L’euro di Stiglitz

 

“… la retorica non ha fatto grandi passi come la scienza e tuttora è principalmente impiegata per adescare le popolazioni per suggestione.”

Carlo Bernardini (1930-2018), Prima lezione di fisica, Editori Laterza, Bari 2008, p. 46.

è vero, come sostiene Stuart Firestein nel suo bellissimo Viva l’ignoranza! Il motore perpetuo della Scienza (Bollati Boringhieri, Torino 2013) che “le domande sono più importanti delle risposte”. Ciò poiché quel che non sappiamo è infinitamente più grande di ciò che conosciamo. è infatti il porsi le domande giuste su quali siano le regole che sottendono al funzionamento di un dato meccanismo che consentono di fornire una risposta adeguata, ma soprattutto di valutare correttamente le conseguenze della risposta stessa. E questo vale, a maggior ragione, se chi scrive senza porsi le domande giuste, è Joseph Stiglitz, Premio Nobel dell’Economia nel 2001.

Smarritasi nel giardino del Paese delle meraviglie, Alice chiese al Gatto: “- Micino Paraguay (…) mi potrebbe dire, per favore, che strada devo prendere per uscire di qui? – Dipende in buona parte da dove lei vuole andare – rispose il Gatto”.[1]

A conclusione del suo “Salvare l’euro è sempre più difficile” (Internazionale 1261 │ 22 giugno 2018, p. 36), Stiglitz scrive: “L’Italia è grande abbastanza e ha economisti di sufficiente valore per gestire un’uscita dall’euro istituendo una doppia valuta flessibile che potrebbe permettere un ritorno alla crescita. Questo violerebbe le norme sull’euro, ma a quel punto toccherebbe a Bruxelles gestire l’uscita del paese dall’Unione”. E prosegue: “Il problema centrale è correggere i disallineamenti del tasso di cambio, come quello di cui soffre l’Italia”. Queste affermazioni del Premio Nobel sottendono alcune domande alle quali il Gatto Paraguay avrebbe prioritariamente risposto alla maniera di Alice.

Prima domanda: la crisi economica che l’Italia sta attraversando è imputabile all’euro, o non è piuttosto una delle conseguenze del modo in cui è stato (mal) gestito il cambio della moneta? Seconda domanda: a meno di un colpo di Stato, stando alle norme esistenti (nazionali e/o dei Trattati internazionali sottoscritti dal nostro paese), è possibile un’uscita unilaterale dell’Italia dalla moneta unica? Terza domanda: sarebbe sufficiente “correggere i disallineamenti del tasso di cambio” per sanare gli squilibri commerciali esistenti nell’Eurozona? Tre domande che nell’articolo citato il Premio Nobel non si è posto, ma che sono state ampiamente sviscerate nel suo corposo libro L’Euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa” (Einaudi, Torino 2017), per molti aspetti assai istruttivo e pregevole, come nella Postfazione dedicata alla “Brexit e alle sue conseguenze” (pagine 333-366).

Circa la prima domanda Stiglitz scrive: “E’ da quando è stato introdotto l’euro che l’economia italiana registra prestazioni mediocri”. Vero. Ma non è così se si allunga lo sguardo a prima dell’introduzione dell’euro. I dati sull’evoluzione dell’economia italiana dall’Unità d’Italia ai giorni nostri, messi a disposizione dal poderoso studio condotto dal Centro Studi della Banca d’Italia nel 2011, mostrano come, dal Secondo Dopoguerra, l’economia italiana abbia attraversato ben cinque crisi (quella petrolifera del triennio 1973-‘75; la crisi finanziaria del 1992-‘93; la stagnazione del 2002-‘03, poi la Grande Crisi del 2008-‘10 e infine quella dei debiti sovrani del 2011-12), ma soprattutto come, di decennio in decennio, l’economia italiana abbia visto rallentare la sua crescita: dal 6,2% degli anni ’60, al 3,8% degli anni ’70, al  2,3% negli anni ’80 e ‘90, allo 0,5% degli anni dal 2000 in poi, con una netta tendenza decrescente per tutto il periodo. Tutta colpa dell’euro? Storici dell’economia e alcuni tra i più quotati economisti italiani[2] riconducono l’inizio della fase di declino dell’economia italiana agli effetti delle grandi trasformazioni degli anni ’70. Cinque crisi la cui responsabilità non può certo essere imputata all’euro, hanno fatto il resto.

Sulla seconda domanda, rinvio ad una mia intervista rilasciata a Panorama di Novi nella primavera dello scorso anno. Alla richiesta di esprimermi sulla possibilità di una eventuale uscita dell’Italia dall’euro, nonché sulla convenienza ad uscire dalla moneta unica, sostenevo (e sostengo) che “La risposta ad entrambe le domande è semplice e inequivocabile: no, e no”. Dal combinato disposto degli articoli dal 121 al 124 del Trattato sull’Unione Europea si evince infatti che (salvo la Gran Bretagna e la Danimarca che hanno contrattato ab initio una deroga permanente) ai sensi del paragrafo 3 dell’art. 122, l’ingresso nell’euro non è una facoltà degli Stati membri dell’Unione Europea, bensì un obbligo. Inoltre, l’opinione dominante degli esperti di Diritto dell’Unione Europea da me interpellati è che senza una modifica del Trattato di Maastricht l’uscita dall’euro non sia possibile. Non solo infatti non è prevista alcuna procedura per l’espulsione di uno Stato membro, ma tutta l’impalcatura europea è orientata a trattenere il paese o i paesi in difficoltà e non ad estrometterli. Il successivo Trattato di Lisbona del 2007, all’art. 49A ha modificato il Trattato sull’Unione Europea, introducendo il diritto di ogni Stato Membro, dopo averne comunicato l’intenzione al Consiglio europeo, di “decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione”. Pertanto, allo stato attuale della normativa europea la permanenza nella moneta unica è inscindibile dalla permanenza nell’Unione Europea: non si può uscire dall’euro rimanendo nell’Unione Europea. Ovviamente, la perdita della qualifica di Stato membro comporterebbe il venir meno di tutti i benefici derivanti dell’appartenenza alla Unione stessa. Con buona pace di chi pensa il contrario, ciò vale sia per gli “economisti di sufficiente valore”, sia per il Premio Nobel Joseph Stiglitz.

Circa la terza e ultima domanda, conoscendo gli scritti e l’orientamento keynesiano del pensiero di Stiglitz, sono certo che egli sa benissimo che, con riguardo alle esportazioni dei Paesi maggiormente industrializzati (e non vi è dubbio che tutti i Paesi dell’Eurozona lo siano) il “riallineamento dei tassi di cambio” non sia affatto il meccanismo più efficace per il riequilibrio degli scambi commerciali. Ciò dal momento che per questi paesi la competitività sulla qualità dei prodotti è assai più importante rispetto a quella basata sul loro prezzo (e il Presidente Trump, con la sua politica dei dazi, avrà modo di accorgersene quanto prima). D’altra parte, sono altrettanto sicuro che il Premio Nobel sia a conoscenza del primo progetto di unione monetaria internazionale elaborato da John Maynard Keynes, avente lo scopo di contrastare, in un contesto di cooperazione tra pari, le svalutazioni competitive. Quel Piano prevedeva: un sistema di parità fisse, ma aggiustabili tra le monete, una banca mondiale in grado di emettere una moneta internazionale (denominata “bancor”, per molti aspetti simile all’euro), e un fondo internazionale di stabilizzazione per compensare i vantaggi e gli svantaggi del sistema di parità fisse. Nella impossibilità dell’aggiustamento tra le monete non più esistenti, l’Eurozona, rispetto al Piano di Keynes, non possiede ancora un fondo di stabilizzazione, perché osteggiato dalla Germania, la cui economia ha maggiormente lucrato in tutti questi anni i vantaggi dell’introduzione della moneta unica. Sorvolando peraltro su altre importanti carenze dell’Unione Europea, ben evidenziate da Sergio Fabbrini nei suoi editoriali su Il Sole 24 Ore, che hanno favorito l’affermazione in tutti i Paesi dei nazionalismi e delle varie forme di populismi.

Per concludere, concordo pienamente con il Premio Nobel Joseph Stiglitz, che l’Italia abbia “economisti di sufficiente valore”, come ad esempio Francesco Giavazzi, Lucrezia Reichlin e Luigi Zingales, ma non per “gestire un’uscita dall’euro”, bensì avanzando nella loro Lettera aperta al Presidente del Consiglio (pubblicata sul Corriere della Sera di sabato 23 giugno) “Quattro proposte su come proteggere l’interesse italiano in Europa”, e perorando nel contempo la causa “di un impegno non ambiguo dell’Italia a restare nell’euro”.

 

Alessandria, 25 giugno 2018

[1] Consiglierei la lettura di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carrol, pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson (1832 – 1898) – del quale ricorre quest’anno il 120 anniversario della morte -, filosofo, matematico e logico dell’Università di Oxford, nonché affascinante scrittore di nonsense, a quanti, giovani e meno giovani, non lo avessero ancora letto.

[2] Per non citare che lo stesso Giovanni Toniolo, L’Italia e l’economia mondiale, 1861-2011, Banca d’Italia, Roma 2011, e Emanuele Felice, Ascesa e declino. Storia economica d’Italia, il Mulino, Bologna 2015 o economisti come Augusto Graziani (1933-2014) Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta unica, Boringhieri, Torino 1998, Marcello De Cecco (1939-2016), Una crisi lunga mezzo secolo: le cause profonde del declino italiano, in Economia italiana, n. 3, 2012 M. D’Antonio, La crisi dell’economia italiana. Cause, responsabilità, vie d’uscita, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*