L’euro ha vent’anni

Col primo gennaio del 2019 l’Italia ha festeggiato il ventesimo anniversario dell’appartenenza al club dell’euro , che nel  1999 diveniva la moneta unica dei 12 paesi che costituivano l’eurozona. In quella data sono stati fissati i tassi di cambio che sarebbero diventati irreversibili. Nei tre anni successivi è stato utilizzato solo per i pagamenti elettronici, mentre si si impiegavano le valute nazionali per gli acquisti domestici, poi si è passati stabilmente all’euro. Nella giovane vita dell’euro possiamo individuare due periodi, nei primi dieci anni piuttosto sereni, nessuno tra politici e mercati lo contestava, né  metteva in dubbio la sua esistenza, i capitali affluivano copiosi grazie all’azzeramento del rischio cambio.

Nel primo decennio sono stati tuttavia commessi alcuni errori, il livello di aggancio tra lira e euro è stato alto, ma fu più grave lasciar credere che i debiti sovrani dei paesi aderenti all’euro fossero del tutto privi di rischio e che le banche non fossero vincolate ad accumulare capitali a fronte di acquisti di bond governativi. L’Italia e altri paesi del Mediterraneo, agli occhi dei mercati, diventarono paesi ad alto rendimento e numerosi capitali affluirono dall’estero grazie all’elevato rendimento dei nostri bond sovrani. Questo momento magico fu letteralmente sprecato, l’Italia inguaribile cicala non mise da parte, in un fondo sovrano, i capitali in valuta estera, come avevano fatto quasi tutti i paesi emergenti, e si fece cogliere nelle peggiori condizioni nel 2009 quando le piombò addosso il cigno nero della crisi finanziaria globale. I capitali esteri furono richiamati e l’Italia fu costretta all’austerità, la produzione industriale cadde del 25% portandosi dietro un’ondata di fallimenti che negli anni successivi avrebbero messo in situazione critica le nostre banche onerandole di Npl.

Il secondo decennio molto travagliato è iniziato con la crisi greca seguita dalla fase convulsa dei debiti sovrani. All’inizio del 2010, il governo di George Papandreu svelò che il deficit reale greco superava il 15%. Il paese perse la fiducia degli investitori e in quelle circostanze sarebbe servito un piano finanziario rapido per consentirle il rifinanziamento. Da quel momento il destino dell’Unione lo decise Angela Merkel la cui politica avrebbe condizionato tutti gli eventi degli ultimi dieci anni. La Cancelliera si rivelò contraria a finanziare la Grecia ritenendo che questa decisione avrebbe finito con l’incoraggiare “l’azzardo morale” per tutta l’area e prevalse la soluzione punitiva. Sarebbe bastato un po’ di sano realismo, quello che contraddistingue i veri leader dagli ottusi tecnocrati, per evitare che il contagio della crisi di sfiducia si allargasse a contaminare Portogallo, Spagna, Cipro e infine Italia. Bastava che la Ue garantisse la copertura integrale per un certo periodo del debito greco di nuova emissione per rassicurare gli investitori e forse l’Unione non avrebbe avuto bisogno di sborsare neppure un euro. Parigi e Berlino, durante la crisi della Grecia,   si attivarono solo per mettere in salvo le loro banche convertendo per prima Atene e poi Roma in capri espiatori. Ne sono seguiti anni di insulti anche in sedi istituzionali, come tutti ricordiamo: “Il sud Europa spende i suoi soldi in alcol e donne e poi chiede aiuto” (Jeroem Dijsselbloem ex-presidente Eurogruppo)

La Troika ha lasciato Atene nell’agosto dello scorso anno, ha speso 288 miliardi per salvare l’economia greca il cui Pil è passato da 240 miliardi a 180, ancora oggi inferiore a quello che aveva nel 2007: un disastro, un perfetto esempio di follia al potere. ”Hanno creato un deserto e lo hanno chiamato pace” commentò in seguito Yanis Varoufakis, ex-ministro delle Finanze greco. Lo stesso schema venne replicato in Irlanda e Portogallo e infine la crisi di sfiducia approdò nel 2011 in Italia con l’esplosione dello spread e la caduta del governo Berlusconi. Ma anche in questa fase la Cancelliera pretese, a difesa della moneta unica, un rigoroso rispetto delle regole specie in ambito fiscale, impose il Fiscal Compact e un piano di riduzione del debito sovrano al 60% del Pil da attuare in 20 anni in cambio del consenso a politiche monetarie espansive per contrastare la bestia nera della deflazione. Per il Bel Paese richiese una cura da cavallo con gli esiti economici disastrosi che tutti ricordiamo. La crisi si trasformò in depressione e da paese fortemente europeista, membro fondatore, l’Italia si è ritrovata in seguito con una maggioranza euroscettica. L’euro era diventato nella percezione dei più una specie di gabbia, un giogo per i più deboli, il cui unico messaggio lanciato ai mercati era quello che ciascuno doveva arrangiarsi in proprio, senza contare sulla disponibilità di altri. Niente di strano se oggi in Italia i populisti anti-establishment sono al governo. La linea dura della non-leader tedesca stava portando nel 2012 l’euro a scomparire, fu l’intervento di Draghi a scongiurare questa drammatica conclusione con l’indimenticabile “whatever it takes” a riprova che ai mercati servisse unicamente una garanzia sovranazionale.

Quest’anno, oltre alla celebrazione del ventennale dell’euro, assisteremo anche alla nomina del quarto governatore della Bce, il mandato di Draghi scade infatti a fine ottobre e sulla nomina del successore non esiste per ora alcuna indicazione. Si pensava sarebbe toccato a Jens Weidman, l’attuale capo della Bundesbank, ma sembra che Berlino punti al controllo della Commissione europea per la quale ha messo in pista, per le prossime elezioni europee, il bavarese Manfred Weber, merkeliano di ferro. Dalla rosa dei papabili sono esclusi l’Italia e la Francia che hanno già avuto i loro rispettivi governatori a capo della Bce.  La Spagna attualmente ha già sistemato nel board il vice-governatore Luis de Gringos. Probabilmente toccherà a qualche medio o piccolo stato del Nord Europa o della Scandinavia a esprimere un candidato, come Olli Rehn l’attuale governatore della banca centrale finlandese oppure l’austriaco Ewald Nowotny. L’importante è che venga scelto qualcuno che sia in grado di cogliere la complessità politica di questa unione monetaria e che, oltre a seguire pedestremente le regole, le sappia anche interpretare come fece Draghi nelle situazioni più difficili, e che si impegni ad evitare che tra nord Europa filo austerity e sud lassista si possano determinare tensioni pericolose per l’Unione. Vedremo i risultati delle elezioni europee, e il nuovo assetto politico e istituzionale che determineranno, se incideranno sulla nuova nomina.

Draghi se ne va senza che sia avvenuto il completamento dell’Unione Bancaria, l’ultimo pilastro riguardante le garanzie europee sui depositi. Le sue politiche monetarie hanno permesso di abbassare il costo del servizio del debito italiano, che è passato infatti dagli 82 miliardi di euro del 2012 ai 65-66 dell’ultimo biennio pari al 3,8% del Pil, e, sembra impossibile, si prevede diminuirà ulteriormente. Questo perché progressivamente dopo il 2012 abbiamo rimpiazzato un debito più costoso con uno meno costoso, a causa della diminuzione dei tassi di interesse delle nuove emissioni.  Il costo del debito ha raggiunto il minimo nel 2016 con lo 0,55% di interesse per le nuove emissioni, è leggermente aumentato nel 2017 allo 0,68% e infine all’1,07% nel 2018. Il Tesoro sta continuando a rifinanziarsi a costi più bassi rispetto a quello dei bond venuti in scadenza. Attualmente circa i due terzi del debito in essere risultano emessi dal 2013, quando i rendimenti iniziavano la discesa soprattutto con l’arrivo del Qe partito nel 2015. Il calo proseguirà fino a quando le nuove emissioni costeranno di più di quelle in scadenza. Purtroppo questi risparmi sono stati utilizzati dai governi passati in altri capitoli del bilancio, per sostenere la spesa pubblica sempre in aumento. Si apre però un’altra finestra di opportunità che dovrebbe essere finalizzata alla sistemazione dei nostri conti pubblici. Faremo di nuovo le cicale ipotecando i nuovi risparmi?

E’stato calcolato che la Bce di Draghi ci ha regalato fino 15 miliardi all’anno di minori interessi e ora che è cessato il Qe e rimangono soli i reinvestimenti degli asset in scadenza, i tassi di interesse sui bond torneranno a salire.

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