Occorre un impegno maggiore per cercare di capire -e, possibilmente, di reagire- ad una situazione oggettiva che ci allarma, di fronte alla quale vi è un diffuso senso di impotenza e che ci fa sentire del tutto disarmati. Vi è la crisi della politica e prevale l’antipolitica, l’isolamento individualista, la sfiducia in una organizzazione comune. Vi è la crisi del partito, dei soggetti organizzati, della mediazione, senza i quali vince sempre il populismo, l’avventura carismatica. C’è la crisi delle istituzioni: non della loro natura tecnica ma della loro autorevolezza. C’è la crisi della identità della Nazione finora assicurata dalla saldezza dei valori costituzionali oggi messi in discussione. A tutto questo bisognerebbe aggiungere, come problema mai risolto, la persistenza di una radicata presenza della criminalità organizzata, capace di controllare interi territori, di minare la credibilità dello Stato, di sconvolgere il vivere civile. C’è insomma la crisi della democrazia: della partecipazione attiva per la tutela dei diritti di cittadinanza.
Di fronte a tutto questo, però, il solo dibattito politico è del tutto inadeguato. Quando una crisi è profonda e lunga (proprio come la nostra) alla base ci sono sempre ragioni antiche, il peso di un passato che va capito e responsabilità che riguardano tutte le articolazioni di una comunità. Perciò, far pesare sempre tutto sul sistema politico e sul sistema dei partiti diventa quasi un alibi nazionale che porta a rinunciare alla ricerca delle cause storiche profonde delle disfunzioni della nostra democrazia. Intanto, ci sarebbe da spiegare proprio il problema della stessa frequenza da noi della degenerazione del sistema politico e dei partiti, da cui nascono poi altri interrogativi capitali, come per esempio i seguenti: perché mentre negli altri Paesi a democrazia consolidata il partito politico è stato uno strumento per contrastare i fenomeni di corruzione e di uso privato delle risorse pubbliche, in Italia no? E perché, tra le democrazie occidentali, proprio in quella italiana si è verificata l’invadenza dei partiti in tutti i settori della vita associata? E perché la fine dichiarata delle vecchie appartenenze ideologiche non si sta traducendo in una integrale laicizzazione della politica? E perché la nascita dei nuovi soggetti politici che hanno sostituito i vecchi partiti si sta rivelando più il segno di una vitalità brada che non la riscoperta e la tutela scrupolosa dei valori della legalità, della certezza del diritto, del governo responsabile dei problemi? Dunque: solo la presenza costante di una prospettiva storica può consentire di non smarrirci nella complessità dell’ardua specificità del nostro Paese.
Dopo la caduta del fascismo i Costituenti si sono assunto il compito di costruire la democrazia in un Paese che non l’aveva mai avuta e di integrare nel sistema forze politiche che erano state tutte -esplicitamente o implicitamente- antisistema. La storia d’Italia è sempre stata infatti una storia di particolarismi, di sovversivismi, di assenza di valori condivisi. Si trattava di diffondere i valori della democrazia in un Paese che tradizionalmente aveva poco radicato il senso del pubblico. A differenza di altri Paesi europei, il maggiore problema postbellico che avevamo noi non era quello di inserire i nuovi soggetti, organizzati e non, in istituzioni già solide e presenti, ma di costruire dal nulla un tessuto istituzionale: lo Stato. Per lungo tempo i partiti e il legame politico hanno rappresentato il surrogato di una assenza decisiva per un Paese moderno: l’idea di Stato, il senso di appartenenza ad una comunità nazionale. Senza Stato e senza Nazione, i partiti sono stati le nostre piccole patrie e la nostra è stata una comune appartenenza senza cittadinanza: separata. In tutto questo però non c’entra nulla l’assenza da noi di una riforma religiosa. La tesi di Ernest Renan (autore tornato in auge nel recente dibattito pubblico) secondo la quale è impensabile una moderna civiltà politica senza una precedente riforma religiosa non serve a spiegare la nostra mancata costituzione di una tempestiva unità nazionale e di una cultura nazionale-popolare. Gramsci, con altri, confuta alla radice tale tesi e imputa a ben altre cause l’arretratezza del nostro sistema politico, certamente non curabile con un ‘semplice’ cambiamento di confessione religiosa. Con ciò non si intende dire, naturalmente, che un nazionalismo (uno statalismo, uno “sciovinismo”) italiano sia stato assente, ma che questo è stato di tipo “plebeo”, cioè non nutrito dal sistema di valori propri della modernità politica. Al riguardo così scrive Gramsci:” E’un’osservazione poco fatta che in Italia, accanto al cosmopolitismo e apatriottismo più superficiale è sempre esistito uno sciovinismo frenetico, che si collegava alle glorie romane e delle repubbliche marinaresche e alle fioriture individuali di artisti, letterati, scienziati di fama mondiale” (Quaderni, p. 181). La sua conclusione è che si tratta di un nazionalismo retorico fatto proprio e rilanciato dal fascismo.
Non è possibile dunque saltare la peculiarità della nostra storia e inserirla in una ‘regolarità’ che altri Paesi hanno invece avuto. Dietro la fragilità del nostro sistema politico-sociale c’è una lunga storia fatta di particolarismi, separazioni, ‘ frantumazioni’ mai davvero portati a unità. Sta qui la ragione vera di una vicenda politica fatta sempre di traumi, rotture, collassi. C’è del resto, tra i tanti, un bel libro, non recentissimo, di Massimo L. Salvadori che riassume molto bene tutto questo e che vale la pena tenere sempre presente. Nel suo “Storia d’Italia e crisi di regime. Alle radici della politica italiana” (il Mulino 1994) l’autore, esaminando la vicenda dell’Italia postunitaria, spiega molto bene le ragioni per le quali i tre regimi finora avuti -quello liberale, quello fascista e quello democratico-repubblicano- siano stati tutti e tre il risultato di rotture traumatiche, concludendo in modo sconfortante così: “In Italia non si è mai attivato un meccanismo che collocasse forze di governo e forze di opposizione entro le istituzioni dello Stato accolte come un bene comune e una fonte di regole positive da entrambe le parti”. Per questo ogni cambiamento è avvenuto con la sostanziale sospensione delle regole formali capaci di disciplinare la battaglia politica.
Ma quando la politica si ritira viene sempre fuori la società civile nella sua vita disordinata e anarchica. In assenza di un diffuso sentimento della comunità, di uno Stato organizzato, di un saldo spirito pubblico prevalgono gli spiriti selvaggi di un falso civismo. E quella italiana è senz’altro una società civile brada, egoistica, priva del senso di qualsivoglia responsabilità pubblica. Massimo Fini, un intellettuale scettico e sfiduciato, in un libro del 2010 scriveva una cosa terribile: “Un’Italia ormai inguaribilmente corrotta, nelle classi dirigenti come nel comune cittadino, intimamente, profondamente mafiosa, come sempre anarchica ma senza più essere divertente, priva di regole condivise, di principi, di valori, di interiorità, di dignità, di identità. Un’Italia senz’anima”. E di recente: “Il Bel Paese? Una fogna a cielo aperto”. Luca Ricolfi in un suo lavoro di qualche anno fa ha definito la nostra una “società signorile di massa” sottolineandone il benessere materiale diffuso ma anche la grettezza del perseguimento a tutti i costi del vantaggio individuale contro il bene comune. E Mauro Magatti considera questa nostra società (“Corriere della sera” del 20 aprile scorso )incompatibile con la nuova fase storica apertasi, priva della necessaria solidarietà pubblica. Anche altri Paesi, hanno inevitabilmente problemi “da benessere” ma li affrontano meglio perché hanno, appunto, proprio una colla civica unificante che noi non abbiamo. Questa assenza rende tutto più complicato e tortuoso. Come dice Umberto Cerroni, abbiamo una isteria da benessere materiale sgovernata da malessere intellettuale. La struttura della personalità arranca dietro i mutamenti storico-sociali e l’io di massa è ancora uno strumento di ieri e senza l’oggi. Il civismo è travolto dal cinismo, dalla volgarità. Non leggiamo libri e non capiamo perché dovremmo essere più colti anche se è risaputo che senza crescita intellettuale il benessere materiale genera un mondo privo di ideali. Esercitiamo il suffragio universale con largo analfabetismo. C’è una riedizione aggiornata del “familismo amorale” perché non capiamo che la famiglia serve se non esclude il mondo e se include civismo e cultura. La scuola e l’Università arrancano. “Il 28% della popolazione non riesce a comprendere e usare le informazioni che si incontrano nella vita di tutti i giorni, a causa delle non sufficienti abilità nella lettura e comprensione del testo e nel calcolo”, e i giovani preparati lasciano “il Paese alla ricerca di opportunità che qui non trovano” (M. Magatti). Chiudiamo orchestre stabili, teatri, librerie e la cultura arretra nella torre d’avorio e si corporativizza nelle scuole esistenti. Dopo Moravia, Calvino e Pasolini è difficile riuscire a leggere il libro di un nostro autore fino alla fine; il cinema italiano (con qualche eccezione) è in crisi, come il teatro. Il “Rapporto Italia 2024” dell’Istat ci presenta, come è stato detto da noti opinionisti, “un Paese incredibile”. A tutto ciò va aggiunta una qualche predisposizione di parte della società ad accogliere uno sconcertante revisionismo storico che mette in discussione alcune delle basi stesse della nostra Repubblica democratica e che accetta l’equiparazione Salò-Resistenza senza essere sfiorata dal dubbio che se avessero vinto i nazi-fascisti ora non staremmo certamente qui a parlarne.
Il re è nudo: non ci sono alibi. Come dicevamo all’inizio, quello della totale colpevolezza della politica, nel quale siamo portati a rifugiarci, non basta. Serve una moderna società civile senza la quale non c’è patto di cittadinanza. La società civile infatti non è quella teorizzata dal veteromarxismo , per intenderci: la società privatistica borghese atomizzata e depoliticizzata, ma quella analizzata dal Gramsci dei “Quaderni”, ricca di articolazioni non immediatamente politiche ma politico-culturali, dell’organizzazione sociale dell’Europa evoluta.
Bisogna dunque rimettere insieme ciò che nel nostro Paese è sempre stato separato: la politica con la cultura, la cultura con la politica, la società civile con le altre due. La cultura può aiutare la politica a superare il suo divorzio fra sentimenti e ragione. La politica può aiutare la cultura a non indugiare nelle isterie accademiche e professorali. E proprio con l’aiuto della politica e della cultura la società civile può valorizzare la sua vocazione comunitaria.
Egidio ZACHEO
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