Stato e mercato. Fine di un dibattito?

“Il dibattito sulle opposte virtù del libero mercato e dell’intervento governativo è di nuovo arroventato quanto negli anni trenta del Novecento.”
Nicholas Wapshott, Keynes o Hayek. Lo scontro che ha definito l’economia moderna, Feltrinelli, Milano 2018 p. 11.

Il provvedimento con il quale il Presidente del Consiglio Mario Draghi, ottenuta l’approvazione della Commissione Europea, ha bloccato l’esportazione in Australia di 250mila dosi di vaccino anti-Covid AstraZeneca può essere interpretato sulla base di (almeno) tre diverse chiavi di lettura: una politica, stante la valenza protezionistica che esso implica (tanto a livello politico interno che nel contesto dell’Unione Europea); una chiave di lettura geopolitica, in relazione alle possibili ripercussioni che tale atto può comportare sui rapporti internazionali; ed infine una chiave di lettura economica, connessa all’annosa questione dell’intervento pubblico sul buon funzionamento del mercato. Non ho sufficienti competenze per entrare nel merito delle prime due chiavi di lettura, ma il “dibattito sulle opposte virtù del libero mercato e dell’intervento governativo” merita un approfondimento.

Oltre al succitato provvedimento governativo, la discussione sulle strategie da adottare in vista delle misure previste dal “Bilancio a lungo termine dell’Unione Europea” e dal “Piano europeo per la ripresa economica” (Next Generation EU), ha riportato al centro dell’attenzione “l’intervento pubblico”, con particolare riguardo alle misure di “politica fiscale”, intesa nell’accezione più ampia del “controllo del bilancio dello Stato”, che si rifanno al pensiero di John Maynard Keynes (1886-1946),[1] le idee del quale, nel corso di un lungo e acceso dibattito, furono avversate, in vita, da Friedrich August von Hayek (1899 –1992),[2] al cui pensiero si ispira il mainstream neoliberista che si oppone ideologicamente all’intervento dello Stato in economia.

Gianfranco Sabattini (1936-2020), già professore ordinario di Politica Economica nell’Università di Cagliari, nonché curatore di una pregevole raccolta di saggi di John Maynard Keynes[3], a conclusione della recensione del libro citato nell’epigrafe riferisce il fatto che lo stesso Wapshott si dichiari incerto su chi sia stato «il vincitore del più famoso duello nella storia dell’economia ottant’anni dopo le prime scaramucce tra Keynes e Hayek». [4] Per le ragioni che cercherò di spiegare, considero quel dibattito concluso senza un vero vincitore. Se si considera infatti l’impatto che questi due grandi economisti del secolo scorso hanno avuto sulle rispettive scuole di pensiero, entrambi hanno vinto. E tuttavia, alla luce dei fatti più recenti e della evoluzione del pensiero economico contemporaneo, si può dire che essi, in un certo senso, abbiano entrambi perso.

Una premessa innanzitutto: condivido pienamente il punto di vista del grande genetista genovese Luigi Luca Cavalli Sforza (1922-2018), per il quale «conoscere la Storia non basta”, e che “…non si può mai dire se una teoria è vera, ma si può solo dimostrare che è falsa – fino a quel momento non diciamo che una teoria è vera, ma utile».[5]

Sintetizzare in una nota di carattere divulgativo il contributo di due “pilastri” della Storia del pensiero economico come Keynes e Hayek, oltre ad essere un compito assai arduo, esula dagli scopi che ci siamo prefissati. Bastino poche considerazioni sulla “narrazione” del primo e su qualche dubbio sul secondo.

La “narrazione” keynesiana, che pone al centro dell’attenzione il problema della “disoccupazione involontaria” quale conseguenza del fatto che, «(…) più ricca è una collettività, maggiore tenderà ad essere il divario fra il livello effettivo e il livello potenziale della produzione, e dunque tanto più manifesti e scandalosi saranno i difetti del sistema economico» [6], riguarda innanzitutto il breve periodo, che è il suo punto di forza, ma anche di debolezza. La “narrazione” è infatti soggetta ad alcune critiche e ad alcune questioni lasciate in sospeso. Quanto alle critiche, la prima riguarda la presenza di una incoerenza interna dovuta all’ipotesi che la capacità produttiva si mantenga costante, a fronte della presenza della spesa per investimenti da parte delle imprese, che rappresenta il flusso di accrescimento della capacità produttiva stessa. In risposta a questa critica Sir Roy Harrod (1900-1978) ed Evsey Domar (1914-1997) svilupperanno le rispettive teorie del ciclo e della crescita, dalle quali avranno origine le moderne teorie della crescita economica. La seconda critica attiene ad alcune ipotesi ritenute alquanto deboli: infatti, se i consumi e gli investimenti non sono sensibili alle variazioni del tasso d’interesse (come accade ad esempio quando il tasso d’interesse è prossimo allo zero) viene meno l’interdipendenza tra il “mercato reale” e il “mercato monetario”, e in tal caso la «politica monetaria» diviene totalmente inefficace. In risposta a questa critica si svilupperà il filone di pensiero che porterà all’indipendenza delle banche centrali dal potere politico. La narrazione keynesiana, lascia poi in sospeso due questioni che rappresentano altrettanti punti di debolezza: il problema dell’inflazione e il fatto di avere ignorato gli effetti del progresso tecnico. L’insorgenza nella prima metà degli anni ’70 del fenomeno dell’inflazione, nella forma della stagflazione (stagnazione accompagnata da inflazione), secondo alcuni, per merito soprattutto del contributo teorico di Milton Friedman, avrebbe segnato «la fine dell’era keynesiana e l’avvento di quella hayekiana».[7] Quanto al fatto di avere ignorato gli effetti del progresso tecnico, pur avendo Keynes già da tempo lanciato il suo monito sulla pericolosità della “malattia della disoccupazione tecnologica” [8], lascia del tutto irrisolta questa forma di disoccupazione.

Il recente approccio della teoria della complessità applicata alle scienze sociali ha messo inoltre in evidenza il fatto che il sistema sociale, nel quale interagiscono oltre al sistema economico – nelle sue articolazioni dell’economia reale, monetaria e finanziaria (tra di loro interconnesse) -, il sistema politico e quello naturale, tra di loro interconnessi, appartenga alla categoria dei sistemi complessi, la cui evoluzione, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, è impredicibile. Caratterizzati dalla presenza di regolarità persistenti e osservabili solo a livello di sistema (un mucchio di mattoni non è una casa), nonché dall’insorgenza di fenomeni di auto-organizzazione (gli «atomi sociali» si copiano e danno origine a fenomeni come le mode), di questo tipo di sistemi è possibile, infatti, valutare unicamente quali siano le “condizioni di rischio” (come nel caso delle aree a rischio terremoto o dal rischio di insolvenza derivante dall’eccessivo indebitamento di un sistema economico), le eventuali “conseguenze” (ad esempio cosa comportano le crisi economiche), ma è impossibile controllarne l’incertezza (ovvero quando scoppierà la prossima crisi finanziaria).[9]

Friedrich August von Hayek[10], più giovane di Keynes di tredici anni, ma che ha avuto la fortuna di sopravvivere al suo amico/avversario per poco meno di mezzo secolo, nella Lezione Nobel significativamente intitolata “La presunzione del sapere”, tenuta in occasione della cerimonia nel corso della quale nel 1974 gli è stato conferito l’ambito Premio, ha richiamato l’attenzione degli economisti «sui fenomeni di ‘complessità organizzata’, che ci troviamo di fronte nelle scienze sociali».[11] Nel contempo, Hayek ha gettato un’ombra di discredito su «un rapporto che si pronunciava in nome della scienza su i limiti dello sviluppo», sottolineando il silenzio che i mezzi di comunicazione «hanno mantenuto sulle critiche distruttive che tale rapporto ha ricevuto dagli esperti del settore» (p. 214). Un’ombra di discredito che, essendo frutto di ‘presunzione del sapere’, sedici anni dopo, con la pubblicazione nel 1990 del Primo Rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) – al quale ha fatto seguito la nascita della  Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCC) – si ritorcerà proprio contro lo stesso Hayek e contro gli “esperti del settore”.

A conclusione di questa nota, vorrei rammentare alcuni “fatti”, emersi in questi ultimi anni, che stanno mettendo a soqquadro tutta l’impalcatura sulla quale si è retto il dibattito su “Stato e mercato”. Fatti che inducono a pensare che né Keynes né Hayek possano dirsi vincitori nell’ambito di quel dibattito. I recenti cambiamenti nel mondo del lavoro: “l’Industria 4.0” (la quarta Rivoluzione Industriale), la “sharing economy“ (l’economia della condivisione), “l’internet of things” (l’internet delle cose, ovvero la produzione di beni mediante stampanti tridimensionali, la cosiddetta “gig economy” (l’economia del lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo) e non ultimo lo “smart working” (i cambiamenti del modo di lavorare imputabili alla pandemia, come l’insegnamento a distanza, le consegne a domicilio e così via), hanno riproposto al centro dell’attenzione degli economisti, non solo nuove forme di “disoccupazione tecnologica”, ma la necessità di un ripensamento sul ruolo stesso dello Stato. Un ripensamento che non può escludere una maggiore attenzione alle “nuove sfide”, dal riscaldamento globale, all’esaurimento delle risorse, (siano esse non rinnovabili che rinnovabili), tra cui la scarsità dell’acqua.

Sfide per affrontare le quali sarebbe necessario abbandonare l’ottica dell’interesse del “più forte” in favore di quella della “cooperazione multilaterale tra pari” alla quale faceva riferimento John Maynard Keynes nel suo Progetto di Unione Monetaria Internazionale del settembre del 1941. Un’ottica che, alla fine delle tre settimane di dibattito tra i 730 delegati delle 44 nazioni alleate nella Conferenza di Bretton Woods del luglio del 1944, venne affossata in favore del progetto presentato dal delegato USA Harry Dexter White che privilegiava l’interesse degli USA a scapito di quello collettivo. Nutro forti dubbi che, nonostante l’elezione di Joe Biden a Presidente degli Stati Uniti, l’ottica della “cooperazione multilaterale tra pari”, ancorché auspicabile per affrontare tali sfide, divenga una realtà.

Sarebbe forse opportuno che ognuno di noi rileggesse le Note conclusive sulla filosofia sociale verso la quale la Teoria Generale potrebbe condurre, laddove John Maynard Keynes scrive: “Penso quindi che una socializzazione piuttosto estesa degli investimenti si dimostrerà il solo mezzo per realizzare una situazione che si approssimi alla piena occupazione, anche se questo non esclude necessariamente ogni genere di compromessi e di espedienti attraverso i quali la pubblica autorità collaborerà con l’iniziativa privata” (p. 432 dell’edizione curata da G. La Malfa).

Bruno Soro

Alessandria, 17 marzo 2021

  1. Giorgio La Malfa, curatore e traduttore della recente riedizione di Keynes. Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta e altri scritti, i Meridiani Mondadori, Milano 2019, in un lungo articolo pubblicato su la Repubblica del 2 marzo scorso, “Caro Mr. Keynes, non sei mai stato così attuale”, è tornato sulle idee eterodosse di Keynes sottolineando il fatto che esse “tornano a dominare la scena”.
  2. La genesi e l’evoluzione del dibattito tra J.M. Keynes e F.A. von Hayek sono estesamente ed esaurientemente trattate nel libro di Nicholas Wapshott citato in epigrafe.
  3. G. Sabattini, John Maynard Keynes. Come uscire dalla crisi, Editori Laterza, Bari 2004.
  4. G. Sabattini, “Keynes, Hayek e le crisi economiche”, Mondo Operaio 9/2017, pp. 87-90.
  5. L.L. Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura, Codice edizioni, Torino 2004, p. 42.
  6. J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione dell’interesse e della moneta e altri scritti, Mondadori, Milano 2019, cap. 3, p. 42.
  7. G. Sabattini, cit. nella nota 4, p. 89.
  8. «I paesi che non sono all’avanguardia del progresso – scrive Keynes nell’ottobre del 1930 – ne risentono in misura relativa. Noi, invece, siamo colpiti da una nuova malattia di cui alcuni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con un ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera». J.M. Keynes, “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, Esortazioni e profezie, Garzanti, Milano 1968, p. 271.
  9. Su questo tema mi sia consentito citare il mio saggio “Complicato e complesso”, pubblicato sulla rivista “Ragion Pratica”, n. 36 (1), giugno 2012, ripubblicato in Capire i fatti. Saggi divulgativi di Politica economica e Società, Epoké 2018, cap. VIII, pp. 107-117. Segnalo inoltre il recentissimo libro di Mauro Gallegati, Il mercato rende liberi. E altre bugie del neoliberismo, LUISS 2021, nel quale l’autore dedica l’intero secondo capitolo alla complessità evidenziando come, grazie all’innovazione che “vede l’economia come un fenomeno in continua evoluzione”, questa visione rappresenti un nuovo paradigma per l’economia.
  10. Una efficace sintesi del pensiero liberale di Friedrich A. von Hayek: “Hayek: libertà, mercato, ordine sociale” è riportata in D. Besomi e G. Rampa, Dal liberalismo al liberismo. Stato e mercato nella storia delle idee e nell’analisi degli economisti, Giappichelli Editore, Torino 1998, pp. 185-190.
  11. F.A. von Hayek, “La presunzione del sapere”, Lezione Nobel 1974, in F. Caffè, a cura di, Lezioni Nobel di economia (1969-1976), Boringhieri, Torino 1978, pp. 206-218. Occorre peraltro riconoscere a von Hayek di essere stato tra i primi ad avere segnalato l’importanza che assume la teoria della complessità nell’ambito delle scienze sociali.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*