L’eredità di Draghi

 Vista dal cortile di casa, la crisi in cui è precipitato il paese è figlia della rissosità dei partiti, cresciuta e diventata incontrollabile con l’avvicinarsi delle elezioni. Ma il quadro internazionale – purtroppo – non è poi tanto diverso. Dalla Gran Bretagna di Johnson agli Stati Uniti di Biden, passando per la Francia di Macron, le democrazie fanno sempre più fatica a trovare un po’ di stabilità. Anche quando i sistemi istituzionali offrirebbero il supporto di leadership con più poteri dei nostri traballanti Primi ministri. A conferma che, oltre ai partiti, sono in difficoltà anche le leadership. Per qualche anno era sembrato che la «democrazia del leader» potesse compensare il declino della democrazia dei partiti. Oggi, i leader forti e autorevoli appaiono necessari, ma non sufficienti. Ancor più – come la guerra ci sta mostrando – al cospetto di regimi autocratici che raccolgono – e manipolano – il consenso con altri mezzi, meno complessi delle nostre obsolete procedure.

In questa chiave, però, il rimpianto di aver perso Draghi non diminuisce, cresce. Perché è sempre più raro – rarissimo – che emergano personalità capaci di orientarsi e addirittura orientare il nuovo sistema dei poteri. In cui – come ha ricordato Tremonti in un recente intervento ad Omnibus – la globalizzazione ha messo sotto scacco le democrazie home made. I nostri partiti sono figli della prima metà del Novecento, e hanno costruito i loro canali di rappresentanza e identità su blocchi sociali ormai in frantumi. E con circuiti decisionali incardinati sul passaparola umanoide. Oggi, finanza e Ict governano con poca trasparenza flussi redistributivi che cambiano, in pochi nanosecondi, gli equilibri geopolitici del pianeta. Provate a spiegarlo ai candidati che, in queste settimane, si azzufferanno per aggiudicarsi un vitalizio in parlamento.

Questa abissale distanza – antropologica prima ancora che culturale – spiega meglio di ogni chiave politica perché Draghi si sia stancato. Non certo fisicamente. Ma psicologicamente non ha retto la convivenza protratta con un mondo di alieni. Lui, cresciuto nel mondo reale in cui si fanno le scelte che incidono sulla vita e il futuro del pianeta. Il mondo da cui il nostro ceto politico continuerà a rimanere escluso.

Ora che la scissione è avvenuta, è inutile domandarsi se poteva essere evitata. Se, accanto alle incompatibilità, abbia giocato anche qualche limite caratteriale. La domanda che resta sul tappeto è un’altra. Si può immaginare un’evoluzione del nostro sistema politico che prescinda dall’eredità di Draghi, dalla lezione del suo passaggio? Basti pensare alla svolta presidenziale – o semipresidenziale – da tanti evocata e mai finalizzata. Chi dubita che Mario Draghi, ci fosse stata un’elezione diretta, avrebbe stracciato ogni competitor? E davvero si può oggi escludere che – pur nei tempi ristrettissimi che ci separano dalla presentazione delle liste a ferragosto – si debba provare a formare un rassemblement che si richiami a quel vastissimo movimento d’opinione che aveva spinto – costretto – il premier a confrontarsi col Parlamento?

Sia chiaro. L’eredità di Draghi non riguarda un’opzione neocentrista che vada oltre gli schieramenti pseudo-bipolari su cui i partiti stanno frettolosamente cercando di riappattumarsi. Prima ancora che una scelta di merito è una innovazione di sistema. Significa riconoscere il primato del tecnoleader sui vecchi partiti, del carisma sulle appartenenze ideologiche, del governo sul parlamento, dell’orizzonte geopolitico globale su quello vetero nazionale. È probabile che ad incarnare questo ruolo sarà un nome, e una personalità, diversa. Ma sarebbe un gravissimo errore pensare di lasciarsi alle spalle la Draghi legacy come se potesse coincidere con la sua vicenda personale. Magari con l’illusione che si possa tornare a un leader toto politicus, meglio ancora se toto partiticus. Draghi non è stata una parentesi. È stata, intensa e vitale, l’esperienza di come un paese come il nostro possa rimettersi in carreggiata con la Storia. Questa esperienza può e deve nutrire le nuove generazioni che vogliono riprendersi in mano il destino. Come che andranno le prossime elezioni, questo non è che l’inizio.

di Mauro Calise

(“Il Mattino”, 25 luglio 2022).

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