“(…) un mutamento del valore della moneta, vale a dire del livello dei prezzi, interessa la società soltanto nella misura in cui operi in modo ineguale. Mutamenti nel valore della moneta hanno determinato in passato, e stanno determinando oggi, conseguenze sociali enormi poiché, come tutti sappiamo, il valore della moneta non muta in egual misura per tutti o a tutti gli effetti. (…) Pertanto, un mutamento nei prezzi e nelle retribuzioni, misurato in moneta, colpisce generalmente le diverse classi in modo diseguale, trasferisce ricchezza dall’una all’altra, porta benessere ad una parte e disagio all’altra, e ridistribuisce i favori della fortuna frustrando progetti e speranze”.
M. Keynes, Conseguenze sociali del mutamento di valore della moneta, in Esortazioni e profezie, il Saggiatore, Milano, 1968, p. 67.
Mi è stato fatto notare che la parte finale del mio “È chiaro che…”[1], laddove mi riferivo al fenomeno che ho indicato come “svalutazione interna” seguita al cambio della moneta, necessita di qualche chiarimento.
In quell’articolo, al fine di spiegare gli effetti della “svalutazione interna”, portavo ad esempio il prezzo di una pizza Margherita, un piatto molto popolare che prima dell’introduzione dell’euro costava 5 mila lire e oggi costa mediamente 5 euro (ossia poco meno del doppio del vecchio prezzo in lire). Il fatto di avere considerato, con riguardo ad un unico bene, il prezzo rivalutato al cambio di 1.000 lire anziché quello ufficiale di 1.936,27 (cambio al quale sono stati convertiti i salari e gli stipendi), lascerebbe intendere che il fenomeno della “svalutazione interna” sia avvenuto in maniera generalizzata con una svalutazione del 100%, un’ipotesi smentita dalle ricerche effettuate dall’Ufficio Studi della Banca d’Italia e che non trova riscontro, paradossalmente, nei dati ufficiali sull’inflazione.
Sta di fatto che tutti coloro ai quali gli stipendi e salari sono stati convertiti in euro al cambio ufficiale e che qualche tempo dopo hanno visto raddoppiare sia i prezzi di molte merci che il costo di numerose prestazioni hanno avuto l’impressione di avere subito una consistente perdita di potere d’acquisto.
“Una leggenda in voga – scrive Alessandro Barbera in una interessante inchiesta pubblicata su La Stampa di lunedì 19 febbraio 2018 (“Gli italiani dopo la lira: un po’ più ricchi, molto più fragili”) – attribuisce la responsabilità di questo calo all’ingresso nell’euro, ma l’euro non c’entra nulla”. Condivido in pieno questo giudizio, poiché, caso unico tra tutti i paesi dell’Eurozona, ciò che è accaduto in Italia è riconducibile al comportamento di alcune categorie di operatori, commercianti, professionisti e imprese, maggiormente dotati di “potere di mercato”, i quali hanno applicato ai prezzi delle loro merci e al costo delle loro prestazioni un cambio a 1.000 lire per ogni euro (anziché quello ufficiale di poco meno di 2.000), e così facendo si sono appropriati di una parte consistente del reddito dei lavoratori dipendenti i cui stipendi e salari sono stati convertiti al tasso di cambio ufficiale. Si è trattato quindi di una redistribuzione di reddito a vantaggio di poche categorie di persone diverse da quella dei lavoratori dipendenti, i cui effetti parrebbero sfuggiti al calcolo dell’inflazione.
Ora, nel caso del fenomeno dell’inflazione, così come per il sentimento della paura, è opportuno fare distinzione tra l’inflazione (e la paura) misurata, quella percepita e quella subita. Tutte le statistiche sui reati commessi (uno dei modi indiretti di valutare la paura) ci informano che gli omicidi e le forme più efferate di delitti contro le persone, sono in diminuzione.[2] Se chi vive nelle periferie delle grandi città percepisce la paura in maniera diversa da coloro che vivono nelle aree maggiormente protette, va da sé che per chi ha subito un furto o una violenza, il sentimento della paura sia fonte di grande frustrazione (a maggior ragione se i reati sono perpetrati ai danni delle persone anziane). Analogamente, qualcosa di simile accade con riguardo al fenomeno dell’inflazione. Una cosa, infatti è l’inflazione calcolata dall’ISTAT sulla base di “indici dei prezzi al consumo” che tengono conto delle diverse categorie di beni che concorrono a formare la domanda complessiva (inclusi i servizi), nei quali ciascuna categoria di beni viene pesata in base all’importanza che la stessa assume sul paniere considerato. Altra cosa è la percezione dell’inflazione che i consumatori hanno sia al momento dell’acquisto, sia con riguardo alle notizie riportate sui mezzi di informazione. Altra cosa, infine, è l’inflazione subita da coloro che acquistano abitualmente in maniera quasi esclusiva i cosiddetti “prodotti ad alta frequenza di acquisto”, i cui prezzi, ci informa il Corriere della Sera di mercoledì 18 luglio, sono aumentati tendenzialmente (ossia rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) in misura superiore (+2,7%) sia al cosiddetto “carrello della spesa” (+2,2%), sia all’indice generale dei prezzi (1,3%). Secondo la Federconsumatori, in un giudizio riportato a conclusione di quel servizio, si tratta “di un campanello d’allarme (…) dal momento che l’incidenza dell’aumento dei prezzi pesa in misura notevolmente maggiore sui redditi medio-bassi”.
Ecco quindi spiegato l’apparente paradosso della “svalutazione interna” seguita all’introduzione dell’euro. A sostegno della nostra intuizione, ci vengono in ausilio i dati sui prezzi di sedici categorie di beni, i cui prezzi in lire dell’anno 1998 e quelli in euro nel 2018 sono riportati nella citata inchiesta di Alessandro Barbera. Alcune di queste categorie (come ad esempio il prezzo di un biglietto di autobus, di 1 kg di pane e di un litro di latte, di un pacchetto di sigarette Marlboro, di un biglietto di treno della tratta Torino-Milano e della rata mensile dell’asilo nido comunale), beni e servizi che rientrano tra i “prodotti ad alta frequenza di acquisto”, hanno fatto registrare un forte aumento dei prezzi (con un incremento medio annuo del 4%, più del doppio dell’inflazione calcolata) tra il 1998 (con prezzi convertiti in euro) e quelli rilevati nel 2018. Altre categorie di beni, come il prezzo di un caffè al bar, la bolletta annua della luce, un litro di benzina, o i prezzi di un biglietto del cinema, hanno subito aumenti o flessioni poco rilevanti, mentre per contro, il prezzo di una TV a 46 pollici, quello di un personal computer, di una fotocamera o di un cellulare hanno subito una forte flessione (pari al -4% all’anno, più del doppio, ma in negativo, rispetto al tasso di inflazione misurata).
Penso quindi di poter ragionevolmente concludere (e sarei grato a chiunque mi potesse dimostrare il contrario), che ad avere subito in maggior misura gli effetti della “svalutazione interna” seguita al cambio della moneta siano stati i lavoratori dipendenti e tra questi i percettori di reddito medio-basso, i quali, oltre ad avere una propensione al consumo più elevata rispetto a quella dei redditi medio-alti[3], consumano in proporzione maggiore proprio i “prodotti ad alta frequenza di acquisto”. Si spiegherebbe così anche l’impatto della “vendetta del consumatore”, ovvero la contrazione dei consumi verificatasi a seguito della “svalutazione interna”, che ha provocato un eccesso di capacità produttiva delle imprese (con conseguente aumento della disoccupazione), e che ha innescato una crisi dell’economia reale ancor prima dello scoppio della crisi finanziaria del 2008, la quale ha ulteriormente aggravato la situazione. E ciò spiegherebbe anche perché a partire dall’introduzione dell’euro nel 2002, l’economia italiana, a causa di coloro che hanno approfittato del cambio della moneta, abbia fatto registrare il più basso tasso di crescita in assoluto rispetto a tutti i 27 paesi dell’Unione Europea. E’ questo un monito per quanti pensano che un ritorno alla lira (ancorché impossibile in base alle norme dei Trattati) potrebbe essere vantaggioso per la nostra economia. Di sicuro lo sarebbe nuovamente per quanti si sono avvantaggiati del cambio lira/euro.
Nella misura in cui valgono queste considerazioni sulla “svalutazione interna”, vale la pena di riflettere sull’epigramma di Keynes che apre questo scritto incentrato sul fatto che il fenomeno dell’inflazione non colpisce tutti allo stesso modo, ma infierisce maggiormente sulle famiglie più svantaggiate. E questo ci pare un buon motivo per cui, nel loro desiderio di cambiamento, quelle stesse famiglie influenzate dalla vergognosa campagna elettorale incentrata sulla paura, ne abbiano tenuto conto al momento del voto.
La Salle, 25 luglio 2018
[1] https://www.cittafutura.al.it/sito/category/dietro-la-notizia/, del 10/06/2018.
[2] Da una ricerca effettuata dal Sole 24 Ore (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-10-06/ecco-mappa-reati) sulla base delle statistiche del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno circa le denunce a livello nazionale nel 2017 emerge una generale diminuzione di quasi tutte le tipologie di illeciti, ad eccezione delle truffe e delle frodi informatiche.
[3] L’ipotesi di una propensione al consumo che diminuisce all’aumentare del livello del reddito, che sta alla base della teoria keynesiana del consumo, ha trovato applicazione nella teoria della crescita elaborata da Nicholas Kaldor (1908-1986), incentrata sulla diversa propensione al risparmio tra i percettori di salario e i percettori di profitto, ed è alla base delle politiche di welfare che tendono ad innalzare i consumi attraverso una redistribuzione più uniforme del reddito.
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