I libri di Eco, Alessandria e altre storie di ordinaria incultura

Dal febbraio 2016 il destino della biblioteca di Umberto Eco è un tema ricorrente dei media alessandrini cartacei e non: gli ultimi interventi sono di questi giorni, quando si è saputo che il  Ministero dei Beni Culturali ha acquisito la biblioteca destinando i libri moderni all’Università di Bologna e il fondo antico alla Braidense di Milano. Prescindendo dall’aspetto “sentimentale”, la vicenda si presta a puntualizzazioni e riflessioni tanto di carattere contingente quanto di fondo e di largo respiro temporale.

La prima considerazione riguarda il fatto che fin dalla scomparsa del semiologo il discorso sulla possibile destinazione dei suoi libri alla Civica di Alessandria, nonostante il tono moderatamente recriminatorio di qualche voce (oggi come in passato), non s’è mai tradotto in una proposta economica alla famiglia o in una concreta iniziativa politico-amministrativa o in una consistente manifestazione d’opinione pubblica. Insomma Alessandria non ha mai dichiarato esplicitamente né la volontà di acquisire la biblioteca di Eco né la disponibilità a riceverla in donazione: le ragioni possono essere state diverse e opinabili, ma il motivo determinante e non opinabile è che la Civica di Alessandria per una questione di spazi non era, non è e non sarà nel futuro prossimo e lontano in grado di accogliere una massa di libri di quella portata; e tantomeno di garantirne l’accessibilità come voleva lo stesso Eco. In effetti buona parte del patrimonio librario della Civica, anche antico, non è consultabile perché relegato da anni in magazzini esterni di fatto inaccessibili.

Ciò premesso, aggiungerei una postilla sull’opportunità di una collocazione universitaria alessandrina per i libri di Eco. Direttamente legata al lavoro del semiologo, la sezione moderna e contemporanea della biblioteca, nel contesto universitario bolognese era, è e resterà lo strumento principe per continuarne l’opera e mantenerne vitale l’insegnamento: in ogni altra collocazione priva di legami diretti cogli studi semiologici e filologici (con la “scuola” di Eco), e quindi non più aggiornata, diventerebbe rapidamente una biblioteca “morta” e subito dopo un fondo di archeologia bibliografica.

Il secondo ordine di considerazioni è invece legato al mancato sviluppo della Civica e alla dispersione del patrimonio librario che da sempre in archivio e in biblioteca è l’anticamera del degrado e della scomparsa della documentazione. Questa situazione non è di oggi: fin dagli anni ’60 Antonio Panizza, l’allora Direttore di Biblioteca-Museo-Pinacoteca, aveva denunciato il problema degli spazi nella palazzina di Via Tripoli / piazza Vittorio Veneto, del limitato sviluppo patrimoniale della biblioteca nonché della chiusura sistematica di Museo e Pinacoteca. Ciononostante la situazione è progressivamente peggiorata fino ad oggi (e non ci sono segnali di arresto della china discendente) non solo per mancanza di investimenti ma soprattutto per assenza di una visione strategica delle funzioni e dell’importanza degli istituti culturali di base come appunto Biblioteca-Museo-Pinacoteca civici nella formazione culturale, professionale e civica dei cittadini: un’assenza di visione che non è di oggi, ma che costituire una linea persistente della politica e dell’amministrazione alessandrina (tranne rarissime eccezioni e di breve respiro) fin dagli anni ’20 del ‘900.

L’assenza di un coordinamento funzionale con gli altre strutture librarie e documentarie cittadine e provinciali (Università, Archivio di Stato, ISRAL, Società di Storia Arte e Archeologia, biblioteche e musei dei centri zona, ecc.) ha ristretto il bacino di utenza e di influenza di una biblioteca che per sua natura avrebbe dovuto avere un’area di riferimento provinciale riducendola invece a una dimensione fisica e ad un ruolo di biblioteca di quartiere o giù di lì. E questo non è avvenuto per effetto d’una ristrutturazione funzionalmente pochissimo  azzeccata (all’origine, tra l’altro, della dispersione in magazzini esterni di parte consistente del patrimonio), quanto per l’idea estremamente riduttiva di biblioteca e di istituti culturali di base – lussi inutili – che ha informato il committente facendogli indirizzare la spesa per cultura in altre direzioni senza mai capire che biblioteca museo pinacoteca teatro non sono direzioni alternative, ma sono un sistema educativo unitario del cittadino, un sistema non frazionabile e indispensabile per la crescita anche e forse soprattutto economica di una città.

E’ intuitivo che una pinacoteca (ma lo stesso discorso vale per il museo, la biblioteca e il teatro) dove sia possibile vedere studiare godere il complesso delle collezioni artistiche di una città ha un impatto più forte ed efficace non solo per il turista culturale, ma soprattutto per la formazione e la consapevolezza del cittadino: “ri-conoscere” il proprio passato, le proprie radici, conservare, interpretare ed arricchire la memoria ecco il compito degli istituti culturali di base. Ecco il motivo per cui, al contrario di quanto è avvenuto e avviene in Alessandria occorrerebbe investire costantemente in dotazioni patrimoniali, in spazi, in personale: in sviluppo. Anche perché non si tratta di inutili paccottiglie per “arpatè” che un giorno, per sanare i bilanci municipali qualcuno potrebbe mettere in vendita come le farmacie, gli immobili o le partecipazioni azionarie comunali; o dare in concessione come i parcheggi. Una ipotesi forse non così lontana dalla realtà come qualcuno potrebbe pensare.

La destinazione della biblioteca di Eco e la percezione da parte di alcuni alessandrini di una sorta di scippo morale ai danni della città che ad Eco “diè i natali” fa venire in mente un altro forse anche più clamoroso e reale “scippo” messo in atto dallo stesso Ministero: quello dell’eccezionale complesso di oggetti in argento rinvenuto nel 1928 a Marengo subito portato a Roma (senza che nessuno fiatasse) per mancanza d’una struttura museale adatta al restauro e alla conservazione. Una cinquantina dopo anni Roma destinerà in via definitiva il “tesoro di Maregno” al Museo di Antichità di Torino (dov’è il pezzo più pregiato che da solo attira migliaia di visitatori). La motivazione? Che una certa “mafia”interna alle Soprintendenze esistesse o che esista ancora e che non abbia giocato  per Alessandria, sta nelle prassi consuete, ma il motivo inoppugnabile restava – e resta ancor oggi non solo per i reperti archeologici di Villa del Foro – che la nostra città non s’è ancora dotata di una struttura museale in grado di provvedere alla conservazione e alla valorizzazione del proprio patrimonio archeologico.

Insomma, le storie dei libri o degli argenti “non pervenuti” sono “segni” espliciti del come il deficit di cultura abbia inciso e incida sulla crisi anche di identità che sta attraversando Alessandria: ma sono anche “ammonimenti” limpidi del fatto che istituti culturali di base solidi e efficienti saranno indispensabili per restituire alla città un’identità consapevole e autorevole.

1 Commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*