Le tre scelte per la nuova Unione

Meglio lasciare perdere il fantasma del populismo. Sarebbe la spiegazione più semplice per l’avanzata dei partiti di destra – anche di quelli più radicali – e la bocciatura sonora della leadership francese e tedesca che, fino a ieri, ha guidato l’Unione. Ma non servirebbe a niente. Per dieci anni le elite europee si sono autoconsolate con l’alibi di un elettorato immaturo, e incapace di sobbarcarsi ai sacrifici – secondo loro – indispensabili per rimanere a galla. Ma in democrazia – piaccia o meno – l’elettorato ha sempre ragione. E il responso delle urne è chiaro: la cinghia è stata stretta troppo, e il vento della protesta è tornato a soffiare forte.

Al momento, i numeri in parlamento sembrerebbero confermare la possibilità che regga la vecchia coalizione, magari con qualche rinforzino. Ma quando si arriverà a fare l’elenco delle priorità finanziarie, i nodi subito si aggroviglieranno. Perché il vero problema dell’Europa è tutto qui: nell’enorme fabbisogno di cassa che servirebbe per fare fronte ai tre obiettivi che sembrano irrinunciabili.

Innanzitutto, il rilancio della competitività sulla base del rapporto Draghi, di cui conosciamo le linee guida e che verrà presentato a breve nel dettaglio. Ne emerge un raffronto impietoso col contesto internazionale, a cominciare dai fondi stratosferici che il governo Usa ha messo a disposizione delle imprese che investono in innovazione. Col risultato di agevolare enormemente la ripresa interna ma anche di attrarre nuovi impianti dalle stesse aziende europee, e addirittura da numerose cinesi. Una stima al ribasso per l’Europa sarebbero 500 miliardi, che basterebbero solo per iniziare.

Accanto alla competitività ci sono i traguardi ecologici, su cui sono stati raggiunti faticosissimi compromessi ma che sono già al centro di dispute e contestazioni. Basta pensare ai due fronti dove appaiono più visibili i paradossi della battaglia verde. Le auto elettriche, che dovevano essere il simbolo della nuova cultura ecosostenibile, sono diventate il cavallo di Troia della penetrazione cinese. Per contrastare il predominio delle marche dell’impero celeste, Biden ha imposto un dazio all’importazione del cento per cento. Per noi è una scelta impossibile, a cominciare dalla Germania che ha nella Cina un mercato chiave di sbocco delle proprie esportazioni. Ma se diventare verdi significa diventare più cinesi siamo sicuri che all’Unione convenga?

L’altro fronte – di cui si parla poco ma che presto diventerà bollentissimo – è quello dell’intelligenza artificiale. Per farsi due calcoli sommari, andare a rileggersi l’articolo di Federico Fubini uscito a metà marzo sul Corriere, in cui venivano impeccabilmente riassunte le gigantesche implicazioni per l’ambiente della rivoluzione dell’AI, con «l’aumento esponenziale dei consumi di elettricità, con tutto ciò che questo comporta per le fonti energetiche e per il clima». L’alternativa – secca – è «accettare una decrescita (più o meno) felice nella quale perdiamo terreno sui Paesi che usano di più le tecnologie e dunque sono più produttivi, più veloci, più ricchi, più capaci di attrarre anche i nostri giovani più istruiti». Qualcuno ha per caso intenzione di portare il bivio all’attenzione del nuovo esecutivo europeo?

Infine – non meno importante – ci sono gli armamenti: nell’immediato in sostegno all’Ucraina ma, secondo l’opinione dominante fino a qualche ora fa, anche e soprattutto in prospettiva per il progetto di un esercito comune. Per fare fronte a un contesto geopolitico mutato drammaticamente nel volgere di pochi mesi, e con l’aggravante che nessuno è in grado di dare più per scontato l’apporto difensivo americano.

Per capire se e come cambieranno gli equilibri nella nuova Unione, piuttosto che perdersi in dispute sulle bandierine ideologiche conviene, dunque, provare a immaginare come verranno affrontate le principali priorità finanziarie, e su quali si penserà di tagliare. È probabile che la scure più pesante cadrà proprio sugli investimenti bellici. Non aspettatevi che lo si dica apertamente. Ma il vento sovranista non promette nulla di buono per la causa ucraina. A parole – almeno all’inizio – è probabile che non cambierà niente. Ma gli aiuti già sono stati molto lenti, e non sarà difficile – per molti governi – continuare a farli rallentare. Quanto all’esercito comune, crescerà – sia a destra che a sinistra – la voce e il peso di quanti pensano che sarebbe meglio, invece, investire qualche sforzo in più nel cercare di spegnere i fuochi piuttosto che alimentarli.

È plausibile che una sorte analoga toccherà alla sfida ecologica. Senza clamore e magari fingendo di non accorgersene, verranno sfumati o rinviati i target già concordati, e sui dossier più spinosi, come i costi energetici della AI, verrà stesa una cortina di ipocrisia.

È sperabile, invece, che si trovi un consenso più ampio e duraturo sugli investimenti indispensabili per non farci tagliare fuori del tutto dalla competizione industriale globale. In fondo, su questo obiettivo, potrebbero concorrere governi anche di diverso orientamento. A cominciare da Giorgia Meloni, che sposerebbe volentieri la causa di un aumento della spesa comune al servizio dello sviluppo. Un messaggio che l’elettorato capirebbe indipendentemente dal colore politico. E di un messaggio unitario l’Europa, in questo difficile tornante, ha un enorme bisogno.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 10 giugno 2024)

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