Eliminare il razzismo non vuol dire mostrare e convincersi che gli Altri non sono diversi da noi, ma comprendere e accettare la loro diversità.
Umberto Eco, Migrazioni e intolleranza, La nave di Teseo, Milano 2019
Prendendo lo spunto dall’interessantissimo libro di Alessandro Rosina e Roberto Impicciatore,[1] ritorno sul tema dell’amara conclusione del mio articolo su La Guerra Grande[2] per aggiungere qualche considerazione in merito alle connessioni esistenti tra il declino demografico, le migrazioni e i mutamenti climatici.
Con una felice metafora, i due demografi descrivono l’evoluzione economica, sociale e demografica dell’Italia facendo riferimento alle ‘stagioni’ che hanno caratterizzato il passaggio del nostro paese dalla ‘primavera’ dei “trenta gloriosi”, che coincide con primi tre decenni del secondo dopoguerra, anni nei quali “l’Italia era stata capace anche meglio di molti altri paesi, di mettere in mutua relazione positiva crescita economica, welfare e demografia” (p. 14), alla calda ‘estate’ della fine degli anni Settanta, quando le “condizioni stesse che avevano favorito lo sviluppo stanno profondamente cambiando, dal punto di vista non solo economico e politico, ma anche delle relazioni sociali, dei costumi, dei comportamenti demografici, oltre che nella dimensione culturale”. Per giungere poi alla stagione che, a partire dagli anni Novanta, si rivelerà “una sorta di ‘autunno’ tormentato e pieno di preoccupazioni” (p. 14), approdando, infine, con l’ingresso nel nuovo secolo, nell’attuale stagione “dell’inverno demografico” (p. 15).
“L’Italia del secondo decennio del xxi secolo – scrivono Rosina e Impicciatore – è un paese povero di giovani ma anche con maggiore spreco delle nuove generazioni (livelli di record raggiunge il tasso di neet, Not [engaged] in Education, Employment or Training gli under 35 che non studiano e non lavorano). È il paese con la combinazione peggiore di bassa fecondità e bassa occupazione femminile. In grande difficoltà a gestire l’immigrazione come parte integrante dei propri processi di crescita e con quote crescenti di giovani che decidono di trasferirsi all’estero” (p. 16).
Dopo avere passato in rassegna i mutamenti intervenuti nell’evoluzione demografica, dovuti all’aumento della vita media della popolazione, alla progressiva riduzione della natalità, al ruolo esercitato dall’immigrazione sul tasso di crescita della popolazione, e consapevoli dei limiti impliciti nella costruzione di scenari demografici alternativi, Rosina e Impicciatore lanciano, in una concisa quanto efficace Appendice, uno sguardo sul futuro demografico che attende il nostro paese nei prossimi cinquant’anni.
I fenomeni demografici, essi sottolineano, sono caratterizzati da inerzia, ragion per cui la “struttura della popolazione tende a muoversi lentamente come una grande nave” (p. 151). Pertanto, i due demografi ritengono che il cambiamento demografico si possa governare, purché nella consapevolezza che ciò necessita “inevitabilmente una programmazione e una visione di medio e lungo periodo” (p. 151).
Fatta questa premessa, gli autori illustrano i risultati della loro analisi, a cominciare dalla previsione che alla fine del secolo l’Italia sarà un paese più piccolo, con una popolazione che potrebbe essere più che dimezzata rispetto a quella attuale. Una dinamica che allo stesso tempo comporterà un processo di invecchiamento della popolazione e uno squilibrio generazionale. Squilibrio che, unitamente al declino demografico, potrebbe “rendere più deboli le condizioni di benessere e sviluppo sostenibile (nella sua accezione più ampia) (p. 155). Ciò in quanto, da un lato, una “popolazione che invecchia vede inevitabilmente crescere numericamente le fasce più fragili, maggiormente esposte al rischio di insorgenza di malattie gravi e invalidanti con conseguente aumento della richiesta di servizi assistenziali e sanitari” (p. 156), dall’altro, comporta una crescente pressione sulla spesa pensionistica.
A conclusione della loro analisi, Rosina e Impicciatore ci invitano ad “andare oltre il concetto paralizzante che la demografia sia un destino” (p. 162). Essi ritengono, infatti, che le “sfide poste dalla demografia incentivano ancor più a mettere in atto politiche efficaci e lungimiranti in grado di alimentare circuiti virtuosi che favoriscano, in coerenza con le trasformazioni in atto, una relazione positiva (di mutuo sostegno) tra dinamiche del rapporto tra generazioni, sviluppo economico e welfare” (p. 167).
Le drammatiche vicende degli ultimi giorni, caratterizzate dalle stragi di profughi nel naufragio dei barconi, nonché dalle penose discussioni politiche che ne sono seguite, unitamente all’inatteso arrivo di migliaia di immigrati, sollevano forti dubbi sulla capacità della politica italiana di porre in essere politiche demografiche “efficaci e lungimiranti”. Regna infatti una certa confusione tra l’“immigrazione” e le “migrazioni”, l’importanza delle quali, anche in relazione agli effetti dei mutamenti climatici, non va sottovalutata.
Per fare chiarezza sulle implicazioni geopolitiche e sulle diverse conseguenze di questi due concetti riporto integralmente un brano tratto dal capitolo “Le migrazioni del Terzo Millennio” del libro di Umberto Eco (citato in epigrafe), nel quale sono riportati alcuni scritti sull’intolleranza, sulla pericolosità di certi movimenti politici che hanno anticipato il tema centrale del Terzo Millennio. Un capitolo nel quale è sintetizzata una parte della conferenza pronunciata dal semiologo, nel gennaio del 1997, “in apertura del convegno organizzato dal comune di Valencia sulle prospettive del Terzo Millennio”.
E per concludere, le profetiche parole di Umberto Eco sul futuro della “nuova Europa multirazziale”:
«Se il corso degli eventi non si invertirà bruscamente (e tutto è possibile), noi dobbiamo prepararci al fatto che nel prossimo millennio l’Europa sarà come New York o come alcuni paesi dell’America Latina (p. 20). (…) Ebbene, quello che attende l’Europa è un fenomeno del genere, e nessun razzista, nessun nostalgico reazionario potrà impedirlo (p. 21).
Ritengo che si debba distinguere il concetto di “immigrazione” da quello di “migrazione”. Si ha “immigrazione” quando alcuni individui (anche molti, ma in misura statisticamente irrilevante rispetto al ceppo di origine) si trasferiscono da un paese all’altro (come gli italiani o gli irlandesi in America, o i turchi oggi in Germania). I fenomeni di immigrazione possono essere controllati politicamente, limitai, incoraggiati, programmati o accettati.
Non così accade con le migrazioni. Violente o pacifiche che siano, sono come i fenomeni naturali: avvengono e nessuno le può controllare. Si ha “migrazione” quando un intero popolo, a poco a poco, si sposta da un territorio all’altro (e non è rilevante quanti rimangano nel territorio originale, ma in che misura i migranti cambino radicalmente la cultura del territorio in cui hanno migrato) (p. 22). Ci sono state grandi migrazioni da est a ovest, nel corso delle quali i popoli del Caucaso hanno mutato cultura ed eredità biologica dei nativi. Ci sono state le migrazioni dei popoli cosiddetti barbarici che hanno invaso l’Impero romano e hanno creato nuovi regni e nuove culture dette appunto “romano-barbariche” o “romano-germaniche” (p. 23). C’è stata la migrazione europea verso il continente americano (…). Ci sono state migrazioni interrotte, come quelle dei popoli di origine araba sino alla penisola iberica. Ci sono state forme di migrazione programmata e parziale, ma non per questo meno influente, come quella degli europei verso est e verso sud (da cui la nascita delle nazioni dette “post-coloniali”), dove i migranti hanno pur tuttavia cambiato la cultura delle popolazioni autoctone. Mi pare che non si sia fatta sinora una fenomenologia dei diversi tipi di migrazione, ma certo le migrazioni sono diverse dalle immigrazioni. Si ha solo “immigrazione” quando gli immigrati (ammessi secondo decisioni politiche) accettano in gran parte i costumi del paese in cui immigrano e si ha “migrazione” quando i migranti (che nessuno può arrestare ai confini) trasformano radicalmente la cultura del territorio in cui migrano. (p. 24).
(…) È ormai possibile distinguere immigrazione da migrazione quando il pianeta intero sta diventando il territorio di spostamenti incrociati? (…) Sino a che vi è immigrazione i popoli possono sperare di tenere gli immigrati in un ghetto, affinché non si mescolino con i nativi. Quando c’è migrazione non ci sono più ghetti, e il meticciato è incontrollabile (p. 25 e 26).
I fenomeni che l’Europa cerca ancora di affrontare come casi di immigrazione sono invece casi di migrazione. Il Terzo Mondo sta bussando alle porte dell’Europa, e vi entra anche se l’Europa non è d’accordo. Il problema non è più decidere (come i politici fanno finta di credere) se si ammetteranno a Parigi studentesse con il chador o quante moschee si debbano erigere a Roma. Il problema è che nel prossimo millennio (e siccome non sono un profeta non so specificare la data) l’Europa sarà un continente multirazziale o, se preferite, “colorato”. Se vi piace sarà così; e se non vi piace, sarà così lo stesso». (p. 26).
Qualcuno è in grado di spiegarlo ai nostri governanti?
di Bruno Soro
Alessandria, 13 marzo 2023
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