Letteratura e scienza – “Il silenzio” di Don DeLillo (Einaudi)

Proprio quando sempre più scienza e tecnica ci consentono di osservare orizzonti grandiosi e, fino a poco tempo fa, del tutto imprevedibili, paura e smarrimento si impadroniscono della nostra volontà e della nostra intelligenza. Persino quando la stessa lotta contro la morte individuale comincia a presentare qualche possibilità di vittoria, noi, di converso, sentiamo maggiormente la costrizione di una vita che appare sempre più difficile e umanamente debole. Ci sentiamo impreparati e indifesi di fronte alle straordinarie novità e potenzialità della nostra epoca. Viviamo il paradosso che proprio una migliore situazione oggettiva ci impedisce poi di dare un giudizio positivo della nostra condizione soggettiva. Anche se non sempre a torto, dello sviluppo tecnico-scientifico tendiamo a cogliere soprattutto il rischio di un futuro non governabile da noi. Il fatto stesso di poter soltanto immaginare la possibilità di una “civiltà transumanista”, fatta di cyborg, cioè di organismi cibernetici o bionici, risultato di una combinazione tra uomo e macchina, di poter già effettuare una “sospensione criogenica” per conservare la mente in un altro corpo (magari artificiale), lascia completamente attoniti. Come sempre, sono proprio l’arte e la letteratura a segnalare meglio questi “drammi dell’assurdo” e le sofferenze che generano in ciascuno. In campo letterario, in particolare, si è affermata una narrativa che esplicitamente affronta il complesso rapporto fra sviluppo tecnico-scientifico e sua ricaduta sulla condizione umana. Su tutto questo, c’è una “produzione” internazionale di alto livello. Basti pensare, per esempio, ai romanzi dell’irlandese Mark O’Connell, dell’inglese Jan McEwan, dello statunitense Jonathan Lethemi, del premio Nobel anglo-giapponese Kazuo Ishiguro: tutti veri e propri “classici”. La narrativa italiana, invece, di questi temi si occupa molto poco: oltre ad Alessandro Baricco, non mi pare che ve ne siano molti altri. Anche questo è il segno di una perifericità che si aggiunge a quello dell’economia e dell’arte. Anche nella cultura, insomma, siamo diventati un paese chiuso e provinciale. In campo letterario dilaga il genere poliziesco, il noir, un (auto)biografismo insignificante, una narrativa appunto “di genere” che non riesce ad elevarsi e a delibare i temi dell’uomo universale. A questi temi si eleva, eccome, l’ultimo, imprevedibile, originale romanzo dell’italo-americano Don DeLillo. “Il silenzio”(Einaudi, pp.104) è un romanzo breve che, però, in poche pagine, rivoluziona i canoni narrativi tradizionali. Il black-out totale, al culmine di una importante partita di Super Bowl, lascia i cinque personaggi protagonisti non solo del tutto confusi e impotenti, ma anche in preda ad un linguaggio sincopato e frammentato, illogico. Senza illuminazione, senza tv, senza computer, senza cellulare, la stessa qualità umana fondamentale come la parola perde la sua plausibilità. Così, la misura esatta della dipendenza dalla tecnologia si ha proprio non quando questa è presente, ma proprio quando non c’è più, quando è assente. Si vaga, per questa assenza, non solo nell’oscurità fisica, ma anche in quella mentale e lessicale. Le cose non solo sembrano prendere il sopravvento sugli uomini, ma manifestano anche una autonomia e capacità di “autodirezione” di cui l’uomo appare invece privo. Non più l’oggetto dipende dal soggetto, ma il soggetto dall’oggetto. In un momento di lucidità, uno dei personaggi si rende conto che con quel black-out l’intelligenza artificiale <<tradisce ciò che siamo e il modo in cui viviamo e pensiamo>>, e si interroga: <<Ci troviamo a vivere in una realtà alternativa? Un futuro che per il momento non dovrebbe ancora prendere forma?>>. Insomma: un mondo stregato e capovolto, dove i mezzi costruiti per l’uomo non fanno dell’uomo il loro fine. Come uscirne? L’arte ci fa conoscere verità esistenziali come nessun’altra attività umana, ma non è in grado di darci soluzioni. Le soluzioni infatti possono venire solo dalla critica che su tali verità esistenziali esercita la riflessione scientifica. Arte e scienza sono, perciò, alleate strette: due dimensioni umane che si aiutano reciprocamente. Nel libro di DeLillo, in modo confuso e disordinato, c’è anche il tentativo di indicare qualche via d’uscita: quella di un superamento volontaristico ed “eticistico” del mezzo che porta uno dei personaggi ad “inventarsi” la telecronaca diretta della partita a schermo spento (<< E’ lo schermo nero a stimolare l’immaginazione di Max, a dargli la sensazione che la partita si stia svolgendo chissà dove nello Spazio Profondo al di fuori della fragile portata della nostra consapevolezza attuale>>). Oppure, quella di una illusoria conquista della libertà umana contro la scienza e la tecnica nell’abbandono alla dimensione istintuale e sessuale (Jim e Tesse che fanno sesso, proprio in un momento di grave emergenza, nella toilette di un ospedale). Oppure, quella più plausibile, della presa di coscienza che si tratta di una questione sociale e non individuale, di rapporti umani alienati, che mette un altro personaggio nelle condizioni di capire che è un fatto di “sistema” ( <<Il capitalismo è un sistema economico nel quale i mezzi di produzione e quelli di distribuzione appartengono a privati o a imprese>>). Ma, naturalmente, a questo punto DeLillo non può andare oltre, proprio perché è “soltanto” uno scrittore e non anche uno scienziato. A questo punto, è l’arte che ha bisogno della scienza. Nel caso specifico: della scienza sociale. Cioè: dello studio della società secondo criteri oggettivi. Propri della scienza, per l’appunto.

Egidio Zacheo

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