Le radici totalitarie del neoliberismo. VII: Trattati di Maastricht e moneta unica Euro, ovvero l’experimentum dell’ordoliberismo tedesco

A trent’anni dalla sua istituzione è possibile tracciare un profilo e trarre un bilancio sull’experimentum dell’Unione europea e della creazione della moneta unica Euro per 19 Stati, 19 economie differenti.

Che di experimentum si sia trattato ci possono essere pochi dubbi in merito, semmai è importante oggi definire in maniera precisa e corretta di quale genere di esperimento si sia trattato, nell’ottica più ampia della weltanschung neoliberista, e a quali gradi di compimento della sua natura totalitaria tale esperimento sia stato in grado di giungere. La conferma sulla natura inedita, sperimentale, di tale istituzione è venuta dalle stesse parole di uno dei suoi massimi promotori in Italia, Giuliano Amato, già plenipotenziario nonché delfino di Bettino Craxi ai tempi in cui il partito socialista italiano era ai suoi massimi splendori. Amato si trovò a svolgere il ruolo di traghettatore del nuovo progetto, in qualità di presidente del consiglio, nella difficile e critica situazione politica dell’Italia nel 1992, l’anno della nostra adesione ai Trattati Europei di Maastricht.

Colui che fino a poco tempo fa svolgeva il ruolo di presidente della Corte costituzionale, uno dei massimi organi di garanzia istituzionale del sistema politico italiano, ebbe infatti a dire, in una trasmissione televisiva non molti anni fa, a proposito della creazione dell’Unione Europea e della moneta unica euro, sue testuali parole : « «Abbiamo fatto una moneta senza Stato; noi abbiamo avuto la pretesa faustiana di riuscire a gestire una moneta senza metterla sotto l’ombrello di un potere caratterizzato da quei mezzi e modi che sono propri dello Stato e che avevano fatto ritenere che fossero le ragioni della forza e poi della credibilità che ciascuna moneta ha». A queste parole bisognerebbe aggiungere che in politica, là dove si crea un vuoto di potere, puntualmente qualche altro potere viene a riempire quel vuoto, a egemonizzare quella funzione.

Dunque, a quale «pretesa faustiana », a quale sperimentazione inedita, intendeva alludere Amato, con quelle parole?

A una prima approssimazione potremmo rispondere che con l’Unione Europea e l’Euro sia stata messa in campo l’applicazione di un teorema legato a una precisa variante della dottrina neoliberista, e più precisamente della variante dell’«ordoliberismo» tedesco, variante però associata e «compromessa » con l’altro grande filone di pensiero del neoliberismo austro-americano che, come abbiamo visto, presentava come numi tutelari l’austriaco Friedrich Von Hayek e il suo allievo indipendente, lo statunitense Milton Friedman.

All’inizio del nostro cammino abbiamo incontrato i due economisti tedeschi – Wilhem Ropke e Alexander Rustow– impegnati nei dibattiti e confronti del Colloquio Lippmann, convegno parigino del 1938, nel tentativo di ridefinire una dottrina economico-politica liberale confutata e sconfitta, sia a livello di teoria che di prassi, dal crack della borsa di Wall Street del 1929 e dalla Grande depressione economica e sociale che ne era seguita. In questo tentativo di rielaborazione del liberalismo su nuove basi Rustow si trovò niente meno che a svolgere il ruolo di ideatore del termine new liberalism (che sarebbe stato tradotto in italiano con «neoliberismo»).

Due anni più tardi, nel 1940,Rustow, insieme all’altro economista tedesco Ropke presente al convegno parigino, e a Walter Eucken, si sarebbe trovato a fondare la rivista accademica dell’Università di Friburgo Ordo, di cui Eucken si sarebbe assunta la direzione. Dalla rivista della scuola economica di Friburgo sarebbe successivamente derivata la denominazione di «Ordoliberismo» intesa a designare una precisa corrente della dottrina neoliberale.

Come già emerso dai contributi di Rustow e Ropke ai dibattiti parigini, l’ordoliberismo tedesco intendeva tentare di conciliare la dottrina economico-politica neoclassica del marginalismo e del monetarismo, impersonata in quegli anni in particolare dagli austriaci Von Mises e Von Hayek, con una diversa concezione, quella della giustizia sociale, come diretta filiazione dalla libertà di mercato, o se vogliamo riassumerla in una formula onnicomprensiva, dal mercato economico autoregolantesi. Già nelle formulazioni espresse al Colloquio Lippmann questa tentata conciliazione si trovava presa tra due fuochi, tra due aspirazioni tra di loro non componibili.

Da una parte il tentativo di presa d’atto che il liberalismo o liberismo precedente non aveva saputo istituire un ordine del mercato economico autosufficiente e autoregolantesi, tale che esso non sfociasse nell’anarchia, nell’anomia, luogo di presa di potere dei grandi monopoli o oligopoli economici delle Corporations e degli enti della grande finanza, con tutte le conseguenze delle fluttuazioni dei processi economici e delle crisi che ciò comportava; da questa presa d’atto avrebbe dovuto conseguire un ripensamento sul ruolo degli Stati nazionali nel porre ordine e rimedio a tale situazione.

Ma d’altra parte, questa aspirazione non avrebbe dovuto, nelle intenzioni degli ordoliberisti tedeschi, negare l’opposta aspirazione a far sì che i fondamentali del liberismo neoclassico fossero mantenuti e anzi incentivati: tra tutti il fondamentale della «libera formazione » dei prezzi delle merci sul mercato ( compreso il prezzo della merce più preziosa di tutte in quanto mediatrice di ogni compravendita di merci, cioè il costo del denaro, il suo tasso d’interesse) proprio quel meccanismo monetario o «monetarismo economico» considerato il mantra equilibratore e autoregolatore del sistema dalla precedente teoria economica neoclassica, e che pure era entrato in crisi nel 1929, con i conseguenti giochi e fluttuazioni finanziarie, causa di gigantesche bolle speculative all’origine di quella crisi.

Per gli ordoliberisti tedeschi lo Stato sarebbe sì dovuto intervenire nei processi economici per impedire la disoccupazione di massa senza però che questo impedisse la riproduzione dell’ordine spontaneo del mercato, anzi facendo in modo che tale ordine fosse il risultato di un intervento di governo capillare, fondato su un quadro giuridico istituzionale. Se l’orizzonte di riferimento rimaneva, anche per gli ordoliberisti, la piena realizzazione dell’individuo, e per ottenere tale scopo dovevano essere garantite la libertà d’impresa, di mercato e la proprietà privata, la presa d’atto che tali condizioni non sono automatiche comporta che lo Stato debba intervenire per ripristinarle nel momento in cui sono compromesse.

Gli ordoliberali tedeschi perseguono l’ideale dell’«essenza pura del mercato», della pluralità e molteplicità egualitaria degli attori economici in «libera» competizione tra di loro, essenza pura che vedono «contaminata» e minacciata dal predominio di fatto di oligopoli e monopoli. In questo quadro di riferimento viene di conseguenza esaltata l’importanza che il diritto ha nel promuovere le regole «del gioco di mercato» e nel dare vita a una costituzione giuridico-economica che costruisca letteralmente il sistema dell’economia di mercato.

Ma in che modo, con quali precise configurazioni, dovrebbero le istituzioni politiche e giuridiche dello Stato nazionale svolgere questa funzione fondamentale?

Possiamo prendere le posizioni, rispettivamente di Walter Eucken e di Wilhem Ropke, come formulazioni in risposta a questo quesito. Walter Eucken, già direttore della rivista Ordo, riteneva che lo Stato dovesse svolgere il compito di «guardiano dell’ordine concorrenziale » ( considerato come un bene pubblico in sé). Ma questo ruolo predicato per lo Stato di «arbitro imparziale» delle regole di gioco del mercato economico stride con la funzione che lo stesso pensiero liberale assegna di rispettiva separazione, bilanciamento ed equilibrio, ai diversi poteri politici -esecutivo, legislativo e giudiziario-mentre una deroga o eccezione viene fatta proprio nei confronti dei poteri economici del capitalismo; la politica e il diritto dovrebbero, secondo quella filosofia generale di pensiero, equilibrare il potere del processo economico, ma invece gli si chiede, da parte di Eucken, di avvallare istituzionalmente e semplicemente il suo libero corso.

Allora la regola politico-giuridica del libero gioco del mercato non si presenta come imparziale ma al contrario parzialissima e pedagogica, «governamentale» rispetto al processo economico, una sorta di arbitro di parte che fa le regole per il mercato.

Tra l’altro la concezione ordoliberale di Eucken non implica solo la natura economica del modello mercatista, ma anche la sua dimensione o forma sociale( come è proprio di un ‘ideologia potenzialmente totalitaria qual è il neoliberismo). Infatti è qui implicito che la forma mercato debba essere assunta come modello sociale, proprio grazie all’azione collaboratrice dello Stato nazionale, e debba modificare i modi di comportamento di ciascuno e della collettività, sostituendo a modi umanistici e sociali sempre di più i modi economici e imprenditoriali.

I principi fondamentali sanciti dalla Rivoluzione Francese- libertà, uguaglianza e fraternità –

vengono così sostituiti, apertamente o velatamente, dai principi universali di impresa, mercato e competizione. Se prendiamo poi le tesi sviluppate da uno degli altri padri dell’ordoliberismo tedesco, l’economista Willhem Ropke, già presente al Colloquio Lippmann, vediamo che ( in particolare in Democrazia e economia) egli sviluppa un’ articolata dottrina politica con tratti contraddittori tra di loro difficilmente conciliabili.

Il suo conservatorismo in politica comporta la predilezione per il ruolo delle élite, ma non della tecnocrazia, la sua opposizione al razionalismo moderno e alla superbia in generale del modello della razionalità in nome dell’idea di una comunità come entità virtuosa e necessaria per governare gli uomini. Ropke poneva una distinzione essenziale tra economia di mercato e capitalismo, attribuendo alla prima una natura virtuosa e positiva che negava al secondo, con un idealizzazione della libertà di mercato per lui minacciata di prevaricazione dalla realtà economica del grande capitale.

L’economista tedesco a un tempo riconosceva che la stessa economia di mercato ha un valore parziale e relativo, anche se indispensabile, per cui bisogna contemperare il principio della libertà individuale con il principio sociale umanitario. Ropke è sostanzialmente alla ricerca di una terza via tra il liberalismo vecchio stampo, il laissez faire economico politico, preda dell’anarchia e dei potentati economici, da una parte, e dall’altra parte del collettivismo, ma anche dell’interventismo statale in prima persona in economia, secondo il modello keynesiano.

Questa terza via veniva da lui definita un «umanesimo liberale» che avrebbe dovuto presentare i seguenti lineamenti generali: 1) uno Stato «sano» (che genera la pacifica e volontaria subordinazione dei molti ai pochi che sanno governare) contrapposto a uno Stato «malato» (quello dell’accentramento delle risorse e del potere nelle mani di gruppi organizzati); 2) un modello di welfare e di politiche sociali che non superi una certa soglia d’intervento per non spezzare la molla segreta di una sana società, cioè basata sul senso della responsabilità dell’individuo; 3) il rapporto tra economia di mercato, società e Stato deve essere tale che «questo ordine economico debba integrarsi negli altri, più ampi, e più alti ordini, da cui dipende il successo dell’economia di mercato e che a loro volta lo presuppongono»; 4) per Ropke ciò comportava che «…fin da principio, ci siamo opposti a semplificazioni e restrizioni, a economicismo, utilitarismo, materialismo e amoralismo, in nome dell’uomo nel suo complesso e dell’intera società»

Tali formulazioni suscitano alcuni quesiti spontanei e altrettanto essenziali . Come dovrebbe integrarsi l’ordine dell’economia di mercato negli altri più alti ordini che a loro volta lo presuppongono? Come può un complesso sociale e politico corrispondere a un ruolo morale e comunitario di temperamento degli eccessi del liberismo economico se lo Stato nazionale deve limitarsi a stabilire regole giuridiche e istituzionali in cui il mercato abbia libero corso?

Non si rovescerà una tale aspirazione necessariamente in una contaminazione, anzi in un inquinamento dell’ordine mercatistico sugli altri ordini considerati «spiritualmente » superiori?

Se, come affermava Ropke, « ogni limitazione della libertà economica, ogni intervento statale, ogni atto di pianificazione e di dirigismo contiene in sé una dose di coercizione», mentre nel mercato «tutto quello che è coercizione, intervento, decurtazione della libertà è limitato alla cornice, cioè alle regole dello svolgersi delle relazioni economiche, libere nel resto – [mentre] il collettivismo è caratterizzato dal dirigismo coattivo delle stesse singole decisioni economiche»– che corrispondenza possiamo trovare tra tali postulati e la realtà dei fatti economici?

Se noi osserviamo le conseguenze, gli effetti delle regole e disposizioni imposte dalle Istituzioni dell’Unione europea e dai suoi «bracci armati » della Commissione europea e della BCE( Banca centrale europea), che esprimono una lontana ascendenza dalle dottrine ordoliberiste, la prospettiva sembra rovesciarsi di 180 ° gradi rispetto ai timori paventati a suo tempo da Ropke: coercizione e dirigismo coattivo si manifestano in ogni atto che assecondi la dottrina del libero mercato, con casi eclatanti come quello della vicenda greca, ma che si può estendere tranquillamente alla vicenda italiana.

Allora più che di terza via di un «umanesimo liberale » si dovrebbe parlare per Ropke di una disciplina di elevazione morale e sociale del mercato economico, di una sorta di «socializzazione del mercato» che non significa affatto un mercato economico limitato e temperato dalla società e dallo Stato,ma al contrario di penetrazione da parte sua di ogni altro ordine dello Stato e di subordinazione ad esso dell’intera società, con la finalità di farne l’autentica dimensione interiore e spirituale del soggetto, cioè di ridurre il soggetto autocosciente a mero individuo.

Secondo il pensiero ordoliberale, di cui Ropke è sicuramente un esponente di spicco, l’ordine politico e sociale generale si traduce in «olismo capitalista » e la società in organismo economico di mercato, in cui non vi deve essere alcuna contrapposizione tra la dimensione sociale o collettiva e quella individuale dell’essere umano, e tutti i suoi aspetti e le sue manifestazioni formano un unità, e tutte le sue parti sono tra di loro interdipendenti.

Conseguentemente «anche l’ordine economico non fa eccezione, dovendo essere inteso come una parte dell’ordinamento globale della società che deve corrispondere all’ordine spirituale e politico, esattamente come questo, a sua volta, deve armonizzarsi con l’ordinamento economico».

Non si tratta di democratizzare il capitalismo ma di trasformarlo nel modo di vita e dell’essere( dell’essenza spirituale) degli uomini, non solo del loro fare. Certamente vi sono in Ropke dichiarazioni di principio per cui il mercato non è tutto o sul fatto che esso deve essere il servitore e non il padrone della società, ma ciò contraddice il ruolo che viene assegnato allo Stato in tale contesto, se l’azione dello Stato deve essere pedagogica e funzionale alla promozione e diffusione del mercato, per cui ciò che non dovrebbe essere ‘tutto (il mercato) in realtà lo diventa inevitabilmente, così come diventa il vero sovrano assoluto della realtà proprio grazie all’ordine giuridico integrato in quello economico, prodotto dallo Stato.

Entra in gioco una concezione «biopolitica» ( come la definirebbe Foucault) della realtà nella sua totalità.

Proprio il filosofo francese Michel Foucault, nel suo corso tenuto presso Il College De France nel 1979, intitolato Nascita della biopolitica, riportava l’assunto principale della dottrina ordoliberale tedesca: «dal momento che ormai è accertato che lo stato è portatore di un’intrinseca difettosità, mentre nulla prova che l’economia di mercato abbia simili difetti, chiediamo all’economia di mercato di fungere, di per sé, non tanto da principio di limitazione dello stato, bensì da principio di regolazione interna dello stato, in tutta l’estensione della sua esistenza e della sua azione. (…) Detto altrimenti: uno stato sotto la sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello stato».

La concezione «biopolitica» della realtà traspare nella dottrina ordoliberista, secondo Foucault, nel proporre un modello di vita per l’individuo a immagine e somiglianza del mercato, dell’impresa e del concetto di concorrenza o competizione. Quando dunque troviamo negli articoli preliminari, generali, dei Trattati di Maastricht del 1992, fondativi dell’Unione Europea, espressioni quali «L’unione economica deve essere fondato su un’economia sociale di mercato altamente competitiva» (art.2) (dove dunque la competizione deve prevalere sulla collaborazione tra i singoli Stati membri, un’ Unione alquanto singolare) oppure «fatta salva la prevenzione dell’inflazione, l’obiettivo deve essere quello di promuovere la crescita economica delle economie dei singoli stati membri dell’Unione»( art.3)( dove dunque la prevenzione dell’inflazione viene anteposta al compito della piena occupazione) , vi ritroviamo dirette ascendenze dalla concezione ordoliberista dell’economia, della società e della politica.

La visione biopolitica dell’ordoliberismo tedesco implica il progetto di una mutazione antropologica dell’individuo, dell’essere umano, in nome del mercato e della trasformazione di ciascuno in imprenditore di sè stesso. L’individuo viene così «educato», proprio in nome della sua libertà, a una subordinazione al mercato e al principio della competizione.

Ancora nella riflessione di Foucault, secondo gli ordoliberali si tratta di « prendere il tessuto sociale e fare in modo che possa scomporsi, suddividersi, frazionarsi, non secondo la grana degli individui, bensì secondo quella dell’impresa. (…). Bisogna che la vita stessa dell’individuo – ad esempio, il suo rapporto con la proprietà privata, con la famiglia, con la sua conduzione, con i sistemi assicurativi e con la pensione – faccia di lui e della sua vita una sorta di impresa permanente e multipla. (…). E si tratta di fare in modo che l’individuo (…) non sia più alienato rispetto al suo ambiente di lavoro e al tempo della sua vita, alla sua casa, alla sua famiglia, al suo ambiente naturale. Si tratta di ricostituire attorno all’individuo dei punti di ancoraggio concreti (…); come una Vitalpolitik che avrà la funzione di compensare quanto c’è di freddo, di impassibile, di calcolatore, di razionale, di meccanico nel gioco della concorrenza propriamente economica»

Anche il mondo della cultura deve, in questo contesto, all’interno di questo progetto, svolgere una funzione essenziale: attivare il «capitale umano » di ciascuno nel campo dell’istruzione e della formazione, sempre nell’ottica della missione unica e totalizzante di fare della propria vita un ‘impresa. Osserva Foucault che è proprio in questa direzione «che abbiamo visto orientarsi le politiche economiche, ma anche quelle sociali e culturali, come anche le politiche educative di tutti i paesi sviluppati», come di quelli in via di sviluppo.

L’aspirazione a fare, della vita individuale e sociale, un unica grande impresa, si estende dunque anche alle istituzioni culturali ed educative: ai musei, alle scuole, alle università, al welfare, un welfare che si rivolge al modello dell’azienda.

Se la politica e la società devono, secondo l’ordoliberismo, assumere a modello l’azienda o l’impresa capitalistica, di quale modello si tratta? Ancora Ropke ci dà la risposta: nell’impresa la democrazia è fuori luogo, come in una sala operatoria, per cui «la vera democrazia economica sta altrove, e cioè sul mercato, ove i consumatori sono elettori al cui costante plebiscito l’imprenditore deve adeguarsi se non vuole andare incontro al fallimento». Così dunque anche Ropke tira fuori il vecchio arsenale della dottrina economica neo classica, il marginalismo e il monetarismo, per affidare all’autoregolazione del mercato – del prezzo delle merci e del denaro – una sua specifica forma di elezione democratica, dove viene per l’ennesima elusa la questione se tale meccanismo e tale democraticità si possano effettivamente realizzare.

Nella Repubblica federale tedesca ( la Germania occidentale) del dopoguerra, il pensiero e la dottrina ordoliberista, che ha conosciuto una particolare ricezione presso i vertici del sistema economico tedesco– la confindustria dell’economia produttiva vocata alle esportazioni, e il sistema delle grandi banche private– ha dovuto mediarsi, giungere a un compromesso con le forze politiche e sociali della democrazia cristiana tedesca, del partito social democratico e della sinistra in genere, dei sindacati. Questo compromesso ha permesso la costituzione dello stato sociale tedesco, l’estensione del welfare e l’introduzione della cogestione nelle fabbriche, di quel sistema modellato sul keynesismo ( comune a tutti i paesi del blocco occidentale del dopoguerra) , sistema in cui la vocazione e l’agenda della dottrina ordoliberale sono state contenute e temperate.

Ma con il mutare dei tempi e del clima generale, con la revanche del grande capitale a partire dagli anni settanta, anche l’ordoliberismo tedesco ha ripreso quota e slancio.

Rimane dunque da chiedersi in che modo i lineamenti fondamentali della dottrina ordoliberista tedesca, il suo «arsenale» teorico, hanno determinato l’esperimento della Unione europea e dell’Euro? Abbiamo già accennato ad alcuni concetti penetrati nella carta costituente dei Trattati di Maastricht, nel 1992, evidentemente pervasi da una tale filosofia di fondo.

Se volessimo tratteggiare, a trent’anni dalla sua fondazione, e a circa 50 anni dal suo vagheggiamento teorico, in modo rapsodico, la storia di tale costituzione, ( un ‘analisi più approfondita e completa di tale processo è rintracciabile in un articolo da me scritto e pubblicato on line, intitolato: Euro, cronistoria di un fallimento) dovremmo rievocare alcuni passaggi fondamentali.

La prima idea articolata risale agli inizi degli anni settanta del novecento: dopo un ventennio di CECA ( Comunità economica del carbone e dell’acciaio) e di CEE( Comunità economica europea ), istituzioni fondate per il blocco atlantico e continentale dell’ Europa Occidentale, fu avviato un progetto totalmente nuovo di Unione Europea, senza precedenti storici. Il progetto perseguiva l’idea di creare, con il consenso degli Stati membri, un unione politica priva di un potere politico centrale, con una moneta nuova che per la prima volta nella storia non si appoggiasse a un potere politico. Diverse furono le fonti d’ispirazione di un tale progetto, diverse e tra di loro contrastanti.

Si può innanzitutto parlare di una lontana ispirazione idealistica risalente al progetto federalista europeo contenuto nel Manifesto di Ventotene in cui firmatari furono Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. L’idea del Manifesto era che di fronte alla catastrofe europea della seconda guerra mondiale solo un’organizzazione federale avrebbe potuto ridare all’Europa un ruolo di protagonista sulla scena internazionale, ponendo fine a secoli di guerre fratricide.

Ma accanto a questa ispirazione ideale il progetto dell’Unione europea incontrò anche le ragioni di real politik o di geopolitica degli Stati Uniti, che nel contrasto al blocco comunista dell’Europa dell’est guidato dall’Unione sovietica, vedeva con favore il rafforzarsi di una «zona cuscinetto» tra sé e l’Urss già costituita con il sorgere della Organizzazione del Trattato dell’atlantico del nord ( Nato).

Ogni riduzione di sovranità nazionale che contenesse l’endemica conflittualità tra gli Stati europei e favorisse la costituzione di una tale zona cuscinetto e di un Unione Europea era di conseguenza ben vista dall’America.

Infine un terzo movente o movimento spinse avanti l’idea di un unione transnazionale incentrata sull’unione dei mercati economici e sul suo «mediatore» universale, la moneta unica. Questo movimento lo potremmo chiamare « la rivincita » o la riscossa del capitalismo delle corporations o multinazionali, proprio a partire dagli anni settanta, una riscossa simboleggiata dalla fine degli accordi di Bretton Woods e il mutamento di modello economico- politico e sociale.

Su questo movimento, che possiamo definire neoliberismo realizzato( così come abbiamo nel corso del ventesimo secolo conosciuto il comunismo realizzato), ci siamo ampiamente diffusi nei capitoli precedenti, qui possiamo solo aggiungere che questo fu il movente determinante che portò ad effettiva realizzazione il progetto di Unione europea e di moneta unica euro, e che mise in un canto gli slanci ideali.

Per quanto riguarda le ragioni di geopolitica atlantista, mentre sembrava che dovessero sfumare per il crollo in quegli stessi anni dell’Unione sovietica e del blocco comunista, queste congiunture storiche, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta del novecento, in realtà dettero una svolta determinante allo stesso progetto europeista.

In particolare in questo contesto si delineò il ruolo preminente, per non dire predominante che doveva venire a svolgere in quel progetto costituente la Germania.

Quelle congiunture( il crollo a domino dei Paesi del blocco comunista dell’Europa orientale nel 1989, e la fine dell’Unione sovietica nel 1991 ) fecero sì che la Germania, già locomotiva dell’economia europea continentale, anche se fortemente contrastata in questo ruolo da Francia e Italia, dovesse assurgere di nuovo anche a un ruolo geopolitico centrale( a 45 anni dalla catastrofe del nazismo e della seconda guerra mondiale) grazie all’inizio del processo di riunificazione tra le 2 Germanie.

Questo è lo scenario che indusse il presidente francese Mitterand a pianificare un ‘alleanza o intesa con il cancelliere della Germania Federale Helmut Khol, affinché la riunificazione dello «scomodo » vicino non potesse risultare una minaccia sotto più punti di vista per la Francia.

Il partenariato doveva prevedere l’ingresso della Germania sotto un’ Europa comune e una moneta unica, nella previsione che la collaborazione tra i due colossi europei, come asse privilegiato dell’intera Europa Occidentale, avrebbe guidato e trainato l’intero mercato europeo e fatto da premessa a una futura costituzione politica e sociale comunitaria.

Ma perché la Germania potesse accettare un tale accordo, e perché esso facilitasse la sua riunificazione alla ex Germania democratica, i trattati costitutivi dell’Unione europea e il «conio » della moneta unica euro dovevano avere caratteristiche peculiari, assai confacenti alla fisionomia economica e giuridica dello Stato tedesco, e non necessariamente compatibili con le economie e costituzioni giuridiche degli altri Stati europei.

A completare l’orizzonte di fondo della costituzione, nel febbraio del 1992, dei Trattati di Maastricht, vi erano naturalmente il «vento travolgente » dell’economia, della politica e della geopolitica di quel tornio di anni, un corso neoliberista che sarebbe ben presto stato ridenominato «globalizzazione».

Su questo sfondo i Trattati di Maastricht andarono definendo le istituzioni politiche, le istituzioni finanziarie e le politiche economiche della UE nel loro complesso. L’istituzione della Commissione Europea andava a riempire il vuoto di potere della mancanza di un governo europeo centrale, diventando di fatto il potere esecutivo che accentrava a sè anche il potere legislativo, configurandosi come un istituzione completamente autonoma nella sua produzione e imposizione di leggi sia dagli Stati membri che dal Parlamento europeo. Quest’ultimo si configurava infatti come l’unica istituzione elettiva della UE, totalmente svuotata di qualsiasi prerogativa se non quella di fare da «notaio che registra in differita» le leggi promulgate dalla Commissione.

I singoli commissari inoltre, ognuno dei quali designato alla sovraintendenza di una materia specifica, essendo nominati ciascuno dal governo del proprio Stato, rimaneva fin dall’inizio dubbio che nel promulgare nuove leggi lo avrebbero fatto nell’interesse generale dell’Unione Europea e non guardando esclusivamente ai propri interessi nazionali a discapito di quelli di un altro Stato.

Il quadro delle Istituzioni europee determinanti veniva completato dalla costituzione della Banca Centrale Europea( Bce) nel cui statuto, fissato nell’articolo 104 dei Trattati di Maastricht, era riconosciuto a tale istituzione il monopolio di creazione della moneta unica euro( monopolio in realtà solo nominale, come vedremo) e gli era fatto obbligo di non farsi prestatore in ultima istanza di denaro agli Stati, ossia gli era vietato di finanziare la spesa pubblica in deficit, dallo Stato via via a scendere agli enti pubblici di grado inferiore.

La Bce poteva solo immettere liquidità sui mercati secondari, ossia acquistare presso enti finanziari, ( banche ed affini) i titoli privati e pubblici, quest’ultimi emessi dallo Stato per finanziarsi ai tassi d’interesse decisi dai mercati finanziari. Era di fatto, e lo si vedeva benissimo già allora, la degradazione dello Stato da ente pubblico, sovrano, a un ‘ente qualsiasi di diritto privato tra gli altri, che va in banca con il cappello in mano a chiedere i prestiti. Tutta una serie di altri punti venivano incontro alle istanze dello Stato e dell’economia tedesche, ma erano sicuramente sfavorevoli alle esigenze di altre economie, quali quella italiana ad es. La situazione in quel contesto dell’economia italiana può risultare un ottimo metro di paragone per valutare i punti tematici in questione.

In particolare i seguenti punti: 1) la moneta Euro era equiparata 1 a 1 al valore del marco tedesco, cioè di una moneta mediamente assai più forte della lira, il che comportava un notevole svantaggio per un sistema economico fortemente basato sulle esportazioni quale era quello italiano, per cui da una parte non sarebbe più stato possibile, in caso di necessità, una svalutazione competitiva della moneta, e dall’altra parte la Germania non avrebbe più sofferto di quello che era il meccanismo di rivalutazione della propria moneta come conseguenza naturale dei meccanismi di riequilibrio dei movimenti di importazioni ed esportazioni di merci e capitali sulla bilancia dei pagamenti.

Non a caso per diversi anni, sotto l’egida dell’euro, il surplus di esportazioni sulla bilancia dei pagamenti tedesca ha viaggiato a colpi di 250 miliardi di euro annui, frutto di una competitività delle imprese tedesche che, oltre a efficienza e abilità proprie, hanno goduto di questa mancata rivalutazione della moneta e di una contrazione dei salari e in generale della domanda interna .

2) I famosi parametri del non sforamento del deficit annuo del 3% della spesa pubblica e il debito pubblico non superiore al 60% del Pil, inseriti negli articoli dei trattati, rispondevano di fatto alle condizioni dell’economia tedesca al momento della ratifica dei trattati medesimi, ma erano evidentemente molto lontani, ad es., dalla condizione effettiva dell’economia italiana.

3) Il divieto della Bce di farsi prestatore di denaro agli Stati anche in caso di gravi crisi economiche, ossia di shock provenienti dall’esterno quale fu la crisi da mutui Subprime delle banche private del 2007/2008, ha strangolato l’economia di paesi come l’Italia anche perché, non godendo più di sovranità monetaria, il nostro Paese non si è dotato neppure di banche a statuto pubblico che possano in qualche modo supplire al mancato sostegno di una banca centrale di nome e di fatto. Di che cosa stiamo parlando?

La risposta si evince dal confronto con il sistema creditizio tedesco, in cui la differenza con il nostro emerge in modo lampante. Fin dalla sua nascita nella seconda metà dell’ottocento( in concomitanza con il processo di riunificazione politica della Germania) il capitalismo tedesco era caratterizzato da un’ibridazione tra banche e industria e da un forte radicamento territoriale, così come da stretti rapporti con la politica e con i governi delle regioni (Land) e della nazione tedesca.

Il sistema di banche tedesche è ancora oggi semi-pubblico. Le undici Landes banken o grandi banche regionali sono soggetti di proprietà pubblica che stanno sulla cima di una piramide fatta da migliaia di casse di risparmio di proprietà comunale. Se si considerano anche gli istituti di credito immobiliare di proprietà pubblica, circa la metà del totale del sistema bancario attivo tedesco appartiene al settore pubblico. Queste banche sono strumenti fondamentali della politica industriale tedesca, essendo specializzate nei prestiti al Mittelstand,cioè al sistema di imprese di piccole e medie dimensioni che sono il motore delle esportazioni del paese. Grazie alle Landesbanken, le piccole imprese in Germania hanno lo stesso accesso al capitale delle imprese di grandi dimensioni; non ci sono economie di scala nella finanza. Questo significa anche che i lavoratori nel settore delle piccole imprese guadagnano lo stesso salario di quelli impiegati nelle grandi multinazionali, hanno le stesse competenze e la stessa formazione e sono altrettanto produttivi.

Le Landes banken svolgono una funzione di “banche universali” che operano in tutti i settori del mercato dei servizi finanziari. Sono tutte controllate da governi statali e operano come amministratori centrali di casse di risparmio di proprietà municipale, chiamate in Germania “Sparkassen”. Oggi le casse di risparmio operano con una rete di oltre 15.600 filiali e uffici, impiegano oltre 250.000 persone e si caratterizzano per la notevole capacità di investire con saggezza nelle imprese locali. Su questa loro natura si è creata una situazione di conflitto tra la UE e le Landesbanken. La UE ha denunciato come la proprietà statale comporti sovvenzioni pubbliche esplicite e implicite che violano le regole della politica di concorrenza. Per oltre un decennio, la UE ha combattuto perché il sistema fosse privatizzato, spinta dagli interessi delle stesse grandi banche private tedesche.

Questo è accaduto quando le Landes banken hanno assunto una posizione di concorrenza sui mercati internazionali. Nel frattempo le più importanti banche private tedesche erano entrate sul palcoscenico del grande casinò internazionale del gioco delle scommesse speculative dei derivati strutturati, riempiendo i loro bilanci di titoli tossici accumulandone per diverse centinaia di miliardi di euro. Le landes banken invece,non essendo società di capitali che dovevano soddisfare la fame sempre più grande degli azionisti di dividendi, supportavano meglio l’economia reale.

Il governo tedesco della Merkel ha dovuto risanare e salvare, tra il 2009 e il 2010, le grandi banche tedesche private dai loro giochi di azzardo speculativi immettendo 600 miliardi di euro di denaro pubblico( fra l’altro utilizzando la propria Cassa depositi e prestiti,il cui bilancio però non era conteggiato nel debito pubblico tedesco, una sorta di trucco contabile). Nel frattempo l’economia reale tedesca era supportata finanziariamente dalle Landesbanken, ma, e qui sta il punto, ciò è stato possibile perché queste banche a statuto pubblico non cadevano sotto la tagliola del regolamento della BCE né di quello del SEBC( Sistema europeo delle banche centrali) con il suo famoso divieto di supporto e aiuto finanziario diretto ai governi nazionali. Un ulteriore carico sul piatto tutto a vantaggio della Germania e a svantaggio dell’Italia, ormai priva di qualsiasi ente di credito di statuto pubblico.

Nella totale inconsapevolezza ( o forse dovremmo dire nella totale inconsapevole indifferenza ?) di queste precondizioni, le classi dirigenti politiche ed economiche italiane, hanno creato le premesse e perseguito ostinatamente una via che ha oggettivamente portato l’Italia a cadere sotto la tagliola o la «cravatta» di un sistema economico europeo «usuro-centrico», totalmente antidemocratico( se intendiamo la democrazia alla lettera come il popolo che governa sé stesso) e oligarchico, molto prossimo a un modello compiuto di totalitarismo ordoliberista.

Ciò è avvenuto per gradi, secondo il noto metodo della bollitura a fuoco lento della rana, ma con le opportune accelerazioni da stati di eccezione o di emergenza, che possiamo rapidamente riassumere nei suoi passaggi capitali. Il primo passaggio è stato quello che dovrebbe essere ormai noto come il divorzio tra ministero del tesoro e Banca Italia avvenuto nel 1981. Unicamente per il tramite di uno scambio epistolare tra l’allora ministro del tesoro Andreatta e il governatore di Banca Italia Ciampi, si decise che la banca centrale italiana non avrebbe più acquistato i titoli di stato invenduti che il Tesoro emetteva alle aste mensili appositamente istituite. Si trattava di un meccanismo che permetteva ai risparmiatori privati di investire i loro risparmi in titoli a breve, media o lunga scadenza, con un tasso d’interesse contenuto al 3% .

Questa moderazione della speculazione era garantita proprio dall’acquisto residuale dei titoli rimasti invenduti da parte di Banca Italia .

La cessazione dell’attività di Banca Italia insieme al concomitante meccanismo di «asta marginale» ( i titoli di Stato residuali venivano venduti al tasso d’interesse più alto deciso ormai dai compratori e non più dai venditori e, per «equità d’asta», anche i titoli venduti al tasso d’interesse minimo venivano elevati a quello massimo raggiunto durante l’asta) faceva sì che i titoli di stato residuali invenduti alla prima battuta d’asta venivano lasciati salire a un tasso d’interesse fino a un 7 % di media, con punte anche oltre il 10%,dopo di ché l’intero stock di titoli venduti alla singola asta, anche quelli già venduti al tasso d’interesse iniziale del 3%, veniva portato al tasso d’interesse superiore di quelli rimasti invenduti, per equità della vendita.

Con queste modalità il debito pubblico italiano è, nel corso di un decennio, tra l’inizio degli anni 80 e l’inizio degli anni 90′, raddoppiato, passando dal 58% del 1981 al 115% del 1991.Ma la formazione del debito pubblico italiano ha conosciuto un contraccolpo decisivo solo un decennio più tardi, all’inizio degli anni 90, quando le aste marginali di vendita dei titoli di stato da parte del Tesoro sono state estese anche ai cosiddetti «Investitori istituzionali » – fondi speculativi stranieri, banche d’affari e compagnie assicurative estere– mentre in precedenza i creditori nei confronti dello Stato erano costituiti, per circa il 90 % degli acquirenti di titoli, dai piccoli risparmiatori ( compratori di BOTe CCT a breve e media scadenza) o da enti finanziari italiani, cioè banche nazionali, nella stragrande maggioranza a statuto pubblico( fino alla fine degli anni 90, la finanza pubblica costituiva il 74% del sistema bancario) .

Insomma il debito pubblico, pur se raddoppiato, per tutti gli anni 80 rimaneva interno al sistema economico nazionale, in una sorta di partita di giro dello Stato con sè stesso. Non più così a partire dagli anni 90, quando una quota consistente di tale debito è passato nelle mani dei mercati finanziari esteri sotto forma di BTP( buoni del tesoro poliennali a lunga scadenza , più remunerativi e più adatti a operazioni di compravendita a breve, se non brevissimo, termine). Da qui la celebre distinzione tra un «debito pubblico buono» e un «debito pubblico cattivo».

Il secondo passaggio, decisivo nella caduta del Sistema Italia in questa «gogna orodoliberale», è stato, come già accennato, l’adesione ai trattati costitutivi dell’Unione europea del febbraio del 1992 con tutto ciò che ne è conseguito, Infatti a partire dal 1991, in .previsione di questa adesione e dei suoi «stringenti criteri di bilancio finanziario », ( riduzione del deficit annuo di spesa dello Stato rispetto alle sue entrate entro il limite prefissato al 3%, riduzione progressiva del debito pubblico dal circa 120% al 60%, limite corrispondente alla situazione del debito pubblico dell’epoca della Germania) lo Stato italiano, per mezzo del Ministero del Tesoro e le annuali Leggi di bilancio, ha imposto la stretta dell’avanzo primario, cioè un regime di bilancio annuo in cui lo Stato incassa in tasse più di quanto spende, una sorta di sogno ideale per ogni liberista «pareggista di bilancio» e «antinflazionista». Il fatto poi che in realtà lo Stato rimanesse anche allora in deficit di bilancio annuo, era dovuto al fatto che il Ministero del Tesoro pagava ( e paga tutt’ora) una percentuale del 3/4% annuo d’interessi sui titoli di Stato venduti con il meccanismo dell’asta marginale agli investitori istituzionali esteri( banche d’affari, fondi speculativi e fondi pensione, compagnie assicurative) pari a una cifra che oscilla tra 60 e 80 miliardi di euro all’anno.

Questo meccanismo dell’avanzo primario, che ha reso l’Italia il «più virtuoso contabile » all’interno dell’Unione europea, è proseguito ininterrottamente negli ultimi 30 anni con l’eccezione del bilancio 2009, anno in cui gli Stati europei dovevano mettere in sicurezza gli istituti finanziari privati dalla catastrofe dei loro giochi speculativi in derivati tossici, in seguito alla crisi finanziaria da mutui Subprime, come abbiamo visto nel capitolo precedente.

A questa drastica contrazione della spesa pubblica italiana si è accompagnata, lungo gli anni 90, una vera e propria «ordalia neoliberale» di svendita a imprese multinazionali private di tutta la struttura di base, macroeconomica, del sistema Italia:il colosso dell’Iri, le industrie a partecipazione statale strategiche per l’intero processo economico del Paese– ( trasporti –autostrade, ferrovie, linea area – e telecomunicazioni )erano di proprietà dello Stato, così come lo erano le società energivore( Enel, Eni), così come era prevalente la sanità pubblica su quella privata, c’era una forte presenza di istituti finanziari ( banche ) a statuto pubblico, un’editoria non così concentrata nelle mani di pochi proprietari, etc. etc. etc, . Un quarto dell’economia italiana era allora configurato in tal modo. Tutto questo nel giro di una decina d’anni passò in mani di potentati privati.

L’obbiettivo di queste politiche di svendita era sempre lo stesso: ridurre il debito pubblico anche di pochi punti percentuali e rientrare nei parametri della costituenda Unione Europea. Nell’ambito della crisi da Prima Repubblica che si consumò nel 1992 e passò alla storia sotto il nome di Tangentopoli ( lo scandalo di un vasto e ramificato sistema di corruttela a base di mazzette tra il il pubblico e il privato che travolse i principali partiti politici al potere), di attacco speculativo alla lira da parte del finanziere Soros, a cui segui una forte svalutazione della lira, furono poste le premesse per quella svendita dei gioielli di famiglia dello Stato italiano.

Il 2 giugno del 1992,( festa della Repubblica) è una cosa ormai appurata, s’incontrarono sul panfilo reale Britannia attraccato al largo di Civitavecchia, noleggiato per l’occasione, in un incontro «informale» e cioè privato, non aperto al pubblico , alti funzionari dello Stato italiano : innanzitutto il governatore della Banca Italia Ciampi e il ministro Andreatta, gli autori del divorzio del 1981, i vertici dell’Iri, il vicepresidente di Confindustria Cipolletta, e numerosi esponenti di importanti assets strategici italiani. Ma accanto a questi erano presenti anche e soprattutto importanti uomini d’affari delle maggiori banche d’investimento internazionali( Barclay’s e Goldmann Sachs ). A fare da regista di questo incontro compare in un ruolo importante per la prima volta Mario Draghi, allora direttore generale del ministero del Tesoro, ministero chiave per gli affari economici dello Stato.

Dato che è difficile credere che quell’incontro sul Britannia fra tali personalità fosse a scopi di svago e piacere, ma molto probabilmente invece finalizzato a decidere le sorti dell’industria a partecipazione statale dell’Italia, ( un quarto dell’economia italiana, ricordiamolo), la presenza del direttore del Tesoro in quel consesso di consultazioni private suscita tutt’ora un certo sconcerto.

Sta di fatto che proprio in quei mesi fu approvata in parlamento, sotto il governo Amato, una legge ad hoc per trasformare le partecipate dello Stato in società per azioni, in modo da prepararle a un loro smembramento e vendita a grandi investitori internazionali. Puntualmente questo accade a partire dal 1993, e il processo di vendite ai privati riguardò prima di tutto l’Iri( Istituto per la ricostruzione industriale). L’iri era l’autentico colosso di quel sistema d’industrie di Stato, essendo proprietario niente po’ pò di meno di : Autostrade, Alitalia, Ferrovie dello Stato,Sip, Finsider ( società siderurgica che controllava l’Ilva di Taranto e diverse acciaierie), Fincantieri( Cantieri navali), Finmare( società di servizi marittimi), Finmeccanica( difesa, areospaziale e sicurezza) Finsiel( società che operava nell’informatica), Italstat( società di ingegneria civile, operava nel campo di progettazioni e costruzione di grandi infrastrutture), Rai, Sme, Stet ( società di telecomunicazioni), autogrill, catena supermercati Gs, panettoni Motta, pelati Cirio, Inoltre i principali istituti di credito ( banche) italiani erano di proprietà dell’Iri: Il Credito italiano, La Banca nazionale del Lavoro, La Banca Commerciale italiana, il banco di Roma, l’IMI( istituto mobiliare italiano, istituto di credito finalizzato a finanziare i progetti industriali a medio e lungo termine ) : il 74% del sistema bancario italiano, prima della sua«liberalizzazione», era a statuto pubblico .

La cosiddetta« Galassia Iri» dell’industria strategica infrastrutturale, una volta trasformati in società per azioni i suoi «pianeti e satelliti », fu spacchettata, smembrata e venduta al migliore offerente. Venduta al miglior offerente ? Si è calcolato un ammontare complessivo d’incasso da parte dello Stato dal processo di privatizzazione e liquidazione dell’Iri, nel anno 2000, di una somma equivalente agli attuali 113 miliardi di euro. Se pensiamo che il pil in quello stesso anno ammontava a una somma corrispondente a 1.700 miliardi( pressoché uguale al pil attuale!), e che il valore stimato delle industrie di stato italiane era valutato al 25 % del nostro intero sistema economico, si evincerà con facilità che più che di una vendita si trattò di una svendita ai privati. ( la destinazione specifica di queste vendite è rintracciabile in un mio precedente articolo intitolato Amarcord: come, quando e perché l’Italia fu privatizzata).

L’intero smantellamento e svendita dell’Iri , come detto, furono giustificati con l’inefficienza del governo pubblico, la forte passività di alcuni dei suoi bilanci, la necessità di« far cassa» da parte dello Stato di fronte all’esplodere del debito pubblico, la necessità di «registrare i conti pubblici» per potere rientrare nei severi parametri di Maastricht e accedere alla moneta unica euro, la necessità a quest’ultima collegata di far fronte alla «minaccia » della svalutazione della lira sotto gli attacchi speculativi di Soros in quel 1992 .

Accanto a Amato, Ciampi, D’Alema, nei diversi ruoli da loro ricoperti lungo gli anni 90, i principali registi della privatizzazione dell’Italia furono senz’altro Romano Prodi e Mario Draghi. Romano Prodi fu presidente dell’Iri dal 1982 al 1989 e poi dal 1994 al 1996, anni cruciali delle privatizzazioni; Mario Draghi fu ininterrottamente il direttore generale del tesoro dal 1991 al 2001. Due ruoli chiave nelle grandi operazioni in corso.

Ciò che accomunava tutti i soggetti nominati – a cui possiamo aggiungere Carli, Andreatta e Bersani – era la radicata convinzione che l’esplosione del debito pubblico andasse combattuta con il fare cassa e tagliare la spesa pubblica( ossia invertire il trend della spesa pubblica con l’accumulare avanzo primario, surplus di entrate sulle uscite dello Stato) ; che la svalutazione della lira fosse necessariamente un male ( a prescindere dalla percentuale di svalutazione della divisa) da impedire ad ogni costo, anche bruciando inutilmente 40.000 miliardi di riserve di vecchie lire da parte dell’allora governatore di Banca Italia; che l’ingresso nell’Unione Europea e l’adesione all’euro fosse un imperativo categorico irrinunciabile, pena in caso contrario l’impossibilità di agganciarsi al«treno meraviglioso della competizione sui mercati internazionali e della globalizzazione»( evidentemente non erano dello stesso avviso né Gran Bretagna né Danimarca che aderirono al progetto paneuropeo con l’opzione dello opting out, cioè con la possibilità di uscire dai Trattati e senza aderire alla moneta unica euro).

L’economia italiana smise di crescere a partire dall’anno 1997, anno in cui la lira fu agganciata a un rapporto fisso di cambio tra le valute europee denominato ECU, premessa all’ingresso nel sistema di cambi fissi o moneta unica Euro a partire dal 1999 per gli scambi internazionali, e dal 2002 per il commercio interno.

La stagnazione del sistema italiano proseguì fino al 2008/9 quando la nostra economia entrò in una forte fase di recessione, con la perdita nel giro di pochi anni di 10% del Pil, di un quarto della produzione industriale e di un terzo della produzione manifatturiera, per cessata attività o per acquisizione da multinazionali straniere, da che ne è seguita, nel migliore dei casi, il mantenimento della produzione e dei posti di lavoro in Italia e il trasferimento dei profitti all’estero, nel peggiore la pronta delocalizzazione delle produzioni.

Il tasso di disoccupazione in Italia nello stesso periodo preso in esame non corrisponde a quello ufficialmente proclamato del 12%, il quale non considera le persone sfiduciate che non cercano più lavoro, ma sale vertiginosamente al 22,8 % della popolazione in età lavorativa se nel computo vengono appunto comprese le persone inattive che si suddividono nelle seguenti categorie: gli inattivi che non cercano più lavori ma sono disponibili a lavorare( un milione e cinquecentomila), e gli inattivi che cercano lavoro non attivamente ma disponibili a lavorare( due milioni e centomila), per un totale complessivo tra disoccupati «ufficiali» e «ufficiosi» di sei milioni e seicentomila.

Il differenziale di Pil pro capite medio ( Pil suddiviso per ogni persona) tra Germania e Italia dagli anni 90 agli anni 2000 è passato da 1500 euro a oltre 8000( in precedenza era costante) con una perdita secca di 6.500 euro a testa. Negli anni 90 l’Italia aveva un Pil pro capite medio di 4000 euro superiore alla media europea. Oggi il Pil pro capite italiano è sotto la media europea di 4.500 euro.

A questo panorama desolante vanno aggiunti i danni economici da regime di emergenza sanitaria da Sars 2 Covid 19, degli anni 2020-2022, che hanno portato a un’ulteriore recessione del – 9 % del pil nel 2020, con un rimbalzo del +6% nel 2021. L’attuale crisi da rincaro prezzi dell’energia +nuova inflazione dei prezzi dei beni primari al consumo completa un quadro assai desolante e deprimente. La caratteristica costante degli ultimi 15 anni è che la diversa fenomenologia delle crisi succedutesi ha sempre trovato gli Stati nazionali sopratutto del sud Europa, i cosiddetti Pigs ( Grecia, Italia, Spagna e Portogallo) in totale condizione d’ impotenza nell’affrontarle.

I governi che sono succeduti alla guida dell’Italia in questi 15 anni non si sono certo distinti per l’intenzione o la volontà di invertire il trend generale, dal Governo Berlusconi IV, al primo governo tecnico di Mario Monti, ai governi a guida PD di Letta, Renzi e Gentiloni, fino ai Governi Conte e al secondo governo tecnico di Mario Draghi.

Alla luce di questi fatti e dati è difficile esprimere un giudizio di massima, complessivo, sui trent’anni di storia dell”Unione Europea, differente da quello di un experimentum ordo/ neoliberale, compiuto nei suoi postulati totalitari, almeno per i Paesi più deboli della Compagine europea . L’Italia si è trovata al centro di tale progetto/ esperimento, come una sorta di Paese campione in cui verificare fino a quale grado l’esperimento stesso potesse essere spinto avanti. Le vicende del regime da emergenza virus +campagna vaccinale che hanno colpito in modo particolare il nostro Paese, intaccando le stesse libertà personali ( in primis la libertà di cura ) spostando il focus dalla perdita dei diritti sociali ( lavoro e stato sociale ) alla perdita dei diritti civili, hanno mostrato lo zenit di questo processo e di cosa il modello neoliberista sia capace . Proprio in questi ultimi anni e in seguito a queste vicende, la sua ideologia dell’homo novus ha potuto manifestarsi in maniera aperta, in consessi quali il World Economic Forum di Davos, dietro opere manifesto quali La quarta rivoluzione industriale, Il Grande Reset del sacerdote /vestale del Neoliberismo Klaus Schawb, come vedremo nel prossimo capitolo.

Nicola Boidi

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