L’analisi della nostra identità nazionale da esercizio prevalentemente culturale è in questi tempi diventata un tema di grande attualità politica. Ne parlano tutti: sociologi, economisti, giornalisti, scrittori e, naturalmente, politici. Perfino l’ultima edizione del festival itinerante de “La notte della taranta” l’ha fatto suo. Grande successo sta avendo un libercolo indegno di un generale dell’esercito nel quale si dice per filo e per segno proprio qual è e cosa è la nostra ‘vera’ identità. In modo serio in questi giorni ne hanno parlato l’economista Carlo Cottarelli, il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, il filosofo Marcello Veneziani, lo scrittore Stefano Massini. Raccoglie una serie di interviste sul tema il giornalista Giorgio Zanchini nel libro “Esistono gli italiani? Indagine su un’identità fragile” (Rai Libri).
Oltre a pubblicazioni improponibili, come quella del nostro generale, non mancano anche quelle un po’ supponenti come il volumetto rapidissimo di Antonio Pilati e Riccardo Pugnalin, “Mitologie italiane. Idee che hanno deviato la storia” (Luiss University Press), che in poche ariose pagine hanno dato fondo all’intera storia degli italiani dalla unità politica ai nostri giorni. Il tutto accompagnato da valutazioni inevitabilmente rapide, apodittiche, da giudizi trancianti e da una buona dose di pregiudizi ‘ideologici’ (qualsiasi intromissione della mano pubblica in economia è vista quasi come un ‘crimine’ contro il principio metafisico della centralità del mercato a prescindere; giudizio liquidatorio sul Pci al quale viene disconosciuto qualsiasi contributo alla costruzione della nostra democrazia; atteggiamento sprezzante sullo sforzo di Enrico Berliguer di portare stabilmente il Pci nell’area occidentale; totale svalutazione della sintonia tra il segretario del Pci e Aldo Moro, etc.etc).
Per i due autori il nostro Paese è sempre stato l’”Italietta” minoritaria, senza peso, senza ruolo storico, che si è illusa di contare qualcosa costruendo un cumulo di miti senza sostanza: a quello di un suo presunto primato culturale e “italico-romano”; a quello “imperiale”; a quello nazionale, unitario, o europeista (ritenuto tra i peggiori perché “ha creato soprattutto squilibri accentuando lo scarto fra retorica e azione”). Insomma, il nostro Paese avrebbe costruito un salvagente mitologico al quale potersi aggrappare per superare vicende di cui protagonisti sono sempre gli altri. Inaccettabili appaiono soprattutto: il disconoscimento dell’oggettivo processo col quale l’Italia diventa l’erede della cultura classica latina e della Magna Grecia; la banalizzazione del processo di unificazione politica; il giudizio fallimentare sul processo di unità europea e l’affermazione dell’assenza di una nostra vocazione europeista.
Sulla prima questione si può dire senz’altro che l’eredità classica dell’Italia non è affatto un mito senza fondamento. I due autori hanno dimenticato che la civiltà latina non solo per secoli ha ricoperto tutta la Penisola, ma che da questa ha ricevuto, come nota U. Cerroni, da Nord a Sud impulsi fondamentali: a Sud, abbiamo avuto tra gli altri Ennio, Sallustio, Ovidio, Orazio; al Centro, Tacito, Cicerone, Varrone; al Nord, Plinio, Virgilio, Catullo. Edward Gibbon scrive: “Dai piedi delle Alpi all’estremo lembo della Calabria tutti quanti vedevano la luce in Italia nascevano cittadini di Roma”. Buona parte della Penisola prolunga poi il legame col mondo romano tramite la non breve presenza bizantina, soprattutto relativamente all’uso del diritto romano tramite la codificazione giustinianea. Sempre Cerroni, sostiene che “la memoria del mondo classico che sta alla base della nostra cultura moderna” ha svolto un “potente ruolo sia nell’uso letterario a lungo protratto del latino sia nella costruzione della stessa cultura italiana. Basti pensare a Dante e Petrarca”. L’Italia ha una solida identità culturale come erede diretta non solo della civiltà romana ma anche di quella greca alla quale ha dato un apporto non marginale con la scuola della Magna Grecia (Senofonte, Parmenide, Empedocle, Pitagora, Gorgia, ecc.). Possiamo dire che gli italiani “sono diventati rielaboratori e ripropositori di quella eredità di fronte alle nuove fasi della evoluzione europea”.
Per quanto riguarda poi il processo di costruzione del nostro Stato unitario, gli autori hanno ragione nel dire che si è trattato di una sostanziale estensione del Regno di Sardegna e frutto di una abile azione diplomatica che ha fatto sentire estranea gran parte del popolo e delle forze politiche. Ma improprio è definire il nostro uno “Stato imprevisto”. L’egemonia piemontese non matura infatti all’improvviso e per caso. Giuliano Procacci, per esempio, sostiene che fin dal ‘700 il Piemonte “aveva saputo mirabilmente volgere a proprio profitto gli antagonismi tra le grandi potenze”. Ma il fatto decisivo è che altre vie per giungere all’unità non esistevano: per cui non ci sono state mai altre occasioni perdute. Come dice Giuliano Amato in una sua bella relazione del 2011 all’ Accademia Nazionale dei Lincei, l’Italia possibile è stata quella realizzata in quel modo e in quel momento, ed è stata, pur con tutti i suoi vistosi limiti e contraddizioni, senz’altro migliore dell’Italia precedente. Giuseppe Galasso arriva a definire la nostra unificazione un capolavoro politico dell’Occidente.
Sull’Europa unita il giudizio di Pilati e Pugnalin è inappellabilmente negativo: non per le difficoltà che oggi essa sta indubbiamente attraversando e per una sua certa impotenza di fronte ai fatti attuali, ma per ragioni che ineriscono al suo stesso atto di nascita. Per gli autori sarebbe stato sempre chiaro che una Unione politica era impossibile e che l’Italia ha costruito il mito europeista da soccombente. Si accoglie senza riserve il luogo comune di una Europa comunitaria come una ‘operazione’ economica e non politica, di “gigante economico e nano politico”. Benchè anche di recente le occasioni per rafforzare questo pregiudizio non siano mancate, non si può dire però che le cose stiano proprio così. Per il presidente Giorgio Napolitano “non si trattava di integrare solo mercati e, via via, le economie, ma di far nascere un’Europa politica”. Altri hanno sostenuto che sin dalle origini l’Unione europea è stata “un progetto politico che ha fatto ricorso a strumenti economici” (Cartabia-Weiler).
Azzardata appare poi la tesi che il nostro paese non abbia radici europeiste. Da sempre l’Italia è conseguentemente europeista. Possiamo addirittura sostenere che la sua adesione all’Europa unita ha avuto una incubazione plurisecolare. Basti pensare al Dante del “De Monarchia”; al Machiavelli che prima di ogni altro cerca di delineare una teoria generale degli Stati per ostacolare la nascita degli imperi coloniali; a Gaetano Filangieri che individua l’esistenza di un tessuto unitario della società europea; a Mazzini; a Carlo Cattaneo. E poi: a Carlo Rosselli, Luigi Einaudi, al progetto del “Manifesto di Ventotene”, ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi ( questi ultimi nel libro quasi dileggiati).
La lettura di questo libro può comunque essere utile per meglio comprendere quanta strada ci sia ancora da percorrere per giungere una accettazione condivisa della nostra storia.
Egidio ZACHEO
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