Sono convinto che le recenti elezioni amministrative o in corso in quasi tutte le grandi città italiane, in cui nell’insieme gli astenuti sono stati e ancor più saranno più numerosi dei votanti, e i gravissimi fatti eversivi verificatisi a Roma il 9 ottobre ad opera di no vax e fascisti, con bombe carta presso palazzo Chigi, e un criminale assalto momentaneamente riuscito di squadristi fascisti alla sede centrale della CGIL, e irruzione persino all’interno di un pronto soccorso, segnino una svolta nella storia italiana, come se fosse suonato l’allarme e si fosse alla vigilia di svolte decisive, quale sarà il segno finale del cambiamento “epocale” nei prossimi due o tre anni. Lo sbocco politico si vedrà, e a mio parere sarà democratico e riformista, ma non è scontato affatto. La partita tra area riformista democratica e di sinistra, e nuova destra democratica e populista è più aperta che mai.
Come sempre per capire le cose decisive occorre uno sguardo largo. Comincio con un piccolo accenno al mondo, perché la vicenda dell’Italia è sempre molto connessa al contesto internazionale, probabilmente per l’importanza della sua posizione geopolitica. Il crollo dal 1991 dell’”ordine di Yalta”, con la caduta dell’Unione Sovietica e del suo impero, che andava da Vladivostock a Berlino est, aveva già aperto una voragine nell’ordine mondiale degli stati. E ora siamo addirittura alla crisi della potenza imperiale che l’acuto statista e analista Francesco Saverio Nitti considerava sin dal 1918, da tutti inascoltato, come la prima, e che comunque è stata prima dal 1945 a oggi: gli Stati Uniti d’America. Il primo importante sintomo, recente, di grande crisi dell’Impero americano è stato l’elezione, nel 2017, di un “anomalo” presidente americano, repubblicano di destra e populista, e carismatico, qual è stato (e, ahinoi, forse sarà ancora) Donald Trump. Questi – se non fosse risultato inadeguato contro l’imprevedibile pestilenza del Covid, mal gestita da lui come da altri statisti di destra del mondo – sarebbe stato rieletto alla grande: tanto che la vittoria di Biden, risicata, provocò per la prima volta nella storia americana una reazione di massa eversiva contro la sede del parlamento. Ma poi è accaduta – in una fase recente – un’altra storica cosa che assomiglia moltissimo alla caduta del muro di Berlino del 1989, e quindi dell’Unione Sovietica e del suo impero due anni dopo: la manifesta disfatta della prima potenza del mondo, appunto l’America, dopo un conflitto ventennale, da parte di un movimento di montanari afghani, “talebani”, con idee politico-etiche medievali, oltre che primo esportatore al mondo di eroina. La debolezza degli USA è tale che ora Xi Jinping, il presidente della grande Cina, è tentato di annettere Taiwan con un colpo di mano: il che rischierebbe fortemente di innescare un corto circuito stile Sarajevo giugno 1914, ossia la possibile terza guerra mondiale. Credo che Xi Jinping si fermerà perché gli asiatici, e in specie i cinesi, “al dunque” risultano sempre politici assai accorti, ma il solo fatto che sia tentato di fare con l’isola separatasi dalla “madrepatria” dal 1948, all’avvento del comunismo di Mao, quel che Putin fece nel marzo 2014 riprendendosi la Crimea, mette i brividi. Il contesto è tale che Trump promette di tornare, per le prossime elezioni presidenziali tra tre anni, come capo carismatico di un movimento di destra con basi di massa diverso dallo stesso Partito Repubblicano, come candidato. Non sarebbe la prima volta che dopo la crisi di uno stato-impero si scatenano neri fantasmi. Anche senza fascismo formale. La democratura più estrema a Washington sarebbe una cosa ben più grave che non a Budapest.
In questo contesto stanno venendo al pettine i problemi annosi dell’Italia, con incredibili chiaroscuri. Da un lato l’Italia, con buona pace dei tanti disfattisti di sinistra e di destra, ha ripreso a correre come un treno ad alta velocità. Naturalmente con tutti i problemi annessi e connessi, che sempre ci sono in fasi del genere, e che vanno affrontati garantendo lavoro, e reddito minimo in cambio di lavoro, dentro un’economia di mercato efficace, sino al limite del possibile e oltre. Comunque siamo in presenza di un notevole miglioramento generale, sanitario ed economico. Piaccia o meno l’Italia oggi risulta essere uno dei paesi al mondo che ha affrontato meglio l’epidemia del covid, con capillari vaccinazioni: perché i cittadini qui, persino più che in paesi molto più potenti del nostro, ci hanno sempre tenuto ad abitare bene, mangiare meglio e quindi conservare la pelle, a dispetto di una minoranza non irrilevante, ma neppure consistente, di renitenti; ma il buon esito sanitario è pure connesso al fatto che gli ultimi due governi – prima con Giuseppe Conte e poi, ancor più, con Mario Draghi – hanno lavorato molto bene. Siccome noi italiani siamo un poco anarcoidi, abbiamo avuto bisogno, persino con buona pace dell’ottimo Massimo Cacciari, di essere un po’ strattonati dallo Stato (come si è fatto e fa con il green pass, di cui credo che avremo la possibilità di dimenticarci entro sei mesi).
Vanno bene anche i piani di ripresa e resilienza, e le riforme che dobbiamo fare per ottenere prestiti agevolati più o meno cinquantennali per oltre 200 miliardi di euro, presti che hanno cominciato ad essere erogati grazie all’Unione Europea e alla Banca Centrale Europea: 200 miliardi di euro che, come già i titoli di stato decotti acquistati dalla BCE presieduta da colui che i settari descrivono come l’agente segreto del capitale finanziario, Mario Draghi, salvano l’Italia dalla bancarotta. Con Conte si è operato bene, e con Draghi meglio. E, infatti, siamo quasi i primi della classe nella ripresa economica oltre che nelle vaccinazioni. E abbiamo un premier che è tra i più stimati e autorevoli del mondo, anche se certo non è il caso di vedere in lui il capo della sinistra, che non è certo la sua “casa” (come non lo era dello spregiudicato Conte, più rapido a mutar casacca per rimanere capo del governo di Arlecchino servo di due padroni di Goldoni, nonostante i sogni sul M5S di Bersani o Zingaretti). Ma – senza per questo vederlo come “un compagno” – un che di Giovanni Giolitti o di Alcide De Gasperi io in Draghi ce lo vedo davvero (e mi fa piacere). I “buoni”, infatti, non possono essere tutti dei “nostri”. Tanto più che a quanto pare tipi così noi non li abbiamo. Draghi al potere non è poco: in un Paese che da decenni non cresceva; con il debito pubblico di cui si è detto; e in cui sono in spasmodica crisi di efficienza, e quasi sempre di autorevolezza, tutti e tre i poteri fondamentali dello Stato: il potere esecutivo (con i governi sempre precari, tenuti insieme con la colla), il potere legislativo (con parlamenti di nominati e parlamentari troppo spesso ignoranti e incompetenti), e il potere giudiziario (su cui ci sarebbe molto da dire, ma è inutile perché si tratta di cose che sanno tutti, e ormai persino evidenti nel tribunale della stessa Milano e nel Consiglio Superiore della Magistratura). Ciò posto mi chiedo come sia possibile non vedere, o anche solo sottovalutare, l’importanza dei richiamati risultati sanitari, economici e di governo, in un contesto simile (e del Draghi “timoniere”).
Quello che è accaduto e viene accadendo in queste settimane – dal voto “amministrativo” in quasi tutte le grandi città (alcune in attesa dei ballottaggi) al gravissimo assalto fascista di sabato 13 ottobre alla sede centrale della CGIL a Roma – va inquadrato in tale contesto, in cui dobbiamo comprendere soprattutto le seguenti cose: le divisioni nella destra populista; il sempre incombente rischio di “democratura populista” all’ungherese o polacca o fosse pure alla Trump in scala ridotta; e, last but not least, il problema dello “sbocco politico” di tutta questa situazione.
La divisione profonda della destra populista – tra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia – è palese; ma è pure palese che questa divisione della destra in tre pezzi è dovuta alla nascita e andamento del governo di Mario Draghi. Sin dall’inizio. Subito la sua nascita ha determinato la divisione tra Fratelli d’Italia e Lega, mentre Forza Italia studia sempre più per diventare, all’ombra di Draghi, un nuovo partito di centro “ambidestro”, per altro dalle scarse prospettive.
Probabilmente Salvini non sarebbe mai entrato, con la sua Lega, al governo col PD, tanto più senza la Meloni, se i governatori regionali e i sindaci della sua parte, insieme alla totalità degli industriali del nord, non gli avessero detto – probabilmente senza fare tanti complimenti – che se voleva seguitare a fare il Capitano della Lega, e comunque seguitare ad essere sostenuto da tanta parte del decisivo capitalismo del nord, con Draghi non avrebbe potuto fare il fesso, e avrebbe dovuto abbozzare: anche se il Capo in questione (cioè Salvini), che è antropologicamente in perenne campagna elettorale, ha provato e prova a scalciare, credendo con ciò di parare la concorrenza del fuoco amico di Giorgia Meloni e dei suoi “Fratelli d’Italia”, divisi nella lotta (da Draghi).
Su ciò proporrei due piccole riflessioni: una sulla Lega e una su Fratelli d’Italia, cercando di ragionare da politologo prima ancora che da politico.
La Lega, che forse è il partito più strutturato che ci sia oggi in Italia, ha attraversato tre fasi.
Dapprima è nata come partito che si diceva federalista, ma non già per unire quello che prima era stato diviso, com’è sacrosanto e il tratto del “vero” federalismo, ma per motivare “idealmente” il proposito di dividere ciò che dopo secoli e secoli era stato finalmente unito grazie al Risorgimento. Quella Lega era un movimento sempre nazionalista, ma in senso “nordista”, che voleva realizzare il sogno dei nostalgici della “linea gotica” che al nord erano stati sempre numerosi al bar o in treno, ma che a un certo punto trovarono consensi pure nel capitalismo del nord, che in tempi difficili voleva mollare i parenti poveri del sud. La Lega trovò allora nell’etnonazionalismo o “padanismo” di Gianfranco Miglio l’ideologo perfetto, teorico del fatto che settentrionali e meridionali sarebbero popoli diversi, che dovrebbero essere ciascuno padrone, alias Stato, in casa propria; e in Umberto Bossi una sorta di Masaniello lombardo, astuto ed intuitivo, dal forte fiuto politico (e basta!). Certo Bossi fu favorito da un’Italia in decadenza che non sapeva neanche più difendere il suo Risorgimento, il suo Stato unitario, magari in modo “spicciativo”, quando il “padanismo” era piccolo piccolo, come sarebbe certo accaduto in Francia, Spagna e Gran Bretagna.
In una seconda fase, quando la Lega sembrava fallita (scesa al 4%), Salvini la rilanciò, mettendo in soffitta la fantastica “Padania”, e proponendo, invece, una Lega nazionale, nazionalista democratica, sia pure con forti autonomie regionali, in un quadro di forte leaderismo di destra. Così la Lega, interpretando un bisogno da Stato nazionale “sovrano” forte e con un suo “duce” democratico, divenne per anni, nei sondaggi, il primo partito.
Ma intanto la Lega – e qui siamo alla terza fase – si era fatta partito di governo moderato con basi di massa in tante realtà (specie del “Lombardo Veneto”), tanto che oggi si potrebbe dire che in Italia il PCI sta al PD come la Lega “di governo” sta alla DC delle stesse aree in cui essa prevalse. Il campione di questa terza Lega è Giancarlo Giorgetti, che – si verum est quod nemo dubitat – non mira a essere il terzo capo storico della Lega stessa, ma a persuadere tutta la Lega a riconoscersi come nuovo partito moderato di massa, o grande centro neo-democristiano, sia pure con radicamento e vocazione più regionalistica. Secondo me questa terza Lega nella Lega è vincente, e non ha alternative. Ha sì nella pancia velleità antiche secessioniste, ma a quanto pare le ha metabolizzate (a meno che una situazione di sfascio di tipo argentino oggi imprevedibile non le risvegli, scatenando un Anti-Risorgimento molto più pericoloso per lo Stato costituzionale di ogni “fratello d’Italia”). Questa “terza Lega”, fermo restando il “Comandante”, potrebbe andar bene anche a Salvini, pur essendo contro tutti i suoi istinti primordiali, se non ci fosse la concorrenza della Meloni e di Fratelli d’Italia.
Giorgia Meloni ha i veri tratti del leader storico “di partito” (il che non vuol dire “di Stato”). Con antico frasario democristiano la si potrebbe definire cavallina di razza della politica politicante (come la “cavallina storna che portava … colui che non ritorna”). Non so però se nei tempi medio-lunghi la sua scelta, che ora la premia vistosamente, pagherà. Il suo mancato ingresso nel governo Draghi mi ricorda l’operazione compiuta da Veltroni nel 2008, quando alle elezioni rifiutò ogni logica da blocco delle sinistre (che però a destra Berlusconi si guardò bene dal far propria), costringendo tutti i gruppi di sinistra a votare per il PD “per non fare il gioco di Berlusconi”: così Veltroni raccolse quasi il 40% dei voti, ma consegnando “in partenza” la vittoria al centrodestra. Così oggi la Meloni stando fuori e contro il governo, sia pure con “bon ton”, è diventata nei sondaggi il primo partito, ma rinunciando a far apparire il centrodestra unito, uno e trino, nel governo Draghi come la maggior forza del governo; e consentendo al PD di Letta, in presenza di un centrodestra diviso in tre pezzi, di presentarsi senza far fatica come la forza centrale del governo Draghi, com’è ovvio. Inoltre, ponendosi come opposizione a un governo così vasto, e riuscendoci magnificamente, la Meloni induce gli avversari a guardare con la lente d’ingrandimento i suoi esponenti per cogliere i “quanti” di fascismo residui, pur essendo lei molto decisa nel condannare ogni fenomeno di quel genere, mettendone in luce l’estrema utilità per la sinistra. Però persino il candidato della destra a Roma, un anno fa, faceva discorsi sugli ebrei sospettabili di antisemitismo. Poi sabato 9 ottobre a Roma sono scesi in campo, coi no vax e no green pass, i veri fascisti di Forza Nuova, devastando locali della sede principale della CGIL, gettando bombe carta presso Palazzo Chigi e arrivando nei pressi del Parlamento. Tra i diecimila che protestavano, e anche tra le centinaia di violenti no vax, non erano certo tutti fascisti, ma lì era il nucleo più compatto. E così la partita al secondo turno a Roma, già difficile per l’area di centrodestra, probabilmente sarà persa. Anche se l’autorevole sondaggista Ghisleri ritiene l’episodio ininfluente su quel voto amministrativo (il che mi pare ben dubbio, ma staremo a vedere).
Più in generale, nella miglior affermazione della “sinistra” nelle grandi città – anche aspettando i risultati del secondo turno in realtà importanti in cui l’eventuale ripresa della destra ridurrebbe fortemente il suo danno – la destra paga pure l’inadeguatezza dei suoi candidati, frutto di movimenti con tanto seguito e scarse tradizioni nel governo locale (Lega a parte), laddove in termini di personale politico l’area che va dal centro della sinistra alla sinistra è sempre stata più forte. Contro Sala, per il Comune di Mi-la-no, il centrodestra aveva messo in campo un avversario addirittura ridicolo.
Significa questo che la sinistra ha già vinto la lotta politica in Italia?
Niente affatto, soprattutto perché l’astensione nelle recenti elezioni nelle grandi città, è a livelli da 50% (che al secondo turno saranno pure del 55 o talora 60%): percentuali che indicano certo un sordo dissenso nei confronti del mondo politico: mondo, cosiddetto dell’establishment, di cui proprio il centrosinistra è accusato di essere la maggiore espressione strutturata. C’è una spinta antisistemica crescente, con punte eversive. Speriamo che l’eversione di Forza Nuova a Roma del 9 ottobre non sia la punta di un iceberg, ad esempio di un “Sessantotto nero”. In ogni caso, anche se tale fosse, sarebbe assolutamente battibile. Ma come uscirne?
Un’uscita è quella di una nuova sinistra unita, che tarda a esserci, anche se la lezione “oggettiva” delle elezioni è il fatto che in quell’area “progressista” oramai c’è solo il PD (il che non mette allegria, mentre intorno, contando persino il M5S, ci sono solo cespugli o minorances négligeables). A mio parere questo sarebbe tempo di confluenza nel PD, da parte dei fuorusciti riformisti democratici di Italia Viva o Azione come da parte dei riformisti di sinistra di Articolo Uno, in un quadro unitario di nuovo socialismo europeo rosso-verde. Su ciò pure Città Futura dovrebbe riflettere. Però è vero che col solo PD non si vince. Ma un PD così, purché dotato di un po’ di disciplina interna per evitare o contenere le solite tendenze fratricide, potrebbe però essere molto facilmente il primo partito, più o meno del 40%. Ma Enrico Letta – persona seria, onesta e colta – è leader capace di farlo, o è il genere di amministratore unico che difende il patrimonio, ma non sa moltiplicarlo?
Cosa può accadere ora?
Draghi, come vorrebbero Fratelli d’Italia e Lega, potrebbe diventare Presidente della Repubblica. In tal caso nel 2022 “si dovrebbe” andare a votare (ma il parlamento “non vuole”, per “nobili” motivi di difesa del posto di lavoro totalmente a rischio per la gran parte, e non accadrà). In caso di elezioni la maggioranza relativa del Paese, tra i due campi, potrebbe andare al centrodestra, e Giorgia Meloni potrebbe diventare Presidente del Consiglio, e Budapest o Varsavia potrebbero essere sempre più vicine.
Ma Draghi potrebbe anche non diventare presidente della Repubblica (potrebbe riuscire a non diventarlo, il che per paradosso della storia sarebbe suo interesse politico). Mettendo insieme l’interesse di tutta l’economia italiana a che il governo Draghi possa andare avanti per un bel pezzo, persino per qualche anno dopo questa legislatura; il fatto che pure per Draghi ciò sarebbe meglio perché durando al governo per un periodo abbastanza lungo passerebbe alla storia come un nuovo De Gasperi, che ricostruisce il paese dopo una specie di guerra, e di lungo declino economico; il terrore dei parlamentari di perdere un anno e mezzo di stipendio sapendo già che i più non saranno rieletti, oltre a tutto dopo la diminuzione del numero dei membri delle due Camere; l’autodifesa del “centro meno di destra”, e della sinistra, contro il centrodestra comunque “alle porte”, è probabile che Draghi resti “almeno” sino al 2023.
Tenendo conto pure del fatto che difficilmente – anche dopo le elezioni politiche del 2023, il centrodestra da solo avrà i numeri per governare – Draghi potrebbe ritornare dopo le elezioni del 2023 con la sua coalizione d’oggi. Questa coalizione potrebbe pure normalizzarsi democraticamente, con una Lega magari sempre di Salvini, ma “giorgettiana”, di governo, di “centro con basi di massa” (neo-democristiana); un PD contentissimo di essere l’area più prossima a Draghi, e vari movimenti oggi imprevedibili al centro, che comunque tende a farsi più moderato e democratico, come la sinistra l’ha sempre voluto. In tal caso un governo di vera unità nazionale democratica, non fatto per forza maggiore come ora, ma voluto – e con alla testa un capo storico autorevole e competente (De Gaulle senza il gollismo) – come Draghi, potrebbe guidare la seconda ripresa, se non addirittura il secondo miracolo economico, del Paese, ed evitare la democratura.
Certo io preferirei da sempre: l’alternanza tra sinistra-centro e destra-centro; ossia “l’Europa in Italia”, ossia la fine di un antico e spesso corruttivo trasformismo. Ma in attesa che i riformisti di destra e di sinistra, o riformismo di centro e riformismo di sinistra, per così dire da Renzi e Calenda a Bersani passando per Letta, imparino a stare insieme “da bravi compagni” come i blairiani e i trockijsti nel laburismo inglese; e che si formi insomma un grande partito unitario e socialista dei lavoratori italiani – rosso e verde, di centrosinistra senza trattino, basato sulla logica da “plurimi in uno” – per ora dobbiamo salvare la democrazia, e anche, e correlativamente, l’espansività dell’economia. Questo accadrà con un governo di grande coalizione, anche dopo le elezioni, diretto da un vero statista di livello internazionale che riconcili, tra l’altro, i cittadini con lo Stato. Invito gli amici a meditare sul fatto che l’alternativa, per i prossimi anni, sarà tra Mario Draghi e Giorgia Meloni.
Franco Livorsi
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