L’idea della liberazione spirituale e sociale dopo Nietzsche e Marx

Venerdì 14 giugno ultimo scorso per me è stata una bella giornata. È iniziata al mattino leggendo sul “Piccolo” di Alessandria una bella intervista – “Faccio risvegliare Nietzsche dalla follia attraverso un dio”, fattami sul mio ultimo libro, “Nietzsche dopo la follia. Romanzo dionisiaco” (Moretti & Vitali, 2024) – da Alberto Ballerino. Egli ha saputo cogliere, con acume da vero giornalista culturale direi di livello nazionale, proprio i punti decisivi, dopo una nostra lunga telefonata “a ruota libera” in proposito. Poi, alle 17, c’è stato un dibattito – sempre su questo mio libro – promosso congiuntamente, in Alessandria, dalla “Scuola del popolo” legata alla CGIL, la cui anima è Daniela Carta, e dall’Associazione Città Futura, sempre di Alessandria, il cui Presidente, l’amico Renzo Penna, ha anche introdotto l’incontro, in una sala piena e rimasta tale sino alla fine. Con me interloquivano l’amico Giorgio Barberis, professore ordinario di “Storia delle dottrine politiche” e direttore del Dipartimento di Politiche pubbliche dell’Università Piemonte Orientale, e Patrizia Nosengo, già professoressa di Filosofia del Liceo scientifico di Alessandria e mia ex allieva bravissima di tanti anni fa, con cui mi piace molto dialogare da quando lei era una ragazzina di sedici anni. A tutti questi amici debbo vera gratitudine, e la provo. Nei giorni successivi, tra me e me, ho seguitato il dibattito, e mi piace, qui, socializzare la mia riflessione ulteriore. Temo che sarà “un po’ lunga”, ma credo che il saggio si farà leggere e potrà lasciare qualche ideuzza magari importante a più d’uno.

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Assumo come punto di partenza della riflessione che mi appresto a fare il mio recente libro Nietzsche dopo la follia. Romanzo dionisiaco (2024).[1] Concerne un filosofo che più di tutti gli altri, dalla fine del 1957, quando avevo solo sedici anni, mi ha cambiato la vita. L’empatia assoluta nei suoi confronti, pure un poco temperata dal grande amore che maturai parallelamente per Dostoevskij, durò cinque anni, ma poi la voce segreta di quel filosofo seguitò a sussurrare, e talora a gridare, in me stesso, scorrendo come un fiume carsico. Dal 1962 il vecchio Nietzsche sussurrava in me soprattutto a confronto col marxismo e, in particolare dal 1987, “anche” con lo junghismo. Ho infatti avuto quattro punti cardinali interiori per la gran parte della mia ormai lunga vita: Nietzsche, Dostoevskij, Marx e Jung, con tanti altri autori coevi a questi miei “maggiori”.

Ma che cosa c’era e c’è dietro a un interesse palesemente così forte per Nietzsche, ma poi pure per gli altri magnifici tre, e loro affini?

Il punto chiave è che il mondo in cui viviamo non mi è proprio piaciuto, e non mi piace per niente nemmeno ora, quando sono ormai un ottuagenario stagionato. L’estraniazione da sé stessi e dal prossimo seguita a furoreggiare. Quasi nessuno pensa di avere un’identità profonda da svelare e sviluppare nella vita interpersonale e sociale. Molti si sentono senz’anima, anche intendendo la nozione in senso laico. Troppa gente, infatti, si dimentica della propria più vera individualità, preferendo concentrarsi su un sacco di scemenze, ora perdendosi nei telefonini dalla più tenera età, riducendo spesso al minimo la relazione empatica con altri in carne e ossa, e diventando più o meno totalmente anaffettiva, specie al di là della porta di casa se non addirittura tra le pareti domestiche. Le relazioni si fanno troppo spesso del tutto occasionali. Il mondo stesso sembra aver smarrito i punti di riferimento universalmente umani. E perciò le cose vanno sempre peggio. Vedo centinaia di milioni di persone che provano a scappare di continuo da habitat invivibili, anche rischiando la vita. E vedo che ci si torna a massacrare a decine e centinaia di migliaia di persone, anche tra gente cosiddetta civile, specie in Medio Oriente e tra Russia e Ucraina. E, intanto, incombe come non mai il rischio di guerra mondiale nucleare. E c’è, comunque, una catastrofe ecologica annunciata a distanza di poche decine di anni. E l’Occidente stesso se non è a rischio di dittatura, è a rischio di “democratura”, cioè di un mix tra democrazia e dittatura, probabilmente a partire dagli Stati Uniti, se come pare vincerà Trump.

Tutto ciò per me, anche nel variare delle idee, ha sempre avuto a che fare con un tipo umano dominante, che dà i frutti che l’albero ha, come proprio Nietzsche, filosofo e psicologo senza pari, mi ha e ci ha fatto vedere, scoprendo la dominanza a livello inter-soggettivo di un tipo umano miserabile, meschino, volgare ed egoista in senso banale nel profondo, “da superare”. Quel tipo dominante, sebbene mai unico, per me sin dall’adolescenza, e tanto più oggi, si compendiava nel termine “borghese”, e soprattutto “piccolo borghese”, pronunciato per anni come se sputassi. Ma ben presto, in pochi anni, dall’inizio degli anni Sessanta compresi che tutto ciò che dicevo “borghese”, o “piccolo borghese”, era profondamente “capitalistico”. Direi che questo è stato il punto di partenza, per me e in me, sin da quella prima adolescenza remota.

A questo “modello” umano dominante non volevo, e neppure sapevo, conformarmi. Volevo essere me stesso, solo me stesso, a qualunque costo, quando nell’autunno del 1957, ragazzino sedicenne, incontrai appunto l’opera di Friedrich Nietzsche, tramite il volume “Il meglio”, a cura di Liliana Scalero, edito solo l’anno prima da Longanesi, che proponeva in forma integrale La nascita della tragedia, Così parlò Zarathustra, i Ditirambi di Dioniso ed Ecce homo. Lo conservo ancora gelosamente. Fui preso per anni da un entusiasmo che aveva in sé qualcosa di mistico, come se avessi scoperto il Verbo (o l’anti-Verbo). Fu così per cinque anni, ma poi continuai, via via più criticamente, a pensare a questo Nietzsche, seguitando a leggere testi di e su questo filosofo, anche da marxista convinto per circa vent’anni, sebbene via via più dubbiosamente e criticamente.

Quando da ragazzino, nell’autunno 1957, scoprii questo filosofo, che ora è ben presente in tutte le librerie con molti suoi libri, egli era un maudit, sospettato dal 1945 di nazifascismo, tanto che oltre allo Zarathustra e ad una vecchia traduzione laterziana della Nascita della tragedia[2], allora nelle librerie sino a quel “Meglio” non c’era stato altro. E allora io vivevo in una piccola città in cui non c’era, e stranamente non c’è, Biblioteca Civica.

L’aura fascista che avvolgeva Nietzsche, il quale era stato apprezzato pure da Mussolini e Hitler, era stata evocata, in contrasto netto con Heidegger, dal Nietzsche filosofo e politico (1931) di Alfred Bäumler, tradotto dai fascisti italiani anche nel secondo dopoguerra, ora nel 2003 dalle Edizioni Ar di Padova. Tale “aura” era stata confermata dal grande filosofo marxista Lukàcs nel 1954, in La distruzione della ragione, che semplicemente detestava quel che Bäumler amava: un Lukàcs confermato dall’intelligente, simpatico e operoso studioso marxista-leninista Domenico Losurdo in Nietzsche, il ribelle aristocratico, nel 2002. Lukàcs in quel suo grosso libro del 1954, conduceva la sua crociata contro l’irrazionalismo, da cui lui stesso aveva preso le mosse scrivendo alcuni libri giovanili importanti nel 1910 (L’anima e le forme) e in parte nel 1920 (Teoria del romanzo). Poi nel 1923 aveva scritto il libro più importante e interessante del “marxismo occidentale”, Storia e coscienza di classe. Ma successivamente era diventato un ben cosciente, e però pure corresponsabile, marxista-leninista, tanto che al tempo e nell’opus citato del ’54 (La distruzione della ragione), era ancora uno stalinista “inossidabile”. Per contro Losurdo, che ha dato contributi notevoli su Hegel e poi sul marxismo occidentale, in esplicita polemica col liberalismo, ancora nel 2008, in Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (2008), giustificava Stalin, con un contributo ivi pure di Luciano Canfora, irritando non poco il mio vecchio amico Fausto Bertinotti, che era allora segretario di Rifondazione Comunista. Ricordo ciò per dire, a pro di Nietzsche stesso, che prima di lanciare i “crucifige” bisognerebbe stare attenti a non vedere il famoso fuscello nell’occhio dell’altro senza vedere la trave nel proprio[3].

Inoltre va pur detto che sin dall’inizio del secolo XX taluni pensatori anarcosindacalisti come Georges Sorel avevano inteso in senso libertario Nietzsche (compreso il giovane, allora ultrarivoluzionario a parole, Mussolini socialista di sinistra del 1908, nel “saggio” su Nietzsche La filosofia della forza); e poi, dall’inizio degli anni Sessanta, e per quarant’anni di seguito, l’avrebbe inteso così Gianni Vattimo; e, in anni recenti, filosofi libertari come Gilles Deleuze, per non dir di Foucault. Cacciari, poi, ha proposto e propone Nietzsche come teorico del nuovo razionalismo “critico”, che, tramite l’empiriocriticismo, porta (o porterebbe) a Wittgenstein[4]. Anche Romano Madera, in riferimento al rapporto tra Nietzsche e Jung, ha scritto cose importanti.[5]

Si capisce che io abbia sempre concordato con questo secondo genere d’interpretazione, pur ammettendo che in Nietzsche c’era pure un versante di destra, in quanto il filosofo negava se non l’uguaglianza di genere (che non disconobbe mai), le altre forme di uguaglianza: il che per Destra e sinistra di Norberto Bobbio è “di destra”[6]. Molte affermazioni del genere, specie negli anni più a ridosso della sua interminabile follia (1889-1900), cioè del 1886-1887, hanno tale timbro grave, che però solo uno stupido potrebbe contrapporre a tutto il resto, tanto più in un filosofo mai primariamente politico e il cui filosofare era una sorta di immenso diario.

Comunque io, dal 1958 in poi, preso subito da uno strano, profondo e fortissimo entusiasmo per Nietzsche, specie sino al ’61 scovai sulle bancarelle di via Po a Torino vecchie edizioni Bocca e Monanni degli anni Venti e Trenta del Novecento delle altre opere maggiori del filosofo, che lessi e ancora conservo. Poi è arrivata l’“Opera omnia” finalmente critica diretta da Giorgio Colli e Mazzino Montinari in tre lingue e che in italiano è stata pubblicata, e praticamente ora completata, dall’Adelphi.

Per quel Nietzsche che intendo, e condivido io, ogni stereotipo era da rifiutare in modo radicale, a partire dallo stereotipo di tutti gli stereotipi, che per lui era Dio stesso, che egli proclamava oramai “morto”[7], fosse o meno detto o non detto il nome di Dio a fior di labbra (il che notoriamente poco fa se poi uno di “Lui” s’infischi). In sostanza Nietzsche aveva antiveduto in modo chiarissimo il mondo che ora chiamiamo della “secolarizzazione”, in cui si vive e comunque si ragiona “come se Dio non esistesse”. Infatti Dio, secondo Nietzsche, era in rapida estinzione nel cuore degli uomini: è lì che “è morto”: è insomma morto nel cuore delle masse d’Occidente, e non solo tra le pretese teste d’uovo, di cui altrimenti ci si potrebbe pure infischiare. Ma con “Dio” avrebbe pure potuto, ed anzi dovuto, morire la morale tradizionale, che a “Dio” era stata connessa: cristiana, ugualitaria e, a suo dire, imbelle, basata sull’interiorizzazione del senso di colpa (per una peccaminosità, o innata cattiveria, che ci porteremmo dietro, legata al “peccato originale”, o di cui il peccato originale è il mito “antropologico”); e connessa al Dio creduto giudice che per tanti secoli, secondo i credenti, aveva mandato in paradiso o all’inferno le anime dopo la morte. Nell’aldilà i buoni, già fisicamente o moralmente crocifissi come il Cristo, avrebbero trovato giustizia, e vita beata. Quella morale aveva predicato in modo incessante il dovere di perdonare sempre, per Nietzsche invece di lottare per farsi le proprie ragioni e pure per “naturalmente” prevalere: morale per questo filosofo “contro natura”, da pecore (“del gregge”), ritenuta letale proprio per i migliori, per i puri di cuore, per gli spiriti liberi e creativi.

Ma pure il ricavare dalla persuasione assoluta della “morte di Dio” il “liberi tutti”, cioè il puro amoralismo, o nichilismo, sarebbe il massimo della degradazione umana, una cura ancora peggiore della vecchia fede, una tremenda regressione incombente, un “tornare ad essere bestie anziché superare l’uomo”, dopo aver intuito nel profondo la “morte di Dio”.[8] Così sarebbe l’uomo più degenerato (en marche), senza neanche più “speranza” di superamento di sé: l’”ultimo uomo”, il contemporaneo borghesuccio prevalente a Occidente, descritto in modo identico al Marcuse di L’uomo a una dimensione (1964) e al Fukuyama di La fine della storia e l’ultimo uomo, del 1992, quando al filosofo politico giapponese-americano era parso che in seguito al crollo del comunismo da Berlino a Vladivostok quell’”ultimo uomo”, ivi “l’uomo americano”, si stesse apprestando a trionfare nel mondo.[9] In alternativa a questa degenerazione dell’uomo e della civiltà, in alternativa all’uomo che senza Dio si imbestia invece di superare sé stesso, Nietzsche proponeva la realizzazione del Sé interiore infinitizzante, l’infinitizzazione di sé, l’autorealizzazione e oltrepassamento continuo di sé stessi, che compendiava nel télos e mito dell’oltreuomo[10].

Il suo pensiero prese a smuovere le acque limacciose della mia mente, gettando il mio fiumiciattolo in un grande agitato mare – il mare di Nietzsche – tra il 1957 e il 1958 e negli anni seguenti. Anche quando verso il 1962, in certo modo sino ad oggi, approdai nell’isola del socialismo marxista, il mare nietzscheano – magari con un po’ di paura per certi squali che di tanto in tanto l’infestavano – seguitai a frequentarlo, pure nel silenzio della mia stanzetta, leggendo e meditando di lui e su di lui quanto potevo, pur senza essere un germanista. Ma tra il 1957 e il 1961-1962 quella lettura per me fu un’esperienza interiore formidabile. Allora lessi il suo Zarathustra forse venti volte da cima a fondo, con un’empatia così profonda che talora, nella mia follia tardo adolescenziale, sospettai di essere Nietzsche stesso reincarnato, tanto il suo pensiero mi prendeva alla gola e risuonava in me. Data la mente fresca da adolescente che allora mi ritrovavo, giunsi a saperlo quasi a memoria, come i pochi amici sopravvissuti della mia adolescenza sanno bene. Non ci si stupisca di tali ingenui sospetti d’identificazione perché Luigi Firpo lo sospettava, o credeva, in riferimento all’amato Tommaso Campanella, e Carl Schmitt all’amato Hobbes. L’ho sentito dire da studiosi di tali autori di chiarissima fama, di cui potrei pure fare il nome e cognome.

Secondo il decisivo capitolo “La virtù che dona”, in Zarathustra, non avrei dovuto seguire il pensiero di nessuno, neanche quello di “Zarathustra” stesso, che forse – diceva ivi – aveva ingannato i suoi discepoli. Essi non avrebbero dovuto ascoltare null’altro se non la loro voce più interiore: voce che voleva e vuole parlare; e su quella base avrebbero dovuto essere come uno che rinasca a sé stesso tutti i giorni, e che faccia della sua stessa vita un’occasione di continua creazione del proprio pensare e volere. Forse anch’io, per tutta la vita, nel mio piccolo sono stato uno così.

Ma poi – diventato sin dal 1962 marxista, e poi socialista di unità proletaria e comunista, e avendo lungamente dialogato con alcuni grandi amici pensosi e creativi più vecchi di me in quell’inizio degli anni Sessanta in Alessandria, per lo più giovani professori socialisti e comunisti uno più in gamba dell’altro come poi ampiamente dimostrarono nella loro vita a livello nazionale, come il leader della sinistra socialista Giorgio Canestri, l’importante studioso di cinema e teatro Adelio Ferrero e il professore di filosofia allora marxista operaista Gianfranco Faina, e altri – presi a pensare che la continua autoctisi, o creazione di sé, tanto apologizzata da Nietzsche, avrebbe pure potuto essere stata in me un che di adolescenziale, vana pretesa di un Io che sognava con vana arroganza interiore di essere Dio, mentre restava un “povero Io”: l’Io di un poveruomo, o di un “uomo finito” diceva grandiosamente il solo libro bello del fluviale Papini nel 1913[11]: magari Io di un un singolo “velleitario”, e comunque fonte di un solipsismo molto più prossimo al disadattamento che alla socializzazione necessaria ad ogni individuo un po’ infelice e, allora, certo necessaria a me stesso. Credo che non fosse affatto vero che tutta quella scelta della singolarità, “nietzscheana”, come destino fosse stata tanto male (penso anzi quasi il contrario), ma crederlo allora mi aiutò parecchio.

In quell’inizio degli anni Sessanta, in pochissimi anni molto più di quei miei “maestri”, presi a leggere e meditare con interesse sempre più forte non solo testi di Lelio Basso e di Vittorio Foa (il cui approccio socialista operaista quasi subito mi persuase totalmente), ma anche di Marx, Lenin, Rosa Luxemburg e in parte di Gramsci e Togliatti, e poi di Lukàcs, ma pure di Brecht, di cui centellinai tutto il teatro. Avevo ed ho pure, dal 1963, un fortissimo interesse per il filosofo della politica comunista Mario Tronti, marxista operaista e poi neocomunista, con punte schmittiane e anche nietzscheane, come si vede pure nel suo ultimo libro: Dello spirito libero (2016).[12] Quando poco tempo fa Mario Tronti è morto, su “Città Futura on line” ho scritto alcuni veri saggi, poi riproposti dal sito di “Dalla parte del torto”: saggi che nel loro insieme sono un vero piccolo libro, cui rinvio[13] (tanto più che questo filosofo della rivoluzione con Nietzsche c’entra parecchio, come nell’ultimo libro, or ora citato, è manifesto). Chi mi ha conosciuto in quell’inizio degli anni Sessanta non può certo dubitare di quel che ho detto, e del resto ce n’è più di una traccia in tanti miei articoli sull’”Idea socialista” e altri giornaletti alessandrini dal 1962 in poi.

Allora presi a riflettere su un punto più che su tutto il resto. Voler essere quello che si è, come ci propone Nietzsche, sino alla massima creatività dell’”oltreuomo”, è grandioso, ma come si fa? E come si fa non già come eremiti sul monte Athos, ma tra tante persone, che pure Nietzsche avrebbe voluto amare, e che anzi anelava lo amassero: persone-prossimo che io allora, intorno ai vent’anni, avevo provvidenzialmente trovato?

Allora ero accanto alle straordinarie persone di cui ho detto, che accettavano la mia amicizia e il dialogo con me, comprese le mie penombre (tanto più che negli anni Cinquanta ogni “piccolo borghese” aveva avuto le sue, e talora ci scherzavamo persino sopra, senza essere “invasivi”, con la delicatezza che c’era allora persino tra amici). E c’erano pure almeno una buona decina di persone più o meno coetanee non sempre leali, ma di grande valore, e più intime, con cui mi confrontavo di continuo, e loro con me.

Fu appunto così, specie dai ventun anni, che mi venne appunto incontro Marx, di mese in mese e anno in anno sempre di più. Egli è stato il secondo, ma più manifesto, e duraturo, e importante amore intellettuale della mia vita. Egli scioglieva (o sembrava sciogliere) l’aporia di Nietzsche, che è poi l’aporia di ogni visione in primis coscienziale, cioè di ogni idealismo: l’aporia di chi vuole trasformare sé stesso “volendo sé stesso”, e “volendo trasformarsi” (“creare”, dicevo con enfasi neoromantica in quegli anni remoti più di sessant’anni fa). Marx pretendeva di sciogliere l’aporia del voler trasformare la coscienza malata (de-generata) tramite la coscienza stessa (in fondo l’aporia di ogni idealismo, che era pure l’aporia nietzscheana), attraverso il proprio materialismo storico, su cui ancora oggi molti – marxisti e non marxisti (ad esempio innumerevoli sociologi) – “giurano”. Secondo il materialismo storico è l’essere sociale, il fare nel sociale, che muta nel profondo i modi di pensare (e volere). Marx lo sosteneva a partire da Sacra famiglia e Ideologia tedesca, scritti con Engels, e dalle coeve brevi, ma importantissime, sue Tesi su Feuerbach del 1845.[14] Se cambi nel senso libero-solidale (o altrimenti) la situazione sociale, muterà pure la coscienza generale coeva (ecco il busillis del materialismo storico).

Tu cambia la vita collettiva e tutto poi dovrà mutare (anche il tipo di humanitas prevalente), distruggendo le fondamenta dell’oppressivo campare: un oppressivo campare (capitalistico), che fa dell’energia vitale umana, alias “forza lavoro”, una merce, che però è vivente e pensante (umana): merce-energia vitale spremuta dal Capitale, come fosse succo di limone, o pelle d’asino conciata (del proletariato), diceva espressamente Marx nel Capitale.[15] Infatti l’energia umana spremuta, la forza lavoro dipendente (salariata, salariabile e “salarianda”), tanto più in quanto raccolta in massa negli stessi luoghi di lavoro (allora) e quartieri operai (come il mio Borgo San Paolo natio di Torino), si deve necessariamente ribellare e a un certo punto rivoltare; e come proletariato già lo fa. E se il Capitale scende e il proletario sale, l’uomo borghese (e specie piccolo borghese) dovrà pure via via sparire, con tutte le sue vie di vana fuga dal reale, come sarebbe la stessa religione, diceva Marx sin dall’Introduzione alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico del 1844, in cui compare pure la famosa espressione sulla religione, o Dio, “oppio dei popoli”[16], che mi parve subito, ed era, complementare al “Dio è morto” di Nietzsche. Abolendo via via la dipendenza del lavoro (e anche quella interiore da un “Signore” immaginario); abolendo il lavoro salariato; abolendo la dipendenza dal Capitale; abolendo “il valore del lavoro”, chiunque “intaschi” il plusvalore (pure il burocrate statale, insieme o al posto del padrone), tutto via via diverrà (diverrebbe) di tutti, in una società senza classi, e per ciò stesso senza Stato, luminosamente trattata da Marx nelle “Opere filosofiche giovanili” nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, e poi nel 1871, come Presidente della Prima Internazionale (Associazione Internazionale dei Lavoratori), commentando a caldo la Comune di Parigi, pur finita tanto tragicamente.[17]

Su questo mi sono poi moltissimo impegnato, laureandomi con lode a Torino col filosofo liberale e neospiritualista Carlo Mazzantini, l’11 luglio 1968 con una tesi sul “problema dell’emancipazione nella filosofia politica di Marx”, e subito vincendo tra i primissimi un concorso nazionale di abilitazione all’insegnamento in Filosofia Storia Pedagogia e Psicologia, per cui sin dal novembre 1969 divenni professore, nel ’71 già di ruolo, nella media superiore: dal 1974 impegnato poi sul cammino della docenza universitaria, a Torino e poi a Milano.

Dal 1964 promuovevo giornalini di fabbrica (visti da noi come embrioni di democrazia operaia conflittuale). Feci parte della segreteria provinciale e regionale del PSIUP dal 1969 al 1971, e per un decennio, dal 1975 al 1985, fui assessore alla cultura e poi capogruppo consiliare del PCI in Alessandria, che comprendeva allora diciannove consiglieri.

All’Università, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino, fui titolare di corso di “Filosofia della politica” e poi di “Storia del pensiero politico contemporaneo” dal 1983 al 1997; dopo di che passai all’Università degli Studi di Milano, nella stessa Facoltà, dove divenni ordinario di “Storia delle dottrine politiche”, sino a che nel 2010 non andai a riposo. Il socialismo, comunismo e marxismo, a partire dal pensiero e azione politica di Amadeo Bordiga da un lato, e di Filippo Turati dall’altro, furono sempre al centro di tutti i miei lavori, maggiori e minori: anche se dal 1991 a oggi insieme alla psicologia analitica dei fenomeni specie collettivi, politici e religiosi. Su tutto ciò scrissi e pubblicai innumerevoli saggi.

Richiamo, per ora, i miei maggiori contributi su socialismo, comunismo e marxismo, in specie: Amadeo Bordiga. Il pensiero e lazione politica (1976, Premio Acqui Storia 1977); Filippo Turati. Cinquant’anni di socialismo in Italia (1984): Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo (2021), tutto incentrato sul nesso socialismo, comunismo e ambientalismo, verso una “nuova vision” post-marxista: spirituale, neo-socialista e verde. Ma ci sono pure taluni miei apporti più strettamente connessi al marxismo teorico cui maggiormente tengo, quali i capitoli “La coscienza nella storia. Idee, forze sociali e individui nell’idealismo”, “Essere sociale e coscienza nel materialismo storico di Marx”, “Libertà operaia e Stato operaio nel pensiero di Marx”. “La critica marxista della civiltà capitalistica e il superamento del materialismo storico”, nel mio libro Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo. Dal 1800 al 2000 (2003); il saggio L’idea della comunità senza classi e senza Stato nella storia del marxismo (2001); il capitolo, che in riferimento a Marx in senso stretto considero come “mio” punto d’arrivo, Karl Marx: il filosofo, il politico e l’economista (2012), in: L. Bassani – S. Galli e F. Livorsi, “Da Platone a Rawls”.

Va detto che sin dagli anni Ottanta del secolo scorso, come già emerge nel mio libro Utopia e totalitarismo (1979)[18], sospettai fortissimamente che – pur con la decisiva importanza politica e dottrinaria di marxismo socialismo e comunismo – per quella via “l’uomo vecchio” (“l’ultimo uomo”) non sparisse affatto dalla scena sociale e del mondo, e che il suo sparire, grazie al divenire sociale e in particolare grazie alla lotta politica e di classe, fosse sempre di più come l’avviso di quel furbo commerciante che nella sua bottega aveva apposto il cartello: “Oggi non si fa credito, domani sì”. C’era sì, e c’è sì, almeno secondo me, lo spirito della rivolta proletaria, da Marx scovato, investigato e valorizzato nel sociale, e dopo di lui espresso da folle immense di lavoratori, attivisti e intellettuali sino a noi; ma senza che si potessero mai superare due maledizioni del socialismo nella storia: il suo oscillare in permanenza come un vero e proprio pendolo in moto perpetuo, nel “globo”, tra quello che Marx nel 1850 aveva detto “cretinismo parlamentare”, che era poi la socialdemocrazia riformista, o ultrariformista allo stato nascente[19], e l’autoritarismo burocratico di partito e di stato di tipo comunista; o anche tra una qualche contaminazione tra i due, come in Italia durante la prima Repubblica.

Con ciò non dimentico certamente le straordinarie riforme civili e sociali delle socialdemocrazie riformiste, anche in Italia (pure grazie ai comunisti, che incalzavano i socialisti e socialdemocratici tramite il loro grande Partito ed i potenti sindacati operai in cui erano egemoni), come pure del comunismo di stato burocratico-autoritario, sol che si pensi alla Cina. Dico solo che per quella via il tipo di uomo che non piaceva né a Nietzsche né a Marx né a me stesso ed a tanti miei amici (che in sostanza lo volevano superare, e lottavano per questo), non mutava, e non è mutato, neanche di una briciola; e questo è molto grave, perché nel fondo questo era il problema, come ha ricordato nel suo ultimo libro nietzscheano (post-nietzscheano) e marxista (post-marxista), Dello spirito libero, il filosofo comunista Mario Tronti (2016).

Ci sono sì stati mille tentativi di porre in alternativa a ciascuno dei due (microriformismo socialdemocratico o comunismo burocratico autoritario, disgiunti e a Occidente spesso congiunti), il potere dei lavoratori dai luoghi di lavoro, l’autogoverno proletario, il protagonismo diretto dei lavoratori dalla fabbrica allo Stato, la “democrazia operaia”: il che era certo punto focale del pensiero di Marx (sindacalismo rivoluzionario, democrazia dei consigli di fabbrica, soviet, masse e potere, eccetera); ma guardando la cosa nel complesso, storicamente, oramai si vede bene (se si vuol vedere) che essi o sono stati estremamente effimeri, brevi e prestissimo tragicamente finiti, oppure sono stati sempre totalmente incapsulati nel gioco di uno degli altri due maggiori; e si vede che persino i militanti stessi, di ogni ordine e grado, che esprimevano tale posizione di vera alternativa democratica rivoluzionaria dal basso, sono sempre stati costretti a fare il gioco o del microriformismo socialdemocratico o del comunismo burocratico di stato. C’è da farsi venire il “magonismo” storico.

Perciò, dopo circa centottant’anni e in un mondo che oltre a tutto a Occidente è oramai persino senza masse in fabbrica (a causa di automazione, Intelligenza Artificiale, eccetera), dobbiamo tirarne virilmente le conseguenze, come proprio Marx ci ha insegnato a fare quando la storia risulti mutata nel profondo. Ma su ciò vorrei pure precisare meglio alcune cose.

Non dobbiamo considerare Marx come un “cane morto”, come a suo dire – notava Marx nel 1873 – facevano i meschini “epigoni” con Hegel[20]; ma, ciò posto in modo ben fermo, oramai dobbiamo girare pagina, proprio come Marx aveva fatto con Hegel, e più ancora col sapere rivoluzionario puramente democratico repubblicano e radicale che era andato avanti dal 1789 (o 1792) alla fine della sua vita (1883), quando sin dal 1848 non aveva voluto seguire né i riformisti legalitari alla Blanc né, poi, alla John Stuart Mill, ma neppure, dopo qualche incertezza, i complottisti neogiacobini alla Blanqui oppure anarchico insurrezionali alla Bakunin (i settari, o facitori di congiure, insomma, antenati “disarmati” degli assassini con pistola terroristi degli anni Settanta del secolo scorso).

Perciò ora si dovrebbe assolutamente “passare oltre”. In parole povere oggi ci vuole un nuovo pensiero riformatore e/o rivoluzionario, ormai non solo post-nietzscheano, ma pure post-marxista, poiché sulle vecchie basi l’uomo non ha realizzato sé stesso e non ha superato sé stesso, e il vecchio socialismo, microriformista o burocratico autoritario, in Occidente è risultato irriformabile, ed è o in palese estinzione “dolce” o è tragicamente morto tra il 1989 e il 1991. E ogni nostalgismo farebbe ridere se non facesse piangere.

Il fatto che il socialcomunismo di tipo marxista fosse molto difficile da riformare, dopo le dure repliche della storia, lo sospettavo già intorno al 1979-1980[21], ma allora ritenevo che a questa grande “fiumana” nata da una grande storia di liberazione sociale si dovessero concedere i tempi supplementari, sicché seguivo una sorta di strategia del doppio binario: cercare un’alternativa, ma vedere se nel frattempo il gigante morituro del socialcomunismo avrebbe potuto riformarsi nel senso dell’effettivo autogoverno dei lavoratori, spezzando il duro guscio burocratico autoritario “comunista di stato”, senza rassegnarsi alla sua triste, e pure trista, necrosi. E, infatti, quando arrivò Gorbaciov al potere al Cremlino io sperai, e ampiamente sperai, a sinistra come quasi tutti, che al termine della grande avventura dell’orso russo iniziata con la Rivoluzione d’ottobre (o novembre) del 1917, dopo tanti anni di degenerazione burocratica e autoritaria da Stalin a Breznev, fosse finalmente emerso, come scrissi anche in un vasto saggio sul “Ponte” su “socialismo e libertà nel mondo di Gorbaciov” nel 1990, un “Lenin liberalsocialista”.[22] Mai illusione risultò più illusoria della mia, in quel saggio allora apprezzato da molti, tra cui Giorgio Napolitano. Ahimè, avevo scambiato Romolo Augustolo con un nuovo Lenin. E infatti accadde addirittura una delle cose per me più sbalorditive di tutta la storia umana: un impero mondiale con la bandiera rossa, che si era esteso da Vladivostok a Berlino est, e la cui realizzazione era costata almeno quaranta milioni di morti sovietici, metà periti tra stenti e stragi connessi a storia e crimini dello stalinismo, e metà agli orrori perpetrati o provocati dall’invasione hitleriana, crollò su sé stesso come un vecchio infartato, senza aver sparato una fucilata, come in duemila anni non era mai capitato a nessun altro impero mondiale. Altro che superamento di quella che il grande Trockij dal 1936, in La rivoluzione tradita, aveva chiamato “degenerazione burocratica del socialismo”, che per lui avrebbe potuto essere a tempo debito superata perché non atteneva “alla struttura” economico-sociale dello Stato russo (e oggi si potrebbe dire dello Stato cinese), che era per lui basata sulla proprietà pubblica dei mezzi di produzione, ma solo alla sovrastruttura, alias alla “mera” coscienza e al governo dello Stato[23] (pas grande chose). Ma così non è stato. Il comunismo di stato burocratico autoritario non appena ha provato a riformarsi in modo minimamente rilevante è imploso.

Per me questo dimostrava, come scrissi nel ’92 su “Critica Sociale”, La fine del materialismo, anche perché tra materialismo filosofico, materialismo biologico e materialismo storico, quello storico-sociale (materialismo storico) era palesemente il materialismo di lega migliore (figuriamoci quello antropologico, ancora semplicemente umanistico, di Feuerbach, con l’uomo come “materia pensante”; o quello “dialettico” di Engels, ma poi pure di Geymonat, e di Lucio Colletti, con le astruserie su tesi antitesi e sintesi dentro gli atomi).[24]

Insomma, non era vero che mutando l’essere sociale mutasse la coscienza. Non era vero affatto. Si potrebbe dire che non muta neanche tramite la coscienza, ma in tal caso dovremmo dire che andiamo verso una grande catastrofe annunciata, o bellica o ecologica o tutte e due. Forse oggi il mondo vive una “situazione rivoluzionaria” come quella del 1914, o del 1914-1920, o 1936-1939, ma non c’è alle viste nessun movimento rivoluzionario (mentre c’è quello contro-rivoluzionario, neo-reazionario, per cui o per crisi belliche non frenate, o per catastrofi ecologiche annunciate, si va verso il crollo dell’Occidente, o comunque verso la democratura dall’America all’Europa. Ma “crepi l’astrologo”).

Purtuttavia ritengo fondamentale sottolineare che Marx non è diventato per me un “cane morto”, né muta di cani morti sono gli stessi marxisti, anche se mi ritengo totalmente post-marxista (e dal 1992 sono pure un “cane sciolto” della sinistra, alla ricerca appassionata di una nuova vision e prassi spirituale, neo-socialista e verde). È semplicemente morta stecchita la pars construens dell’inclito pensiero di Marx e marxista, com’era già capitato alla rivoluzione repubblicana da Rousseau e Robespierre alla Comune di Parigi, nonostante il per me grandissimo Mazzini, che potremmo pure riprendere in un eventuale Risorgimento Socialista[25] (appunto spirituale e rosso-verde, ben inteso post-marxista). La pars destruens di Marx e del marxismo è più viva che mai (e oltre a tutto era la sola che a Marx interessasse come teorico)[26], ma la construens per me è quasi carta straccia (e per questo non mi dico più marxista, né in termini filosofici né di alternativa politico sociale: pur ritenendo sempre il capitalismo un male da superare, ma non certo tramite il collettivismo, risultato la “cura Di Bella” contro il cancro sociale di questa civiltà che si estingue, per ora senza alternativa; il marxismo ha fatto sin dall’inizio un’eccellente diagnosi del male di questo mondo, ma il modo o terapia per uscirne è risultato fasullo, totalmente inadeguato al superamento dell’alienazione umana). Magari tramite lo Stato ha fatto pure, in forma o democratica o autoritaria, un Welfare State niente male, ma solo riducendo il disagio sociale, senza in nulla mutare o allontanare “l’ultimo uomo”, “disalienandolo”. Così le catastrofi saltano sempre fuori, perché anche nella storia, come dice un bel proverbio veneto, “peso il tacòn del buso”; e ora incombono pure catastrofi senza precedenti, belliche ed ecologiche.

Potrebbe pure esserci da fare – contro una catastrofe incombente – un nuovo socialismo, verde e spirituale. Ma è purtroppo appena “cespuglioso”. Tuttavia ci vogliamo pure lavorare. Anticipo il ragionamento ulteriore dicendo che lo “spirituale” in materia a mio parere dovrebbe stare al primo posto: non rimandando la gente a messa, o a dire il rosario (magari esibito come fosse un cinturone, come faceva Matteo Salvini), ma insegnando alla “gente” a sentire l’infinito e l’eterno nella soggettività e nella vita tutta, e così convertendola: persuadendola a superare un senso del nulla che avanza; a non essere più anaffettiva; a voler bene a sé stessa, uno ad uno, ed a tutti. Solo una fede emergente lo potrebbe fare. Altrimenti prepariamoci pure al “peggiore dei mondi possibili”. Sperando che chi scrive, e ha tali neri pensieri, sia solo un vecchio svitato. Sarebbe meraviglioso.

Ma qui ho anticipato troppo. Comunque – caduta l’idea che l’essere sociale ci potesse nel più profondo fare ritrovare uguali a noi stessi e trasformati – “il pallino” tornava (torna sempre di più) alla coscienza che deve cercare sé stessa; che vuole diventare quello che è; che vuole scoprire l’infinito e l’eterno, e l’inesausta creatività che ha in sé; e per ciò l’universalmente umano, e vivo, che ci lega come esseri, tanto più in quanto esseri coscienti e volenti, oltre che in quanto viventi, “esseri nell’Essere”, nell’Essere che siamo.

Colto tutto ciò, non si poteva certo tornare a Nietzsche, ma si dovevano fare di nuovo i conti con lui, però andando più avanti. In altre parole, vediamo se possiamo superare l’uomo imbarbarito di “questa sozza società” per “conversione” invece che liquidando il sistema sociale: un assetto che pure è da riformare quanto si può, per ridurre il dolore inter-soggettivo. Io ero partito da Nietzsche. Heidegger, da molti considerato il maggior filosofo del XX secolo, diceva, come poi appresi, che Nietzsche era stato grande come Platone e Aristotele.[27] Si trattava di riprendere sul serio la via “coscienziale” di mutamento del mondo tramite rivoluzione preliminarmente interiore. Perciò mi è piaciuto ripartire di lì. E proporre di “arrivare” dove ho detto (al “dio nella vita” in cammino, da ritrovare in noi e nel cosmo: Dio ossia la Natura, ma pure la Natura ossia Dio, alias “Deus sive Natura” e “Natura sive Deus”, proseguendo il lungo cammino da Spinoza[28] al XXI secolo).

Fu questo a spingermi verso la psicologia analitica (via autotrasformativa per eccellenza, il meglio nelle vie di autotrasformazione dopo lo Yoga, e forse essa stessa lo Yoga dell’Occidente), dopo che nel 1970 avevo letto l’auto-antologia di Jung Realtà dell’anima, in cui proponeva lui stesso i suoi saggi più significativi.[29] Al momento, pur interessatissimo, non mi ero lasciato ancora “prendere” da quello che era detto – da tanto marxismo epocale – “irrazionalismo”, ma all’inizio degli anni Ottanta ero già junghiano, come emerge da un primo mio articolo su Jung del 1981. E dopo aver messo radicalmente in discussione la relazione posta dal marxismo tra struttura e sovrastrutture, in un piccolo articolo sul “Pensiero politico” del 1987[30], m’immersi nella nuova dimensione, a lato dei miei soliti studi storico-politico dottrinari: producendo dal 1989 a oggi un gran numero di saggi, tra cui qui mi piace ricordare i soli libri di riflessione in proposito: Psiche e storia. Junghismo e mondo contemporaneo (1991); Politica nell’anima. Etica, politica, psicanalisi (2007); Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo (2010), ma pure L’avventura di Jung. Romanzo-verità (2012).[31] Ma “l’anima buona” che avrà voglia di compulsare “Nuova Antologia” (1990 e 2018), “Il Ponte” (2017), “Thelema” (Milano, 1995), e la bella rivista dell’allieva di Marie-Luise von Franz, Ida Regina Zoccoli, “Klaros. Quaderni di psicologia analitica” (Firenze, 1993, 1994, 2004, 2006), e “Belfagor” (1994, 1997), e “Rivista di psicologia analitica” (2010, 2014), “Anima e Terra” (Alessandria, 2012) e “l’Ombra” (2015), troverà miei contributi del genere forse non privi d’interesse.

Avevo già scoperto – e sempre più scoprii, quando fu tradotto, l’immenso commento di Jung al Così parlò Zarathustra – che la psicologia analitica proseguiva Nietzsche.[32] Infatti la psicologia analitica chiama la nostra prima radice, alfa-omega quantomeno psichico, o radicale della psiche umana: aurum philosophorum che può far rinascere l’Io a sé stesso, nel lungo sentiero di “individuazione”, per diventare quello che si è (ossia di autorealizzazione). Nel 1995/1996 mi feci psicanalizzare da una famosa psicologa junghiana[33] e sognai di diventare io stesso anche analista, ma essendo docente universitario in un gruppo neanche tanto aperto all’essere controcorrente in quel di Torino, e sentendomi ancora scottato da antiche ferite adolescenziali da me connesse al troppo ardimentoso osare sino al velleitarismo (scioccamente credevo), purtroppo “al dunque” non lo feci. E ancora mi dispiace. Però entrai nell’Ordine degli psicologi del Piemonte e sin dal ’94 divenni socio onorario del Centro Italiano di Psicologia Analitica (e anni fa pure dell’Istituto Meridionale di Psicologia Archetipica).

Già tramite la psicologia analitica avevo risvegliato in me ancestrali pulsioni religiose, perché il Sé, archetipo degli archetipi, è il senso dell’infinito e dell’eterno a priori in noi. E in pratica Jung, senza rinnegarla del tutto, cambia di segno la secolarizzazione, proponendo di pensare non già come se Dio non ci fosse, ma come se ci fosse almeno come istanza psichica a priori.

Comunque la fine del socialcomunismo marxista metteva in crisi, col materialismo, anche l’irreligiosità, fosse questa il “Dio è morto” di Nietzsche o “l’oppio dei popoli” di Marx. Era evidente che il ritorno al prendere molto sul serio quel che ferve al fondo di noi stessi, dovesse per forza riproporre sia la centralità della “dimensione psichica” che il problema filosofico religioso. Ma qual è la natura ultima del Sé, da cui in ciascuno di noi, e in tutti noi, i giochi della vita dipendono?

Su ciò mi sono interrogato in Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto (2022), mettendo a confronto tre identità simboliche che evidentemente si annidano in me, in perenne singolar tenzone, da un tempo immemorabile: Religiosus, Atheus e Psychicus, che s’interrogano su Dio, la morte e il male. Psychicus è sempre terzo, nel senso che ciò che per Religiosus e Atheus è un aut aut, in lui è un et-et. Specie quel che dice Religiosus, in noi ha una traccia inestinguibile, che alimenta il bisogno antropologico. Ma il tratto psicologico a priori (archetipico), è pure ontologico? È “Essere”? Si può provare sensatamente a fare un passo oltre lo “psicologico” riconoscendo che l’infinito-eterno-eros è già implicito in noi e nella vita tutta? E, insomma, “c’è”?

Lo sostenni anche su “La Nuova Antologia” in una fase recente.[34]

In tal caso – opinai sempre di più – bisogna confrontarsi da un lato con Marx e col marxismo (ma fare ciò significa pure confrontarsi con Hegel, per ciò per me da molti anni oggetto di un interesse filosofico straordinario, sebbene non specialistico); dall’altro con Nietzsche, vero pazzo di Dio (nel senso della divina follia). Del mio confronto col marxismo già ho detto, mostrando come questo sia culminato soprattutto in Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo. Lì c’è una riflessione su Hegel come filosofo religioso. Per me è stato uno tale, di prima grandezza (ma l’aveva detto a suo modo pure Vito Mancuso[35]).

Anche Gramsci su ciò ha scritto cose veramente importanti, che però tra me e me provo a ripensare alla luce delle conclusioni su Marx e il marxismo di cui ho detto (il fatto che ora dobbiamo ripartire dalla prima scaturigine della psiche profonda). Gramsci, nei Quaderni del carcere – proprio perché si era formato – oltre che sul marxismo – su Gentile, Croce e Sorel, e non sul materialismo economico determinista e preteso scientifico in un senso oggettivo, come il da lui bistrattato Bukharin, e, senza che lui lo sapesse – o lo volesse dire – tutto il marxismo sovietico da Plechanov e Lenin in poi – si era accorto che il comunismo era una sorta di religione secolarizzata (una “concezione del mondo” in senso mitico-razionale dotata di potenza redentiva universalmente umana), in un contesto in cui Marx si poteva paragonare al Cristo (ben inteso non come tipo e idee, che sono “tutt’altro”, ma per il ruolo in tale fiumana storica); e, soprattutto Lenin a San Paolo, nel socialismo-comunismo mondiale. Insomma, sintetizzerei: “Marx : Lenin = Gesù : San Paolo”. Ma tutto questo grande fiume culturalmente da dove era saltato fuori?

Gramsci diceva appunto che era derivato dall’idealismo hegeliano, che aveva posto le basi di una Nuova Riforma come dal 1517 era stato il protestantesimo. Non si trattava però di tornare fuori tempo massimo alla Riforma, come talora aveva pensato Gobetti, ma di riconoscere che la Riforma di Hegel era proseguita in Marx (e Lenin, Stalin, e anche Gramsci). Ora questa Riforma di Hegel, che voleva riportare il Logos nella vita umana (Logos “immanente”), non sarebbe appunto morta dopo Hegel, ma sarebbe proseguita con la religione atea (immanente più che mai) e con lo Stato etico collettivista del comunismo da Lenin in poi[36].

Ma se noi ora – prendendo atto della “morte della morte di Dio”, dello scacco del Dio oppio dei popoli e dello scacco del paradiso o “vita beata” in terra come società senza classi e senza Stato, o almeno “Stato operaio”, di Marx – dobbiamo rifare il percorso “a ritroso”, all’indietro, nella logica che i francesi chiamano del réculer pour mieux avancer, ci accorgiamo che effettivamente Hegel era stato anche un riformatore religioso (per me grandissimo). Ma lo era stato in senso stretto, neo-religioso in senso forte, come per me si vede bene da un lato leggendo Storia e giovinezza di Hegel di Dilthey (ben più interessante del Giovane Hegel, che pure confermerebbe Gramsci, di Lukàcs)[37], e dall’altro si vede andando ben bene a vedere quel che dice su Hegel il per me, e in me, fondamentale (dal 1961) Karl Löwith dell’opera Da Hegel a Nietzsche (1944). Löwith aveva sostenuto che era stato il preteso superamento della visione “armonica” di Goethe e di Hegel a portare al tragico individualismo selvaggio (sul versante del singolo) e al neopaganesimo totalitario che stava dilagando quando scriveva, mentre l’impero hitleriano andava a pezzi e quello stalinista, non meno statolatrico, dilagava (sul versante collettivo). Ma soprattutto si vede benissimo, “chiaro come il sole”, che Hegel era stato un riformatore neo-religioso nei suoi Scritti teologici giovanili e nelle due grandi versioni delle sue Lezioni sulla filosofia della religione.[38]

Naturalmente non dobbiamo pensare a un Hegel con lo spirito e il temperamento di Lutero o di Calvino, tanto più che teneva le sue lezioni nell’epoca della Restaurazione, e poi aveva sempre l’ambizione di dar voce alla pura ragione. Ma, ciò posto, si vede chiaramente, tanto più nelle “lezioni”, che per lui Gesù Cristo era, come e più che nel Vangelo di Giovanni, l’uomo il quale aveva scoperto che il Logos è in noi; che siamo teomorfi (Padre “nostro”), per sé e per tutti. Per Hegel la mente dell’uomo nella sua prima radice non solo è la casa di Dio, che come in Sant’Agostino “in interiore homine habitat[39], ma è Dio, è il Logos, immanente in noi: non, dunque, eminentemente al di là dell’uomo, ma come uomo universalmente umano che pervade sino all’ultima cellula la contingenza del mondo (l’essere in certo modo pure “al di là” per Hegel viene dopo, o eventualmente viene dopo, l’essere Dio tutto emergente nel mondo, nella Storia). Pur nell’immane differenza tra Hegel e Nietzsche, che però erano legati entrambi a Spinoza, l’idea non è diversa dall’affermazione dell’ultimo Nietzsche il quale diceva il mondo “circolus vitiosus Deus[40], ossia che Il mondo è Dio e Dio è il mondo.

Il passo ulteriore rispetto alla “vecchia Riforma” per Hegel consisteva proprio nel capire che Dio inerisce alla natura umana, ma non solo come istanza etica o etico-politico-sociale come per gli atei della sinistra hegeliana, per il giovane Marx e per Gramsci e Lukàcs, ma proprio in senso stretto: il divino, l’infinito, l’eterno è in noi in senso stretto, anche se solo noi esseri pensanti lo potremmo pure comprendere. Ma inconsciamente lo è pure nella natura viva, come già per l’ammiratissimo Goethe e per il suo grande amico botanico, straordinario esploratore del mondo naturale sin nei continenti remoti (anche in Amazonia), vitalista panteista Alexander von Humboldt, e per il fratello spirituale di Hegel, Hölderlin[41], e per l’amico-maestro da Hegel rinnegato, Schelling. Solo che la riforma neo-religiosa dell’idealismo, come ho pure mostrato ne Il Rosso e il Verde, fu liquidata dalla sinistra hegeliana e da Marx, che senza poterlo sapere in quei primi anni Quaranta dell’Ottocento stavano preparando il 1848 tedesco ed europeo, e per ciò, come capita spesso in tali fasi, non volevano riformare la religione, ma distruggerla.

Ma ora i distruttori, che volevano sostituire l’umano al divino, il contingente all’eterno, la materia pensante allo spirito, il finito all’infinito, sono stati distrutti, per cui è tempo di andare da Nietzsche al “dopo” e pure “oltre” Nietzsche, e da Marx al “dopo”, ma pure “oltre”, Marx.

A questo punto due strade si aprono, a mio parere in una relazione di et-et piuttosto che di aut-aut.

Una è la soluzione puramente individuale (anch’essa tre volte da benedire), come nell’ellenismo dopo Platone e Aristotele, e forse pure nel neo-platonismo e nel primo cristianesimo: cercare una forma di vita serena o persino beata nel privato. Ciascun per sé e “Dio” per tutti (il Sé per e in tutti). E il collettivo, con tutte le sue solite porcherie e porcate, si arrangi (poiché non se ne può fare a meno, sia assunto in dosi minime, viene fuori ad esempio dalle millecinquecento pagine di Jung a commento del Così parlò Zarathustra). Così ha pensato la stessa psicologia analitica, a quel che credo oggi, rettificando anche alcune mie valutazioni di Psiche e storia (1991). Insomma, si può pure cercare la soluzione al di là del politico-sociale, in un contesto post-politico anche se non già antipolitico. Su ciò nel 2010 sulla “Rivista di psicologia analitica” ho scritto un saggio che non mi pare privo di significato[42].

La seconda soluzione, che può però anche essere aggiuntiva o complementare alla prima (che sarebbe un po’ da “giardini di Epicuro” sia pure di tipo psicologico-spirituale), è di tipo apertamente neo-religioso, come già nel “vero” idealismo “classico”[43].

Su ciò io trovo straordinariamente interessante Nietzsche. E forse è proprio questa la ragione profonda – però al solito oscuramente espressa – che induceva Heidegger a ritenere Nietzsche un pensatore importante come Platone o Aristotele: la consapevolezza che Nietzsche preparava l’avvento di un nuovo dio, alias di un dio in cammino, su cui Manfred Frank ha pure scritto un libro poco notato, ma importante.[44]

In tal caso per noi la cosa si pone più o meno così. Nietzsche lottava contro il dualismo filosofico e pure morale dei tre monoteismi, in cui la materia è solo polvere, con una natura vegetale e animale di cui l’uomo, in quanto il solo animale pensante, spirituale, potrebbe fare quel che vuole. La bestia senza Spirito prevalendo porterebbe al male e lo Spirito come opposto della materia porterebbe l’opposto, nel dualismo, nei monoteismi. Nei monoteismi la materia, anche vivente, e quel che più conta senziente, in quanto non divina ha sempre teso ad essere considerata totalmente utilizzabile o distruggibile, come se fosse il non-spirito, e per ciò stesso come fosse un mucchio di spazzatura. Cartesio, nella quinta parte del Discorso sul metodo, diceva che solo il puro ragionare, in sé spirituale (“cosa pensante”, “res cogitans”), ha valore, e che persino le urla degli animali sarebbero come i cigolii delle cinghie delle macchine, in quanto mera materia. In sostanza solo la non-materia, lo spirito, avrebbe valore[45]. Questo era solo il culmine del dualismo proprio dei tre monoteismi, anche se nei secoli molti si sono studiati di attenuare il dualismo, ammettendo una certa spiritualità pure della natura, da Francesco d’Assisi all’attuale papa Francesco, ma senza poter mai cancellare il dualismo (Dio e mondo, infinito e finito, eternità e tempo, anima e corpo, eccetera).

Ma la visione dualistica – dal Genesi a Cartesio e sin qua – ormai fa a pugni con la scienza, che non può più ammettere l’inutile duplicazione tra Dio e il cosmo; ma il mondo “sdivinizzato”, tutto polvere, fa a sua volta a pugni con la necessità, pratica e psichica, di ritrovare la santità della natura anche per imparare ad amarla, rispettarla e conservarla (e non solo fatti salvi “gli affari”), e pure con la necessità di non essere anaffettivi, e di capire che dobbiamo amare il prossimo come noi stessi non già perché è ovvio che amiamo in primis noi stessi, ma perché “siamo” anche il prossimo, siamo anche viventi tra viventi e nel sempre Vivente: l’Essere è in noi; l’Essere siamo noi. Dobbiamo mangiare, ma ripristinare l’habitat, di cui non siamo affatto i padroni. Per chi se ne intende non è il reale i sé e per sé a essere in noi, ma noi in lui, e lui in noi.

Ma oltre al dualismo spirito-materia e oltre la materia senza spirito (i due opposti fuorvianti da superare), c’è la visione vitalista, né dualistica né materialistica, che da Goethe, Alexander von Humboldt, Schopenhauer, e in modo conflittuale ma fortissimo e quasi tragico Nietzsche, e poi Bergson, e poi Driesh, e Teilhard de Chardin, e poi Panikkar[46] cerca l’infinito e l’eterno nella contingenza del mondo, nella polvere “viva”, nella “pietra scartata dai muratori” che “è diventata la pietra angolare”.[47]

Così Nietzsche voleva pure superare la maledizione del senso di colpa (il “peccato originale”) dei monoteismi, inducendo la bestia umana che vive nella totale e per lui insuperabile contingenza del mondo a scoprire in sé stessa, non solo in senso psicologico ma ontologico, l’infinito e l’eterno. Ciò per me vale al di là della soluzione-mito posticcia dell’eterno ritorno dell’uguale, che è solo una trovata geniale, per quanto da Nietzsche misticamente “ri-scoperta”, per identificare contingenza e eternità del mondo e viceversa. L’eterno ritorno in sé non è tanto importante, ma è decisiva l’intenzionalità filosofica profonda che sottende ivi. Ce l’ha ben spiegato Heidegger nel suo immenso Nietzsche (1936/1946, ma 1961), in cui si dice che in base all’istanza sottesa al mito dell’eterno ritorno l’uomo dovrebbe vivere ogni istante come qualcosa che valga eternamente, percependosi come eterno: non però al di là della vita e del vissuto, ma nella contingenza del mondo. Chi ci riuscisse diverrebbe “oltreumo”, testimoniando che anche dopo la morte di Dio c’è un’uscita di sicurezza dal nichilismo: il cogliersi eterni in vita. Questo, però, quantunque scoperto e sperimentato da pochi, svelerebbe una soluzione per l’ànthropos, cui pure Zarathustra mirava quando aveva cominciato portando “un dono agli uomini” e provando a spiegarsi, seppure invano, sul “mercato”, cioè parlando “a tutti”. Ma la scoperta ontologica dell’eterno nel vivente, nella contingenza del mondo, implica un dio in cammino, il divino “nella” vita.

Su ciò nel mio Nietzsche dopo la follia. Romanzo dionisiaco ho provato a fare un passo oltre la “follia divina” che colpì Nietzsche dal gennaio 1889 alla morte (agosto 1900), immaginando che il “dio nella vita”, che per lui era Dioniso, lo risvegliasse il 1° gennaio 1900 dalla follia, aiutandolo a superare taluni tratti reazionari e anticristiani del suo pensiero. Si capisce che se uno pensa tuttora che i tratti reazionari sottendano una sostanza reazionaria del suo pensiero, non si faccia “persuaso”, semplicemente perché seguita a vedere Nietzsche al modo dei nazisti e in modo nazista (ma in tal caso perché perdere tempo a leggerlo e meditarlo, quando persino in quel campo ci sono autori di ben altro spessore?), sicché negare questo punto per chi lo veda come nazi è snaturarlo. Invece io trovo assurdo, per dirlo con gentilezza, vedere la “sostanza” di questo pensiero, pensatore e uomo in tal modo. Invece proprio in Nietzsche, filosofo e pure poeta e “homo”, è centrale il nesso contingenza e eternità, corpo e spirito, e così via al di là di tutti gli aut aut metafisici e pure morali. È centrale la scoperta dell’inerire dell’infinito e eterno alla contingenza del mondo, come se fosse il massimo a stare nel minimo, che porta a riscoprire il divino nella vita, cioè Dioniso come una sorta di lievito, o prima radice, non al di là dei viventi e di noi stessi, ma come noi stessi. Non ci redimiamo dal Redentore, come aveva detto nella massima furia filosofica iconoclasta, ma redimiamo il Redentore, rendiamo umano il divino, rendiamo l’infinito “finito”, e così facciamo pure il rovescio.

Su ciò vale la pena di spendere qualche parola. Nietzsche ha quasi imposto la scoperta di Dioniso nella cultura contemporanea, in La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872). Ma il filosofo del 1872 (e anche per un altro decennio circa) era pur sempre figlio di un tempo che dal 1848 agli anni Novanta del XIX secolo era stato ateistico e pure evoluzionistico biologico e positivistico. Nietzsche aveva letto con passione la storia del materialismo di Lange e c’è persino un punto dello Zarathustra in cui la sentenza polemica di Feuerbach “lo spirito è uno stomaco” viene ripresa tal quale. Perciò quando nel 1872, nella Nascita della tragedia, scopre Dioniso, lo scopre con un approccio, che credo influenzerà pure il grande sociologo Max Weber, che si chiama “tipo ideale”: una sorta di filtro esplicativo (spirito dionisiaco), complementare-opposto a quello “apollineo” (razionalizzazione nell’irrazionale) per interpretare una miriade di fenomeni culturali dell’ellenismo. Ma via via il simbolo, come forse tutto in Nietzsche, si fa carne e sangue, passione, Essere. E infatti sin da testi del 1886, tre anni prima che impazzisca, Dioniso gli appare, e parla con lui. Ho citato testi. Il dio nella vita comincia a “sauté fora” (come direbbero nel mio Borgo San Paolo natio). E del resto questo è in più punti del tutto chiaro nel Nietzsche del 1885/1889 nelle sue poesie, e specialmente nei Ditirambi di Dioniso, ma anche se uno legga con un minimo di malizia religiosa il capitolo praticamente ultimo (è il penultimo, ma l’ultimo è solo un epilogo) dello Zarathustra: “L’ebbra canzone”. E innumerevoli lettere. Ma nella sua crociata filosofica contro il dualismo religioso e morale, Nietzsche tende a opporre il dio nella vita che viene emergendo, e trapassando di continuo dallo psicologico all’ontologico e viceversa, al Cristo, quasi come neopaganesimo contro cristianesimo (questo è uno dei punti chiave dell’interpretazione di Löwith), tanto da terminare il suo già un poco delirante profilo autobiografico Ecce homo (1888), con le parole, messe da lui stesso in corsivo: “Sono stato capito? Dioniso contro Gesù Cristo”.

E tuttavia già in Ecce homo dice di temere che un giorno lo si faccia “santo”. E già nel suo fosco estremo e per me reazionario Anticristo, c’è tutto un paragrafo, il trentatreesimo, in cui sostiene che in controluce nei Vangeli emerge un altro Cristo, diverso da quello neo-farisaico e paolino ben presto della Chiesa (già nel “paolino” Luca): uno, diceva lì Nietzsche in riferimento a questa sorta di Cristo “sotto traccia”, che vuole che si acceda a un senso dell’eterno in vita, che è il Regno dei cieli, e che non si abbia che amore per tutti (altro che “anatemi” lucani nel bel mezzo delle sue Beatitudini e che sono persino “di più” di esse), e che si viva con pienezza ogni giorno: un “santo anarchico”. E poco oltre, nella lucida follia dei messaggi scritti da pazzo nei primi giorni della sua pazzia, identifica Cristo e Dioniso[48]: il che in termini junghiani possiamo benissimo vedere come “evoluzione dell’archetipo dell’eterno” (Aion), così come in Jung[49]: che secondo me in termini socioculturali va verso la scoperta che l’ateismo furibondo di Marx e Nietzsche, che volevano Dio nell’Io e il paradiso o nei cuori oppure sulla terra, non sono stati altro che il mettere da canto i vecchi dèi, come nel mondo tardo antico facevano Luciano oppure gli gnostici con i loro dèi “morti” o morenti: preludio – ora! – ad una visione del cosmo in cui Dio è nella Natura e la Natura però è in Dio: nel dio non già “vivente”, o “della” vita, ma “nella vita”: per il che rinvio pure alle opere di Fritjof Capra, di Arne Naess e di Gary Snyder da me analizzate nell’anno 2000 nel mio libro Il mito della nuova terra. Cultura, idee e politica dell’ambientalismo.

Nel mio Nietzsche dopo la follia. Romanzo dionisiaco, c’è infatti tutta una seconda parte in cui ho immaginato un Dioniso che si era temporaneamente incarnato pure nel “vero” Cristo, partendo dal Cristo più ellenistico, più vicino, notoriamente, alle religioni dei misteri (allora isiaci e dionisiaci). Nietzsche sin da un frammento del 1869 aveva detto “dionisiaco” il Vangelo secondo Giovanni.

Mi è sempre parso assurdo pensare che un uomo capace di intuizioni profondissime come il Cristo sia uscito così dalla falegnameria di suo papà. Mi sono immaginato, anche sulle tracce di Celso, citato nelle opere di Origene, che ci sia stato un Cristo egiziano non solo nella prima infanzia, ma giudeo-egizio-greco per cultura, grande riformatore ammazzato per ragioni politiche dal crudele romano con la connivenza – per la solita persecuzione ecclesiale tradizionale contro l’eretico – del giudaismo del “tempio” di Gerusalemme. Mettendo in primo piano il Cristo più vicino alle religioni dei misteri di Giovanni, ma pure dell’apocrifo splendido Vangelo di Tommaso[50], con qualche forzatura mirata, ho provato a prefigurare il dio “nella” vita che ritengo, al pari dell’ultimo Heidegger, in cammino.

Con ciò mi è parso però di dover fermare il grande dialogo tra Nietzsche e Dioniso, per non forzare praeter necessitatem il “livorsismo” di questo Nietzsche dopo Nietzsche, nel romanzo svolgente le premesse di Nietzsche. Perciò il lavoro prosegue con “Il dio nella vita”, in cui “il dio” parla con me, come si vedrà. Lì dapprima racconto il mio percorso, generalmente umano, ma sempre con la ricerca dell’Essere infinito, eterno e empatico (“Essere e non essere nella mia esistenza” è il sottotitolo del primo tomo): con, contro e poi insieme al divino immanente, che per me è “Dio nella Natura” (“Deus ive Natura”, come in Spinoza), ma pure “Natura sive Deus” (di nuovo come in Spinoza): con – ecco un punto assolutamente chiave per me – perfetto scambio tra l’eternità e la contingenza del mondo. Perciò riprendo pure l’idea della rinascita, del buddhismo tibetano, che però io credo perenne, e propria del nostro eterno “essente” (come lo direbbe Severino, che tra l’altro per me, lo sapesse o volesse o meno, eternizzava la monadologia di Leibniz)[51]. Ma diversamente non solo dai monoteismi, ma pure da induismo e buddhismo, per me questa tragica e magnifica vita che sempre ritorna non è da condannare, ma vitalisticamente da accettare. E forse questo è proprio irriducibilmente nietzscheano, ma certo molto al di là di Nietzsche e dei suoi troppo individualistici e teomorfi “eroici furori”. Il nuovo contesto per me ha da essere sempre spirituale e rosso-verde, ma se non scopriamo in noi l’eterno in vita non andiamo più da nessuna parte.

In questo poema, Il dio nella vita, che presto prenderà ad arrivare, in tre “cantiche” (la prima è un’autobiografia incentrata sulla ricerca dell’Essere; la seconda è “Lo svelamento dell’Essere nel tempo della morte di Dio” e la terza è “Lo svelamento dell’Essere dopo la morte di Dio”), e tre tomi, mi esprimo in versi: per ragioni che non starò neanche a spiegare, per chi conosce i presocratici, ma anche quel che dice sul filosofare in tal modo un filosofo oscuro (Heidegger), che qua e là nel mio romanzo il duo Nietzsche-Dioniso talora canzonano, ma che con tutta la sua oscurità e talune ombre del suo vivere politico, resta senza ombra di dubbio uno dei maggiori e probabilmente il maggiore del Novecento. Da un lato sta la ricerca della felicità che facciamo pure uno per uno, e che è da precisare, e per me vale pure per sé stessa, anche come “disalienazione”; ma dall’altro sta il tentativo di definire un nuovo pensiero, psicologico religioso ma pure politico e sociale. Si tratta di una vera “nuova vision”, quale sarà il suo valore, che io non so e sono abbastanza “sobrio” da non voler sapere. Come un contemporaneo che scrive un romanzo non deve sentirsi per forza come Alessandro Manzoni, così l’autore di un poema non ha da sentirsi Omero o Dante Alighieri; ma neanche ha da sentirsi come il compagno di scuola portato dal contestatore come poeta all’esame di maturità in Ecce Bombo di Moretti. “Ai posteri l’ardua sentenza”, che magari non interesserà nessuno, e ci può stare. Ma ogni autore che si senta vero, e tale mi sono sempre sentito io, deve credere in quel che fa.

Diciamo che il mio è uno dei mille contributi nella direzione che molti auspichiamo: l’emergere del divino “nella” vita: direi lo svelamento dell’eterno nella contingenza del mondo: uno dei tanti volti del divino in cammino vagliati da Manfred Frank, e che adesso trovo bello confrontare anche con il libro di Friedrich Georg Jünger Apollo, Pan, Dioniso, a cura di Mario Bosincu (2023). Ma è pure molto interessante vedere e meditare tali cose rivedendo il bel film di Mario Martone Capri-Revolution (2018), in cui un gruppo di vitalisti libertari e pacifisti s’insedia nella bella isola, a ridosso della Grande Guerra, che travolge l’utopia pagano mediterranea libertaria.[52] Speriamo di non fare la stessa fine di quei generosi vitalisti libertari, come forse il regista teme.

Qui, però, c’è un ultimo equivoco da sciogliere. Perché la nuova religiosità? E come si può questo conciliare con una visione laica dello Stato?

Per i “giardini di Epicuro”, ma fossero pure di Plotino, la soluzione individuale, psicologico analitica, basta e avanza. Ma per il mondo no, come nel saggio di Jung Presente e futuro (1956) già trapelava[53]. Ma fallite le soluzioni per cui la rinascita dell’uomo o è volontaristica in senso personale (Nietzsche) o la “conseguenza” di un mutamento sociale (Marx), solo l’empito di una nuova fede redentiva in cammino, “nella” vita e non al di là della vita, potrebbe smuovere i cuori. In altre parole il nuovo pensiero riformatore – che per me è socialista e verde – ha da essere spirituale (anzi, in primo luogo spirituale). E ciò è così vero che in mancanza della religiosità riformatrice, che come si è visto viene da lontano, quel che nella storia urge sta arrivando in senso reazionario (capita sempre così, quel che urge se non arriva in forma rivoluzionaria, arriva in forma reazionaria), con Putin che è o finge di essere cristiano ortodosso, i rosari esibiti come un cinturone da Matteo Salvini, il “Dio, patria e famiglia” della Meloni, e certi epigoni “rivoluzionari” dell’ultramarxista Costanzo Preve (che io ho ben conosciuto), come Diego Fusaro, che inneggiano a Ratzinger[54], e magari con un Pio XIII neo-reazionario dopo papa Francesco, magari eletto dai cardinali che ha nominato lui.[55]

Il punto è che per superare “l’uomo a una dimensione” si può solo convertirlo: ma non – credo io – alle ormai immangiabili minestre riscaldate della vecchia fede (che alla fine faranno o farebbero male alla pancia dell’umanità in cammino, cui anche il nuovo nazionalismo andrà per traverso in un mondo fatalmente globalizzato), ma solo tramite una nuova religiosità “nella” vita, che neghi la visione del mondo vegetale e animale come un mucchio di spazzatura: vecchia visione, troppo a lungo vanamente dualista o vanamente materialista, che ci ha portato sin qua, quasi alla catastrofe.

Ciò però si sposa benissimo con la laicità, nel senso del “modello Stati Uniti”: le religioni sono importantissime, ma hanno da restare fuori dalla porta dello Stato (scuola e Università comprese). Ma qui c’è pure una lezione politica importantissima da trarre: bisogna riscoprire sempre più i movimenti di vita nuova non già nello Stato, che ci vuole ma ha da essere uno Stato liberale sociale minimo, bensì nella società civile al di là dello Stato, che a mio parere dovrebbe essere il vero terreno di una vita nuova, spirituale socialista ed ecologista in cammino. In certo modo abbiamo bisogno di uno Stato senza Rivoluzione, ma anche di una Rivoluzione senza Stato, tutta nella società civile. A ciò punta il mio “dio nella vita” in arrivo.

di Franco Livorsi

  1. L’opera è uscita presso Moretti & Vitali, a Bergamo, nel 2024.
  2. Il meglio di Federico Nietzsche, a cura di Liliana Scalero, con i testi di cui ho detto. La nascita della tragedia dallo spirito della musica era del 1872; Così parlò Zarathustra. Ul libro per tutti e per nessuno, del 1883-1887. I Ditirambi di Dioniso del 1887-1888; Ecce homo. Come si diventa quello che si è, del 1888, ma 1907. Di lì l’editore, scannerizzando semplicemente la parte relativa al Così parlò Zarathustra, ha tratto un’edizione, con Prefazione di R. Escobar, nel 1979.
  3. A. BAEUMLER, Nietzsche filosofo e politico (1931), Edizioni Lupa Capitolina, Padova, 2003; G. LUKÀCS, La distruzione della ragione (1954), Einaudi, Torino, 1959 (e Mimesis, Milano, 2010, due voll.), qui a confronto con i suoi: L’Anima e le forme (1910), Se, Milano, 2012; G. LUKÀCS, Teoria del romanzo (1920), ivi, 2015; Storia e coscienza di classe (1923), Sugar, Milano, 1967. Poi si rinvia a: D. LOSURDO, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, da confrontare con altri suoi significativi contributi come: Hegel, Marx e la tradizione liberale, Editori Riuniti, 1988; Controstoria del liberalismo, Laterza, 2006; Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, 2017, ma pure con il suo: Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma, 2008.
  4. G. SOREL, Considerazioni sulla violenza (1908), con Prefazione di B. Croce, Laterza, 1909 (conteneva importanti riferimenti a Nietzsche); B. MUSSOLINI, La filosofia della forza. (postille alla conferenza dell’on. Treves), “Il Pensiero Romagnolo”, n. dal 48 al 50 del 29 novembre, 6 e 13 dicembre 1908, e in: Scritti politici di Benito Mussolini, a cura di E. Santarelli, Feltrinelli, Milano, 1979, pp. 99-109 (“saggio” su Nietzsche); G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Garzanti, Milano, 1974; G. VATTIMO, Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000, Garzanti, 2000; G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia (1962) e altri scritti, Einaudi, 2002; M. CACCIARI, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, 1976.
  5. R. MADERA, Sconfitta e utopia. Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche, Mimesis, Milano, 2018 (ma v. pure: F. LIVORSI, Romano Madera tra Marx e Nietzsche, “Città Futura on line”, 13 marzo 2019).
  6. N. BOBBIO, Destra e Sinistra. Ragioni e significato di una distinzione politica, Donzelli, Roma, 1995. Ma si veda pure: F. LIVORSI, Destra e sinistra secondo Norberto Bobbio, “Belfagor”, a. L, n. 295, gennaio 1995, pp. 93-98.
  7. F. NIETZSCHE, La gaia scienza (1882/1887), in “Opere complete”, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1965, soprattutto al libro III, par. 124-125, in cui un filosofo pazzo-savio annuncia ai miscredenti la morte di Nietzsche e le tragiche conseguenze nichilistiche che ne verranno se l’uomo non diverrà dio a sé stesso. Il motivo ritorna poi a lungo, specie nel cit. Così parlò Zarathustra.
  8. Diceva Zarathustra, nel “Prologo”: “Tutti gli esseri sino ad oggi hanno creato qualcosa al di là di loro stessi, e voi invece vorrete tornare ad essere bestie anziché superare l’uomo?”.
  9. Il mito dell’ultimo uomo, che è sostanzialmente l’opposto dell’oltreuomo, è nel Prologo dello Zarathustra. È da confrontare con: H. MARCUSE, L’uomo a una dimensione (1964), Einaudi, 1967; F. FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), Rizzoli, Milano, 1992. Su ciò il notevole filosofo della politica comunista Mario Tronti, in: Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Il Saggiatore, Milano, 2016, ha osservato: “La democrazia reale è riuscita là dove ha fallito il socialismo reale: ha creato l’uomo nuovo. Solo che lo ha creato nella figura dell’ultimo uomo. Non a caso, giustamente dal suo punto di vista, ha declamato in sé la fine della storia (p. 185).”
  10. Mi sembra assolutamente da recepire la proposta di Vattimo di tradurre Übermensch con “oltreuomo”.
  11. G. PAPINI, Un uomo finito (1913), Oscar Mondadori, Milano, 2022.
  12. M. TRONTI, Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Il Saggiatore, Milano, 2016.
  13. F. LIVORSI, Note su Mario Tronti e il marxismo, “Città Futura on line”, 16 agosto, 2023; Operai e capitale nell’Italia in cammino: il punto di vista di Mario Tronti, ivi, 3 dicembre 2023; Comunismo italiano, “autonomia del politico” e “spirito libero” nel pensiero di Mario Tronti, ivi, 3 dicembre 2023.
  14. K. MARX – F. ENGELS, La Sacra famiglia, ovvero Critica della critica critica, Contro Bruno Bauer e soci (1844), a cura di F. Codino, Editori Riuniti, Roma, 1969; L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, Bruno Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (1946, ma 1930), a cura di F. Codino, ivi, 1958; F. ENGELS, Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1886), che in appendice pubblicava: K. MARX, Tesi su Feuerbach (1845), a cura di P. Togliatti, Rinascita, 1950.
  15. K. MARX, Il capitale, I (1867; seconda ed. nel 1873), tr. di D. Cantimori, Pref. di M. Dobb, Editori Riuniti, 1962.
  16. K. MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Introduzione (1844), in: Annali franco-tedeschi, di A. Ruge e K. Marx (1844), a cura di G. M. Bravo, Edizioni del Gallo, Milano, 1965, pp. 125-142. Per tutti questi aspetti rinvio al mio libro: Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo, Golem Edizioni, Torino, 2021.
  17. K. MARX, “Opere filosofiche giovanili” (1841/1844), a cura di G. della Volpe, ma v. qui: K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, pp. 143-278; La guerra civile in Francia (1871, e poi 1893 a cura di F. Engels), e in: MARX – ENGELS, “Il Partito e l’Internazionale”, a cura di P. Togliatti, Rinascita, 1950, pp. 129-142. Su ciò rinvio pure a: F. LIVORSI, L’idea della comunità senza classi e senza Stato nella storia del marxismo, in: “Comunità individuo e globalizzazione”, a cura di G. Cavallari, Carocci, 2001, pp. 95-124;
  18. Richiamo, per ora, i miei maggiori contributi su socialismo, comunismo e marxismo, in specie: Amadeo Bordiga. Il pensiero e lazione politica, Editori Riuniti, Roma, 1976; Filippo Turati. Cinquant’anni di socialismo in Italia, Rizzoli, Milano, 1984; Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo (2021). Sul marxismo teorico rinvio ai seguent miei scritti: “La coscienza nella storia. Idee, forze sociali e individui nell’idealismo”, “”Essere sociale e coscienza nel materialismo storico di Marx”, “Libertà operaia e Stato operaio nel pensiero di Marx”. “La critica marxista della civiltà capitalistica e il superamento del materialismo storico”, nel mio libro Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo. Dal 1800 al 2000 , Giappichelli, Torino, 2003, pp. 70-145 e 253-274; L’idea della comunità senza classi e senza Stato nella storia del marxismo (2001, in AA.VV., “Comunità individuo e globalizzazione”, pp. 95-124); Karl Marx: il filosofo, il politico e l’economista (2012), in: L. Bassani – S. Galli e F. Livorsi, “Da Platone a Rawls”, Giappichelli, 2012, pp. 273-302). E inoltre: Utopia e totalitarismo. George Orwell, Maurice Merleau-Ponty e la storia della rivoluzione russa da Lenin a Stalin, Tirrenia Stampatori, Torino, 1979 (da integrare col mio saggio La psicologia del totalitarismo secondo Orwell. Note e riflessioni, in: FONDAZIONE LUIGI FIRPO – CENTRO STUDI SUL PENSIERO POLITICO, “George Orwell. Antistalinismo e critica del totalitarismo, L’utopia negativa”, a cura di M. Ceretta, Olschki, Firenze, 2007, pp. 161-179).
  19. K. MARX, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1850), a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, Roma, 1962, p. 157.
  20. Su ciò si veda il Poscritto di Marx alla riedizione del primo volume del Capitale (già 1867), del 1873, sulla dialettica hegeliana, in: K. MARX, Il capitale, I, con Prefazione di M. Dobb, Editori Riuniti, 1962.
  21. F. LIVORSI, Utopia e totalitarismo. George Orwell, Maurice Merleau-Ponty e la storia della rivoluzione russa da Lenin a Stalin, Tirrenia Stampatori, Torino, 1979.
  22. F. LIVORSI, Socialismo e libertà nel mondo di Gorbaciov, “Il Ponte”, a. XLVI, n. 6, giugno 1990, pp. 19-49.
  23. L. TROCKIJ, La rivoluzione tradita (1936), Schwarz, Milano, 1956.
  24. F. LIVORSI, La fine del materialismo, “Critica Sociale”, gennaio-febbraio 1992, pp. 22-25.
  25. Sono convinto che Mazzini sia veramente un importante pensatore romantico, politico e religioso. Avevo pure raccolto molto materiale per un libro su religiosità e politica in Mazzini, e Edmondo Aroldi mi aveva persino prposto di farne la biografia politica per Rizzoli nel 1985, ma poi ho finito per non farlo. Mazzini non interessava a nessuno dei tre ordinari con cui ho avuto a che fare prima di diventarlo io stesso: Gian Mario Bravo, perché condivideva le opinioni sferzanti su Mazzini di Marx; Silvia Rota perché condivideva la totale ripulsa contro Mazzini da parte del pensatore che aveva più studiato, Giuseppe Ferrari, e Ettore Albertoni perché quando io ebbi a collaborare con lui era fautore della Padania. Così lasciai stare e poi maturarono in me altre priorità. Ma ho potuto esprimere la mia visione su di lui almeno nel capitolo Il pensiero politico e religioso di Mazzini, in: L. M. BASSANI – S. B. GALLI – F. LIVORSI, “Da Platone a Rawls”, Giappichelli, Torino, 2012, pp. 315-328. Integra pure il mio saggio: République et types de représentation dans la théorie politique de Giuseppe Mazzini, in: “Le concept de représentation politique dans la pensées politique”, in: “Actes du colloque d’Aix-en-Provence (Université de Marseille), 2003, pp. 341-359. Si veda pure: AA.VV., Libertà e Stato nel 1848-49. Idee politiche e costituzionali, a cura di F. Livorsi, Giuffré Milano, 2001, specie a pp. 89-117. Sarà per la prossima vita. Comunque in una prospettiva di Risorgimento Socialista, spirituale e rosso-verde, per me Mazzini è da riprendere.
  26. Marx si considerava soprattutto critico dell’esistente, e nessuna parola è più presente della parola “critica” nei titoli o sottotitoli dei suoi libri. Perso il Capitale era “Critica dell’economia politica”. Pensiero e rivoluzione per lui erano soprattutto decostruzione. Tuttavia più o meno dal 1890 in poi, e comunque alle soglie del ‘900 il socialismo si sdoppia in riformismo legalitario e socialismo rivoluzionario, poi comunismo. Con le conseguenze ben note di tipo politico e istituzionale, da cui la stessa valutazione del marxismo non può prescindere.
  27. M. HEIDEGGER, Nietzsche (1936/1946, in vol dal 1961), a cura di F. Volpi, Adelphi, 1994.
  28. B. SPINOZA, Etica dimostrata geometricamente (1665 ma postuma 1677), in “Tutte le opere”, con testo latino a fronte, a cura di A. Sangiacomo, Bompiani, Milano, 2010.
  29. C. G. JUNG, Realtà dell’anima (1957), Boringhieri, Torino, 1963.
  30. F. Livorsi, Un’anima che viene da molto lontano. (Sopratitolo: “Riflessioni su Carl Gustav Jung”), supplemento a “Il Piccolo” di Alessandria del 13 gennaio 1982. Ma si veda pure il mio: Note su struttura e sovrastrutture, “il pensiero politico”, XIX, n. 3, 1987, pp. 395-400, poi da me riproposto con alcune variazioni minime, col titolo: “Tesi su struttura e sovrastrutture”, al termine del mio: Stato e libertà. Questioni di storia del pensiero politico, Tirrenia Stampatori, Torino, 1992.
  31. F. LIVORSI, Psiche e storia. Junghismo e mondo contemporaneo (1991); Politica nell’anima. Etica, politica, psicanalisi, Moretti & Vitali, Bergamo, 2007; Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo, ivi, 2010; L’avventura di Jung. Romanzo-verità, Falsopiano, Alessandria, 2012.
  32. Il legame tra il nietzscheano diventare quello che si è. Che lì è il punto chiave, e l’idea d’individuazione è evidente, tanto più che in Schopenhauer il termine “individuazione”, lì usato, ha il senso negativo del perdersi della volontà infinita nella finitezza che la chiude nella particolarità, nella noia e nel dolore. Ma per Jung e Nietzsche si veda il fondamentale: C- G. JUNG, Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario tenuto nel 1934-1939, a cura di J. L. Jarrett, 1988 (postumo), e a cura di A. Croce, Bollati Boringhieri, 2011/2013, quattro volumi.
  33. Per l’occasione apprestai un testo, parte manoscritto e parte manoscritto, di oltre 600 cartelle, intitolato “I sogni della mia vita”, che spero rimarrà inedito almeno una ventina d’anni dopo la mia morte (ma probabilmente sarà per sempre), Dal 1979 tengo Diario e lì ho trascritto e provato a interpretare innumerevoli sogni sino ad oggi.
  34. F. LIVORSI, La mente e l’essere. Psicologia analitica e filosofia contemporanea, “Nuova Antologia”, vol. 619, n. 2286, n. 2, 2018, pp. 153-177.
  35. V. MANCUSO, Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del principe di questo mondo, Piemme, Casale Monferrato, 1996. Hegel è inteso come vero grande filosofo religioso, ma nel suo monismo avrebbe annullato di fatto il male.
  36. A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, Edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, quattro volumi. Sul marxismo sovietico è da vedere: a. WETTER, Il materialismo dialettico sovietico, Einaudi, 1948, ma si veda pure: L. GEYMONAT, Scienza e realismo, Feltrinelli, 1977, che pur essendo di formazione logico matematica, riscoprendo il realismo materialistico intendeva fare muro contro l’irrazionalismo, che riteneva dilagante. Col materialismo sovietico puttaneggiava pure Lucio COLLETTI, tanti anni dopo berlusconiano, come nell’Introduzione a: LENIN, Quaderni filosofici, Feltrinelli, 1958. Invece più prossimo a Gramsci è sempre il marxismo di Lukàcs. Culmine del marxismo gramsciano può essere considerato: N. BADALONI, Il marxismo come storicismo, Feltrinelli, 1962.
  37. W. DILTHEY, Storia e giovinezza di Hegel. Frammenti postumi (1921), a cura di G. Cacciatore e G. Cantillo, Guida, Napoli, 1968, da confrontare con: G. LUKÀCS, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica (1937-1938 ma 1950), Einaudi, 1960 e infine 1975, due volumi, che si oppone al primo.
  38. G. W. F. HEGEL, Scritti teologici giovanili (postumo, 1907), Presentazione di F. Tessitore e Introduzione di G. Calabrò, Guida, Napoli, I, 1972 e II, 1989; Lezioni sulla filosofia della religione (1822/1831, ma postumo 1937, e a cura di L. Lasson, e in it. di E. Oberti e G. Borruso, Laterza, 1983, tre voll.; Lezioni di filosofia della religione (1823), a cura di R. Garaventa e S. Achella, Guida, 2001 (in parte più attendibile dell’anteriore perché si basa sul quaderno “migliore” di un solo corso invece di assemblare quaderni di allievi diversi di più anni, secondo criteri meno filologici del XIX secolo). Ma rinvio pure al cap. “Antefatto romantico e mistico: la Rifrma neo-religiosa dell’Idealismo”, nel mio cit. Il Rosso e il Verde, pp. 27-41.Resta fondamentale, per me: K. LŐWITH, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria del secolo XIX (1949), Einaudi, 1949 e poi 1964.
  39. A. AGOSTINO, La vera religione (387/396), a cura di M. Vannini (con testo latino a fronte), Mursia, Milano, 1987 (specie al cap. 39).
  40. F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male (1886), Adelphi, 1987.
  41. G. W. F. HEGEL – J. C. F. HŐLDERLIN, Eleusis, Carteggio. Il poema filosofico del giovane Hegel e il suo epistolario con Hölderlin a cura di L. Parinetto, Mimesis, Milano, 1996. Pubblica sia il piccolo frammento di Hegel del 1794 che le lettere che i due amici si scambiarono nel 1795-1796.
  42. F. LIVORSI, Il politico, l’antipolitico e il post-politico. Note e riflessioni, “Rivista di psicologia analitica”, vol. 81, n. 29, 2010, pp. 125-144. La versione originaria era il doppio di questa, ed era molto piaciuta a Madera. E ancora sta nel mio Archivio. Ma essendo troppo lunga, e non volendo io farla uscire in due o tre puntate come Madera mi propose come eventualità estrema, ne scrissi una versione più breve, appunta quella citata.
  43. Così il gentiliano Ugo Spirito elaborò il problematicismo, che è apertura effettiva all’identificazione tra “l’atto puro del pensiero” e Dio, però senza che si possa sciogliere il quesito se l’Essere sia solo mentale o se la mente sia pure infinita in senso concreto. Su questa scia alcuni attualisti, come ad esempio Augusto Guzzo, giunsero a identificare l’Atto puro del pensiero con Dio, e viceversa.
  44. M. HEIDEGGER, Nietzsche (1936/1946, ma 1961), tr. di F. Volpi, Adelphi, 1994; Ormai solo un dio ci può salvare (1967, ma 1976), a cura d A. Marini, Guanda, Parma, 1987. Ma si veda: M. FRANK, Il dio a venire. Lezioni sulla Nuova Mitologia (1982), Einaudi, 1994.
  45. R. CARTESIO, Discorso sul metodo (1637), con testo francese a fronte, a cura di L. Urbani, Bompiani, Milano, 2002.
  46. M. FRANK, cit. Inoltre si vedano: P. TEILHARD DE CHARDIN, Il fenomeno umano (1938/1940), a cura di F. Mantovani, Queriniana, Brescia, 1996; Il posto dell’uomo nella Natura. Struttura e direzioni evolutive (1949), Jaca Book, Milano, 2011; R. PANIKKAR, Realtà cosmoteandrica, Jaca Book, 1993.
  47. Salmo 117 (118).
  48. F. NiETZSCHE, L’Anticristo (1888, ma postumo 1907), Adelphi, Milano, 1971. Ma si vedano i “biglietti della follia, in: F. NIETZSCHE, Epistolario 1885-1889, Versione di V. Vivarelli e notizie e note di G. Campioni e M. C. Fornari, Adelphi, Milano, 2011, missive dal 31 dicembre 1888 al 6 gennaio 1889, pp. 882-894.
  49. C. G. JUNG, Aion. Ricerche sul simbolismo del Sé (1951), in “Opere”, vol. 9, 2°, 1982. Mostra proprio l’evoluzione dell’archetipo del divino, con particolare riferimento al Cristo. Con la vasta seconda parte su Cristo, nel mio romanzo su Nietzsche ho provato anch’io a dare il mio piccolo contributo.
  50. Tanti anni fa ho sentito io stesso il grande teologo Pietro Rossano, in una conferenza alla Biblioteca Nazionale di Torino, prevedere che il Vangelo secondo Tommaso potrà in futuro essere riconosciuto come un quinto Vangelo, aperto specialmente alla problematica religiosa dell’Oriente, tanto alta e intensa è la sua spiritualità, ma pure antichità.
  51. E. SEVERINO, La struttura originaria, La Scuola, Brescia, 1958 e infine Adelphi, 1981; Essenza del nichilismo (1972), e infine Adelphi, 1986; Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia, Rizzoli, 2000. Ma si confronti con illustrazione e commento a un classico della religiosità buddhista tibetana: S. RINPOCHE, Il libro tibetano del vivere e morire, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 2015.Ma si veda pure: W. LEIBNIZ, Monadologia (1714), a cura di G. De Ruggiero, Laterza, 1936. Monade sta per “unità”. Il reale sarebbe fatto di unità (monadi) “inestese” e perciò spirituali. Dio è visto come la “prima monade”, che crea il mondo per “irradiazione”. Naturalmente il filosofo cristiano non voleva né poteva dire che con ciò l’eterno traeva da sé gli eterni, come elementi, atomi spirituali, del suo Uno e Eterno, Uno-Tutto, senza essere o sentirsi panteista, ma la contiguità concettuale mi pare forte.
  52. F. G. JÜNGER, Apollo, Pan, Dioniso, a cura di Mario Bosincu, Le Lettere, Firenze, 2023. Si tratta di un libro interessantissimo e al tempo stesso costruito in modo un po’ strano perché il vero libro (pp. 169-281) è quasi l’appendice dell’Introduzione (pp. 5-165), Introduzione che è una sorta di ricostruzione di tutta la problematica epocale mistico panteista, posta in alternativa ai miti di potenza del regime “nazi”, con cui pure coesisteva. Ma le cose che racconta sono purtuttavia importanti tutte quante, pur avendo un nesso un po’ costruito col saggio presentato.
  53. C. G. JUNG, Presente e futuro (1956), in “Opere”, 10-2°, 1985.
  54. D. FUSARO, La fine del cristianesimo. La morte di Dio nel tempo del mercato globale e di Papa Francesco, Piemme, Milano, 2023.
  55. Papa FRANCESCO (Jorge Mario BERGOGLIO), Laudato si’. Enciclica sulla cura della casa comune, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2016, in cui emerge un forte approccio ecologico profondo; Fratelli tutti. Enciclica sull’amicizia sociale, ivi, 2020, in cui c’è un forte tratto solidarista, contiguo al socialismo cristiano. Sono indubbiamente tendenze emergenti nella direzione che auspico, anche se temo fortemente che la chiesa cattolica non proseguirà su tale strada, regredendo rispetto a queto riformismo minimo. Ma se non sarà così, sarà tanto meglio.

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