L’Europa prigioniera dell’intelligenza primordiale

C’è, comprensibilmente, molta attesa per il documento con cui Mario Draghi presenterà al prossimo Ecofin alcuni scenari sulla competitività del sistema europeo. Nessuno, però, si fa illusioni. Le cifre snocciolate ieri, su queste colonne, da Giuseppe Vegas mostrano che, negli ultimi dieci anni, il nostro reddito pro capite è rimasto invariato (senza contare l’inflazione), mentre è aumentato del 50% negli Usa e di quattro volte in Cina. Dietro questo tracollo c’è, innanzitutto, la perdita di investimenti e di know-how sul fronte strategico dell’innovazione, il digitale. L’Europa è rimasta indietro nei processi di trasformazione industriale ed aziendale che hanno scandito la trasformazione dell’economia globalizzata. Un ritardo accentuato dall’innesto – rapidissimo e su larga scala – dell’Intelligenza artificiale in tutti i principali settori e servizi di attività.

Purtroppo, per provare a colmare questo divario, non bastano i buoni propositi e qualche investimento più corposo di cui – tra mille contrasti – si sta cominciando a parlare. Per due ostacoli che si presentano, all’atto pratico, insormontabili. Il primo riguarda la mancanza di aziende in grado di competere in prima persona sulla scena internazionale.  Non c’è nessuna società europea tra le prime dieci nella classifica mondiale del settore tecnologico, dove la somma delle prime cinque – Microsoft, Apple, Alphabet, Google e Nvidia – supera di gran lunga il prodotto nazionale lordo del Giappone. Si tratta, inoltre, di aziende la cui crescita ha registrato una notevole accelerazione proprio grazie all’intelligenza artificiale, le cui applicazioni – direttamente o indirettamente – controllano. Questo vantaggio è frutto di scelte imprenditoriali lungimiranti cha risalgono a oltre dieci anni fa, e che hanno consentito di accumulare un bagaglio di know-how e di dati che restringe la concorrenza futura a una cerchia oligopolistica americana e cinese.

Per capire la portata del divario basta uno sguardo alle cronache di questi giorni dedicate alla ricerca di finanziamenti da parte di Sam Altman, il geniale inventore e signore di Open AI, per i suoi progetti di espansione. Per sviluppare il pantagruelico archivio di cui si nutre la crescita di Chat GPT, servirebbero tra i 6mila e i 7mila miliardi, due volte e mezzo il Pil italiano.  Gli investimenti finanziari – che coinvolgerebbero in buona parte anche fondi sovrani arabi – sono il quadruplo di quanto annualmente viene immesso nel comparto. Come riporta Login, il settimanale hi-tech del Corriere, si tratterebbe «per il solo settore dei chip elettronici, da cinque a sette volte più denaro di quanto è stato investito negli ultimi dieci anni». Non meno inquietanti sono i presupposti infrastrutturali: «per addestrare e sviluppare l’intelligenza artificiale su larga scala ci vorranno decine di fabbriche di chip, centri dati giganteschi, numerose centrali elettriche per alimentare milioni di computer».

A molti osservatori, il progetto è apparso alquanto megalomane. Ma, anche in presenza di qualche ridimensionamento, è utile per parametrare la sfida rispetto alle attuali disponibilità europee. Al di là dell’assenza drammatica di protagonisti aziendali di calibro globale, un ostacolo non minore è rappresentato dall’attitudine politica e culturale. In questi anni, di fronte all’abisso che si stava scavando tra il vecchio continente e il nuovo mondo, l’unica reazione è stata l’infaticabile elaborazione di normative regolatorie. Un intervento di per sé encomiabile ma che denuncia, al tempo stesso, una sostanziale estraneità alle logiche della competizione sul campo, che restano l’unica garanzia di crescita e di innovazione.

Ed è certo una ironia della storia che, proprio nel momento in cui l’Europa sembrerebbe voler prendere nelle proprie mani il suo destino militare, la totale dipendenza da oltreoceano nell’Intelligenza artificiale rende questi propositi obsoleti. Come titola l’Economist, i droni killer sono le armi del futuro, e «stanno ridefinendo gli equilibri tra l’uomo e la tecnologia in guerra». Compresi quelli tra l’Europa e l’America.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 19 febbraio 2024).

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