“Vai, che ti porto all’Oscar!”
(Diego Abatantuono)
In fondo era già profeticamente annunciata la vittoria agli Oscar del resto con una battuta (già sopra citata) di Diego Abatantuono proprio all’inizio di Turné parlando al telefono con il suo scalcagnato agente “Perruzzino”.
Quando si dice i casi della vita.
“Mediterraneo” (1991), quinto film diretto da Gabriele Salvatores, che dopo “Marrakech Express” (1989) e “Turné” (1990) conclude la cosidetta Trilogia della Fuga o Saga del Viaggio se si vuole anche considerare “Puerto Escondido” (1992), dove (oltre ai tre titoli precedenti) sia il tema della Fuga che del Viaggio hanno un doppio significato.
Il film, tratto da un soggetto e sceneggiatura scritto da Enzo Monteleone nel 1987 e in origne destinata al compianto Carlo Mazzacurati (altro grande autore del cinema italiano davvero impegnativo), parte con una celeberrima citazione che sembra riassumere in poche parole la filosofia di vita di tutti i personaggi dei film di Salvatores, ante e post Mediterraneo: “In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare”. Il riferimento è tratto da “L’elogio della fuga” pubblicato a Parigi nel 1976.
Giugno 1941, un sparuto gruppo di otto miltari italiani viene sbarcato su una piccola isola dell’Egeo (Kastellorizo), con il compito di occupare e presidiare il piccolo atollo, a capo del plotone italiano il tenente Montini (Claudio Bigagli) insegnante di latino e greco, nel gruppo di arruolati per forza anche il disertore Corrado Noventa (Claudio Bisio) e il sergente Lorusso (Diego Abatantuono), l’unico che sembra prendere sul serio la missione.
L’isola, all’apparenza deserta, si rivelerà dopo qualche giorno abitata solamente da donne, vecchi e bambini, tutti gli uomini sono impegnati al fronte e il gruppo di soldati si amalgamerà molto bene con i locali, cosi nasceranno amori e amicizie, tutto in una surreale e idilliaca atmosfera che farà dimenticare per molto tempo ai soldati le paure e le ansie della guerra.
Solo l’arrivo di un aereo pilotato dall’italiano Carmelo La Rosa (Antonio Catania) riporterà i soldati a contatto con la realtà, Carmelo comunica che è piu di un anno che l’alleanza anglo- americana ha firmato un armistizio con l’Italia, e che particamente sono tre anni che Montini e compagni sono stati dimenticati sull’isola.
Carmelo riparte, e il gruppo si rende conto che ben presto dovrà lasciare l’isola e quel mondo ovattato e solare che li ha protetti in quei mesi, ma come è fisiologico, c’è chi non vede l’ora di tornare a casa e chi invece è convinto di averne trovata finalmente una.
La guerra non guerreggiata dagli otto soldati italiani spediti e “dimenticati” in una piccola isola greca del mediterraneo (Kastellorizo, nel Dodecanneso) diventa metafora di un “rifiuto”, rifiuto della violenza, dell’arroganza, del potere. È una guerra sospesa nel tempo e nello spazio, una guerra da sogno che era già stata immaginata in termini quasi analoghi mezzo secolo prima da Renzo Renzi e Guido Aristarco in un soggetto intitolato “L’Armata Sagapò” e ispirato alla storia del pittore Renzo Biasion pubblicata da Einaudi. I due finirono al tribunale militare per propaganda sovversiva: la figura oleografica del “soldato italiano” all’epoca non poteva essere intaccata da nessun dubbio o inquietudine.
Viene scelto così Mediterraneo, il mare del Mito, un luogo indefinito e indistinto, aggettivo che evoca forti suggestioni o nome proprio di una realtà cangiante ed inafferabile. Tutti i titoli dei film di Salvatores riamandano ad un luogo, un luogo altro dove è ancora possibile sognare, desiderare, illudersi, cambiare.
Nella pellicola, il secondo conflitto mondiale è sullo sfondo, lontanissimo, immateriale: in un certo senso la guerra dei nostri (anti)eroi potrebbe essere una guerra qualsiasi, quella di oggi o quella di ieri o quella di sempre, perchè di nemici è sempre pieno il mondo. Nemici contro cui però non sia ha più la voglia o la forza di combattere e lottare. Molto meglio nascondersi e fuggire.
Gli otto disertori italiani di Mediterraneo, non sono né ribelli né anarchici, sono dei naufraghi dimenticati dalla Storia che si trovano per la prima volta nella loro vita a potere gestire il tempo secondo i propri ritmi, aspettative, desideri. All’interno dello spazio circoscritto dell’isola-Eden gli otto soldatini, fascisti volenti o nolenti senza saperlo, trovano un mondo “alternativo” alla realtà, un mondo che si rivela giorno dopo giorno sempre più comodo, appagante e ricco di sorprese. Ognuno sembra trovare la propria dimensione esistenziale: alle scene corali Salvatores alterna i profili dei singoli personaggi, caratterizzati fin dalle prime scene e battute nella loro individualità. L’intellettuale Montini (Claudio Bigagli) filtra la sua esperienza nell’isola attraverso le maglie della cultura classica e dei suoi miti. I fratelli Libero e Felice scoprono una gioiosa ed inedita sessualità con una disinibita pastorella/ninfa dei monti. L’attendente Farina (Giuseppe Cederna) trova addirittura l’amore, quello vero, incarnato dalla bellissima prostituta Vassilissa. Anche Colasanti (Ugo Conti) si scopre innamorato, innamorato perso del sergente Lorusso (Diego Abatantuono).
La scoperta del proprio Io riserva delle sorprese, più o meno traumatiche o liberatorie, per tutti. La fragilità “rilevata” e confessata si trasforma in forza interiore, in desiderio di autenticità: la “fuga” ha portato i personaggi alla verità, come suggerisce Laborit.
Essere tagliati fuori dal conflitto, per di più senza aver fatto nulla per ottenerlo: possibile desiderare qualcosa di più? La battaglia è ancora in corso ma sono gli altri a doversi (s)battere.
L’unica competizione possibile rimane quella gogliardico-sportiva: anche qui la partita di pallone occupa una sequenza abbastanza lunga e centrale nella narrazione del film e l’improvvsato campetto diventa area di atterraggio per l’aereo di Catania che in qualche modo costituirà il rinnovato contatto con la realtà e la storia.
Per i personaggi e per gli spettatori il tempo si è fermato, soltanto dopo tre quarti di film si viene a sapere che sono passati tre anni, che siamo nel 1943, che c’è stato l’otto settembre (“Beh, allora?, c’è tutti gli anni, anche il 9-10-11…”, ridimensiona l’ignaro sergente Lorusso), il CLN, la guerra civile, eccetera eccetera. La fine dell’isolamento e della sospensione temporale coincide quindi con una ritrovata “coscienza storica” peraltro molto vaga: “Dobbiamo rifare l’Italia. C’è grande disordine sotto il sole. La situazione è eccellente” (battuta-lapsus maoista del solito Lorusso). Ma la vera “lezione” di poeticà “alla Salvatores” sta forse tutta nella risposta di Farina (Giuseppe Cederna): “Rifare l’Italia. Cambiare il mondo. Io non ci credo, non sono capace. Io rimango qui”.
Perchè rimanere qui (il non tornare là) equivale a scegliere se stessi invece che il mondo degli altri. Per Farina equivale anche a scegliere l’amore. L’unico amore realizzato della filmografia di Salvatores (un po’ letterario) per la prostituta Vassilissa, che però rivediamo soltanto nella foto della lapide mortuaria. La prostituta sublimata, prima dall’amore e poi dalla morte.
Il film è provocatoriamente “dedicato a tutti quelli che stanno scappando”, dedica che ben si accorda con la battuta-chiave pronunciata nel finale da Diego Abatantuono: “Non ci hanno lasciato vincere. Allora ho detto: avete vinto voi ma almeno non riuscirete a considerami vostro complice”. Ne viene fuori la morale-tipo dei personaggi di Salvatores: non abbiamo più la forza di lottare contro di voi, però non siamo ancora deboli e vili a tal punto da allearci con voi, c’è rimasta almeno l’energia sufficente per voltarvi le spalle e sparire dalla vostra vita.
Il finale di Mediterraneo ci mostra alcuni ex-soldati ormai anziani (invecchiati da un maquillage che, ad onor del vero, lascia molto perplessi) che si ritrovano sull’isola ormai iperturisticizzata: Claudio Bigagli è lì per una vacanza nostalgica, Giuseppe Cederna non è mai partito, Diego Abatantuono è tornato invece per scelta, e pronuncia la battuta-chiave già citata.
Dalla Grecia al Messico fino agli Oscar.
La notizia dell’annucio della nomination per il miglior film straniero gli arriva proprio sul set del successivo film di Salvatores “Puerto Escondido”. Salvatores e Diego Abatantuono dunque, interrompono le riprese del film per volare fino a Los Angeles, raggiunti in seguito da Gianni Minvervini e Vittorio Cecchi Gori che hanno prodotto e distribuito Mediterraneo. Poi il grande giorno arriva, il 30 marzo 1992, alla 64° edizione della Notte degli Oscar, arriva la vittoria, un po’ a sorpresa annunciata da un Sylvester Stallone che pronuncia in maniera davvero stretta il nome del nostro paese: “And the winner is? And the Oscar goes to.. INLY from Mediterraneo, Gabriel Salvatores”. Incomprensibile da parte di un Gabriele Salvatores che viene sorpreso poi dalla conferma dell’Academy: Si, Mediterraneo vince l’ambita stauetta come miglior film straniero (oggi bisognerebbe dire Miglior Film Internazionale), battendo un altro grande bellissimo film “Lanterne Rosse”, il capolavoro diretto da Zhang Yimou, film che affacciò la Cina alla ribalta cinematografica. Quello stesso anno vinse l’edizione un altro film che fece scalpore: “il Silenzio degli Innocenti” di Jonathan Demme, con Anthony Hopkins e Jodie Foster.
Comunque, nel discorso al microfono davanti alla luccicante platea del Dolby Theatre Salvatores invita tutti “A fare come i soldati di “Mediterraneo”, a rifiutare la guerra perchè la vita è meglio”. Esatto, la vita è meglio, la vita vince sempre come direbbe un filosofo-matematico tra i protagonisti di un certo film molto molto noto diretto da Steven Spielberg che uscirà due anni dopo “Mediterraneo”, nel 1993.
Tornando a Mediterraneo, è un film che si pone senza dubbio nell’ipotetica categoria di “commedia all’italiana vagamente impegnata”, portatrice di un messaggio di disincantato pacifismo che dura ancora oggi, trent’anni dopo l’uscità nelle sale cinematografiche, un film che non smetto mai rivedere (non so voi ma al di là del dvd o del blu-ray, io ho praticamente consumato la mia videocassetta proveniente della colanna edita nel 1995 dal giornale “L’Unità), per ricordarci e mai dimenticare (perchè uno dei problemi del nostro paese è la memoria) che la guerra, in fondo in fondo, con tutta sincerità, fa veramente schifo.
Riccardo Coloris
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