerazione di Weber : «Ma con il sorgere dei moderni problemi di classe si incominciano ad additare al diritto aspirazioni materiali che mettono in dubbio proprio la sufficienza di quei semplici criteri di onestà mercantile e rivendicano la necessità di un diritto sociale fondato su postulati etici di intonazione patetica (come la «giustizia» e la «dignità umana») – e ciò sia da parte degli interessati(specialmente dalla classe lavoratrice) sia dagli ideologi del diritto. Ma ciò mette radicalmente in discussione lo stesso formalismo giuridico».

Così l’evoluzione del diritto viene, nel pensiero di Weber, a far parte della dialettica della razionalizzazione o dell’illuminismo. Il diritto moderno, concepito da Weber come una sfera di evoluzione esclusivamente formalistica, neutrale rispetto al valore, come un agire strategico basato sul rapporto fine-mezzi, viene direttamente connesso ai progressi del sapere cognitivo- strumentale( scientifico-tecnologico) e separato dall’interiore legalità della sfera di valori pratico-morali che governa invece l’etica. Un tale modello di diritto diventa uno strumento adatto per organizzare la «trasposizione» del sapere scientifico-tecnologico nei sottosistemi sociali in cui impera l’agire razionale strumentale : l’economia e la burocrazia politica.

Questo è il senso del concetto weberiano di «gabbia d’acciaio» della razionalità strumentale che determina la previsione di «perdita di libertà» dell’uomo moderno.

Come Weber ritiene che una ragione giuridica puramente formalizzata sia in grado di affermarsi e imporsi come modello di ragion strumentale di fronte all’opinione pubblica dei cittadini? Attraverso alcune proprietà che egli individua come proprie di tale diritto formalistico: 1) l’asserzione dei postulati o leggi generali (massime) dello specifico campo o sfera giuridica(del diritto penale rispetto a quello civile, ad es.); 2) il rapporto professionale, tecnico-giuridico, con le leggi, 3) la riconduzione della legittimità alla legalità, ossia la sostituzione dei problemi di fondazione con quelli procedurali.

Di fronte a questa costituzione articolata del sistema del diritto il «cittadino comune», o colui che dovrebbe essere soggetto-oggetto di tale azione giuridica, il suo «utente», secondo Weber finisce per assumere un atteggiamento simile a coloro che erano soggetti al diritto tradizionale pre-moderno, e cioè alla sua autorità. Per costoro,i «profani» o non tecnici o professionisti del diritto, il diritto si presenta, come osservato in precedenza, come un sistema o «giungla impenetrabile», ma che viene in linea di principio accettato o «creduto» come razionale, cioè dotato di principi legittimi. Per Weber, di conseguenza, la «credenza nella legalità» sostituisce la credenza nella legittimità, e di fatto allunga la via della legittimazione, sgravando l’amministrazione pubblica dall’assillo della legittimazione.

Questo scetticismo radicale di Weber verso ogni potenzialità etica dell’evoluzione del diritto moderno coinvolge anche il suo giudizio su tutti i contromovimenti rivolti contro tale impoverimento e «aridità» del diritto moderno.

In questo ambito rientrano tanto le tendenze verso la reideologizzazione del diritto da «destra» a «sinistra»– il ritorno a un etica comunitaria o tradizionalistica, dalle comunità religiose alle comuni rurali, da una parte o l’affermazione dei collettivi emancipatori o comunisti, dall’altra parte– che attacca di fatto lo status post-tradizionale del diritto, quanto la spinta verso una razionalizzazione etica del diritto(verso un ‘accorciamento della via e un rinserrarsi del rapporto tra diritto costituzionale e codici positivi del diritto) .

Proprio qui si rivela la potenza della diagnosi epocale di Weber sul destino della modernità, al di là della sua apparente contraddittorietà, proprio nel manifestare un aperto scetticismo sulla possibilità che quei contromovimenti siano in grado di dispiegare un efficace azione di contrasto alla deriva del sistema modellato sulla razionalità strumentale.

Se confrontiamo questa diagnosi weberiana della modernità – la perdita di senso del processo complessivo della realtà, inclusi i modelli culturali dell’informazione, della comunicazione e della formazione – la perdita di libertà, intesa come una proprietà propria di ogni soggetto o persona e non di pochi «individui» – tanto nel campo nell’economia, che della politica, che del diritto – con gli esiti che tale processo dispiega ai nostri occhi oggi, bè è difficile negare un valore di fondatezza alla sua previsione.

Lo «Stato d’eccezione » o «Stato duale » come lo definirebbe il filosofo Giorgio Agamben, in cui ci siamo trovati catapultati in questi due ultimi anni di emergenza sanitaria da Covid 19, ma uno Stato d’eccezione o di emergenza che faceva seguito ad altre «emergenze» che hanno caratterizzato le nostre democrazie liberali negli ultimi vent’anni, dall’emergenza terroristica in seguito all’11 settembre 2001, all’emergenza o crisi economico -finanziaria da subprime del 2007-2008, fino all’ultima emergenza geo-politica bellica della guerra in Ucraina, testimonierebbero del valore di quella diagnosi weberiana.

Naturalmente Von Hayek nella elaborazione della sua dottrina antropologico-filosofica, nel panegerico dei destini di libertà dell’individuo moderno occidentale, non considera affatto le questioni cruciali che i tre «mentori critici» della modernità –Hegel, Marx, Weber– pongono : né la questione che l’eticità richiede un confronto tra il concetto d’individuo e quelli delle comunità storicamente costituitesi (famiglia, società e Stato), da cui elaborare un concetto di autocoscienza filosofica o soggettività libera «matura», secondo quanto richiedeva Hegel. Né nell’opera di Von Hayek vi è il minimo sentore che già il processo di accumulazione originaria del capitale, il «protocapitalismo», fosse inficiato da quelle posizioni di forza, dominio e privilegio che pochi grandi attori dell’economia erano in grado d’imporre alla stragrande maggioranza della popolazione, e non fosse stata l’epopea eroica del self made man, come aveva denunciato Marx.

Infine, naturalmente, non sfiora minimamente Von Hayek la visione dell’avvento del nichilismo in quella società liberal-capitalistica, la perdita di senso razionale della realtà e la perdita delle stesse libertà inizialmente postulate, sotto forma di una «gabbia d’acciaio » di un agire razionale strumentale, o detto in altre parole quella dialettica della ragione illuministica , ragione tecnologica e scientifica, che se non sottoposta a vaglio critico si rovescia in un nuovo mito che da emancipazione si volge in una nuova schiavitù, in una nuova idolatria, i cui idoli sono il denaro, il potere e l’individuo.

Ma l’esperienza di successo presso l’opinione pubblica angloamericana, nonostante le stroncature sul piano accademico, della sua narrazione sviluppata in La via della schiavitù, incoraggiarono Von Hayek nel portare avanti il suo progetto politico-filosofico. Anche perché «l’uomo della strada » non era l’unico destinatario delle sue parole d’ordine; lo erano altrettanto se non principalmente le elites economiche e sociali, quelle oligarchie, associazioni e lobbies del grande capitale che, momentaneamente messe in sott’ordine dall’avvento delle politiche keynesiane nelle democrazie occidentali, erano in attesa della loro revanche. Von Hayek e tutti coloro che lo seguirono sul suo cammino e ne raccolsero l’eredità, ne presero il testimone e s’incaricarono di fare da esploratori per i tempi a venire.

Nicola Boidi

BIBLIOGRAFIA

FRIEDRICH VON HAYEK :

LA VIA DELLA SCHIAVITU’, Ed. Rubettino.

NICHOLAS WAPSHOTT :

KEYNES O HAYEK. LO SCONTRO CHE HA DEFINITO L’ECONOMIA MODERNA, Ed. Feltrinelli.

MAX HORKHEIMER,THEODOR W. ADORNO:

DIALETTICA DELL’ILLUMINISMO, Ed. Einaudi.

G.W.F. HEGEL :

LINEAMENTI DI FILOSOFIA DEL DIRITTO, Ed. Laterza.

FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO, Ed. Rusconi.

KARL MARX:

GRUNDRISSE. LINEAMENTI FONDAMENTALI DELLA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA, Ed. Pgreco.

IL CAPITALE, VOL. I°, Editori riuniti

MAX WEBER:

ECONOMIA E SOCIETA’, Vol. IV°, Ed. di Comunità.

SOCIOLOGIA DELLE RELIGIONI, Vol I° e Vol II°, Ed. Utet.

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