L’«economista utile»

Pangloss insegnava la metafisico-teologo-cosmo-stoltologia. Egli dimostrava a meraviglia che non c’è effetto senza causa e che nel migliore dei mondi possibile (…) le cose non possono essere diversamente, perché tutto essendo fatto per un fine, tutto è di necessità per il miglior fine.
Voltaire, Candido, Casa Editrice Bietti in Milano, 1973, p. 8

Nel mondo di Pangloss, non sarebbe il caso di preoccuparsi di fenomeni come la povertà e le disuguaglianze, dal momento che, “tutto essendo fatto per un fine”, stiamo vivendo “nel migliore dei mondi possibile”. Sul finire degli anni ’80, in una lettera indirizzata da alcuni tra i più illustri economisti italiani agli “Studiosi di economia politica”[1], dopo aver lamentato il fatto che “una frazione crescente di coloro che si presentano come economisti tende a trascurare l’oggetto sociale della disciplina, per concentrare tutto il proprio interesse nello studio di strumenti analitici sempre più raffinati”, si auspicava la formazione di “nuove generazioni di studiosi di economia politica (…) il cui obiettivo principale [fosse] la comprensione dei problemi della società nella loro concretezza e completezza, nella loro prospettiva storica, nel loro quadro istituzionale” [corsivi nell’originale].

Molte cose sono cambiate da allora, compresa la concezione che gli economisti hanno della loro disciplina. E tuttavia, l’anno prima dell’ascesa alla Presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump, Joseph Stiglitz dava alle stampe un libro[2] nel quale il Premio Nobel metteva l’accento sulla necessità di riscrivere le regole dell’economia, al fine di ridurre le enormi disuguaglianze esistenti e allo scopo di affrontare le “grandi forze globali” della tecnologia, della globalizzazione, delle tendenze demografiche e dei cambiamenti climatici.

Inoltre, è appena uscita l’edizione italiana del libro di Binyamin Appelbaum, editorialista economico del New York Times, il quale, a conclusione della sua disamina sulla disgregazione della società americana, sottolinea il fatto che “L’ostinata indifferenza per la distribuzione della prosperità, nell’ultimo mezzo secolo, è un motivo importante per cui la sopravvivenza stessa della democrazia liberale viene, oggi, messa alla prova da demagoghi nazionalisti, com’era accaduto negli anni Trenta”.[3] Quanto agli economisti di casa nostra, Francesco Saraceno, nel passare in rassegna l’evoluzione del pensiero economico, ha recentemente dedicato un suo libro a “Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia”,[4] e Mauro Gallegati, nel suo recentissimo pamphlet mentre sollecita gli economisti ad adottare il recente approccio della complessità, mette in dubbio il paradigma liberista che “Il mercato rende liberi”.[5]

Viene da chiedersi: esiste ancora l’«economista utile»? Una risposta a questa domanda la fornisce la pregevole monografia sulla vita di Giorgio Fuà (1919-2000) dedicata, in occasione del centesimo anniversario della nascita del grande economista anconetano, dallo storico Roberto Giulianelli.[6]

Il professor Giorgio Fuà, che ho avuto l’onore e il piacere di conoscere personalmente, nella sua qualità di autentico “imprenditore culturale”, nel 1959 ha gettato le basi per la costruzione della “Facoltà di economia e commercio di Ancona”, quale sede distaccata dell’Università libera di Urbino divenuta, dalla fine degli anni Sessanta, “Università degli Studi di Ancona”, fino ad assumere dal 2003 l’attuale denominazione di “Università Politecnica delle Marche”. Sulla base della sua esperienza personale di collaboratore di importanti istituzioni nazionali, tra le quali la Olivetti, un’azienda “che interpreta come biunivoco il rapporto tra impresa e territorio”, Fuà ha dato vita nel 1967 anche alla Scuola manageriale dell’Istituto Adriano Olivetti, nota con l’acronimo di ISTAO, il cui scopo è quello “di formare figure di responsabilità e leadership”. Nella Introduzione al volume, il professor Pietro «Piero» Alessandrini, che ha fatto parte del gruppo degli allievi di Fuà (noto come “Gruppo di Ancona”), rammenta come il suo maestro invitasse “i colleghi a dare contenuti prescrittivi alle loro analisi, senza rifugiarsi in alchimie algebriche che li allontanano dal pubblico”, dal momento che “il fascino e la scomodità del mestiere dell’economista” consisteva nel «dare suggerimenti concreti per il miglior funzionamento dei meccanismi sociali, quali sono nel mondo reale che lo circonda».[7]

Tutto ciò premesso, confesso di essere rimasto particolarmente colpito dalla lettura del servizio apparso sull’inserto D di Repubblica del 29 maggio scorso su “L’economia dal volto umano”. In esso è stato illustrato il percorso intellettuale che ha portato per la prima volta una donna (di origini egiziane), «l’economista utile» “Minouche” Shafik, alla guida della prestigiosa London School of Economics and Political Science. Dopo essere stata la “più giovane vice-presidente della Banca Mondiale ed avere ricoperto la carica di segretario generale del Fondo Monetario Internazionale e di vice-governatrice della Banca d’Inghilterra”, nel suo nuovo libro, appena pubblicato in Italia, Shafik tratta “della necessità di trovare un nuovo paradigma che riformuli la cooperazione tra stato e famiglia, uomini e donne, lavoratori e imprese”.[8] «Se vogliamo sconfiggere i populismi e ridurre le disuguaglianze – sostiene la neo-direttore della LSE –, dobbiamo riscrivere il contratto sociale che ci unisce. (…) Si tratta di ripensare a come cresciamo i figli, al sistema educativo, alle regole del mondo del lavoro, a sanità, welfare e all’assistenza dei vecchi».

Alla domanda dell’intervistatrice su quali siano “le pietre angolari di questo nuovo patto” «l’economista dal volto umano» “Minouche” Shafik risponde: “Dobbiamo dare le stesse opportunità a tutti, dovunque siano nati e indipendentemente da classe sociale o genere. Lo stato deve garantire tre cose: primo, la sicurezza economica e sanitaria e il minimo indispensabile per una vita dignitosa. Poi l’istruzione, per sviluppare al massimo i talenti, specie quelli delle donne, perché rompere le barriere sociali e culturali paga: (…) infine assicurare un’equa divisione dei rischi. Il noi deve contare più dell’io: le persone dovranno lavorare più a lungo e curarsi di più della propria salute grazie alla telemedicina per non sbilanciare il welfare, le imprese dovranno pagare contributi e tasse giuste e chi inquina dovrà pagare i danni che fa”. Concordo pienamente sulla necessità di “riscrivere il contratto sociale che ci unisce”, poiché, in caso contrario, conclude la sua intervista “Minouche” Shafik, “Avremo più disuguaglianze, più polarizzazione politica. E i muri dietro cui si proteggono i ricchi saranno sempre più alti”.

Tuttavia, dubito fortemente che in questa “fase normale” della Scienza inutile, dominata dalla critica alle bugie del neoliberismo e dalla ricerca di “nuove regole dell’economia”, possa essere sufficiente la perorazione, per quanto autorevole, di una «economista dal volto umano» affinché il nuovo “contratto sociale che ci unisce” veda la luce. Lo storico e filosofo della scienza Thomas Kuhn (1922-1996), ben noto tra i cultori dell’Economia per le sue idee su Come mutano le idee nella scienza [9], già da tempo aveva evidenziato l’impossibilità “di passare dal vecchio al nuovo soltanto per aggiunta a ciò che già si conosce”.[10] La riscrittura del “contratto sociale” richiederebbe infatti una “fase rivoluzionaria”, nel corso della quale – come scrive Paola Dessì alle pagine 13 e 14 della Presentazione al pamphlet di Kuhn –, gli scienziati, anziché “cercare soluzione ai problemi nell’ambito di teorie consolidate, fermamente convinti che prima o poi la soluzione si troverà”, riuscissero a concepire “un nuovo modo di guardare il mondo e i suoi problemi”.

di Bruno Soro

Alessandria, 29 giugno 2021

  1. G. Becattini, O. Castellino, O. D’Alauro, G. Fuà, S. Lombardini, S. Ricossa, P. Sylos Labini, “La Repubblica”. Anno XIII, n. 211, 30 settembre 1988, p. 10. Cfr. Fuà, Giorgio and Becattini, Giacomo, “Studiosi di economia politica,” Repository Fondazione Fuà, accessed June 16, 2021, https://giorgiofua.univpm.it/items/show/119.
  2. J. E. Stiglitz, Le nuove regole dell’economia. Sconfiggere la disuguaglianza per tornare a crescere, il Saggiatore, Milano 2016.
  3. B. Appelbaum, Il tempo degli economisti. Falsi profeti, libero mercato e disgregazione della società. Hoepli, Milano 2021, p. 350.
  4. F. Saraceno, La scienza inutile, LUISS University Press, Roma 2018.
  5. M. Gallegati, Il mercato rende liberi. E altre bugie del neoliberismo, LUISS University Press, Roma 2021.
  6. R. Giulianelli, L’economista utile. Vita di Giorgio Fuà, il Mulino, Bologna 2019.
  7. P. Alessandrini, Introduzione al libro di cui alla nota precedente, p. 15.
  8. N. Shafik, Quello che ci unisce. Un nuovo contratto sociale per il XXI secolo, Mondadori, Milano 2021.
  9. T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee della scienza, Einaudi, Torino 1969, p. 196.
  10. T. Kuhn, Le rivoluzioni scientifiche, il Mulino, Bologna 2008, p. 24.

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