Nanni Moretti e la morte del Cinema. Note su “Il sol dell’avvenire”

      – 1. Che il Cinema[1] fosse ormai un morto che cammina era evidente da un pezzo. Per Cinema, intendo qui l’unico cinema per me degno di questo nome e cioè il Cinema d’Autore. L’altro Cinema sta benissimo. Personalmente, da un paio d’anni non vado più al cinema. Ho fatto però un’eccezione per Il sol dell’avvenire, il lavoro più recente di Nanni Moretti, intanto perché proprio lui può essere considerato effettivamente un Autore e poi, senz’altro, per motivi personali, poiché questo Autore, come altri del resto, mi ha accompagnato in lungo e in largo, in tanti momenti della mia vita. Il film in questione è stato, mi pare, accolto piuttosto positivamente, è stato ovunque plaudito e non ho avuto sentore di critiche sostanziali.[2] Il film è stato plaudito, certo, tuttavia non mi pare di avere colto, tra tutti gli applausi, una prospettiva interpretativa dotata di qualche solidità. Tutti d’accordo, senza sapere perché.

      – 2. Siccome ho visto il film solo poco tempo fa, e dunque con un certo ritardo, mi era capitato di fare, a diversi amici che lo avevano già visto, la classica domanda: «Com’è il film?». Sempre le stesse risposte: «Bello!», «Interessante!», «Eh!, il solito Moretti!». Sì, ma cosa vuol dire? «Mah, non è molto chiaro, ci sono dei film nel film». Per finire nell’immancabile: «Magari sarebbe il caso di rivederlo!». Diciamolo pure, questo film di Moretti è un film di cui, alla prima visione, non si capisce proprio un accidente di niente. E anche dopo la seconda visione non ci si sente tanto bene.

      Sento già la cantilena: «Sei vecchio! Sei ancora uno che vuole il significato complessivo! Il significato di un’opera non c’è e non ci può essere. Oppure ci sono mille significati. Come dire che non ce ne può essere uno che conti più di un altro. Per questo è ormai del tutto inutile fare i dibattiti, tanto ognuno nei film ci vede quel che vuole. E nessuno è più disposto a confrontarsi e a cambiare idea. Accontentati della superficie. Sotto la superficie c’è soltanto il nulla!». Dopo quarant’anni di critica postmoderna[3] siamo purtroppo a questo punto. Siamo ormai da tempo passati dall’opera aperta[4] all’opera spalancata. Per non sconfinare dunque nei territori proibiti della critica postmoderna, premetto che questo che state leggendo non dovrebbe essere inteso come un articolo di critica cinematografica. E non sarà certo inteso come tale dai critici sedicenti. Questo è soltanto un modesto e paziente esercizio di lettura del film, peraltro forse anche piuttosto noioso, tanto per andare oltre alla prima visione, con qualche pretesa in più di analisi e di riflessione proprio a partire dal testo. In generale, i presupposti della mia comprensione di un film implicano, ahimè, che lo si debba in qualche misura raccontare.[5] Soprattutto nel caso di un film come Il sol dell’avvenire che è terribilmente denso e, in qualche misura, proprio non raccontabile. In casi come questo, soprattutto i dettagli costituiscono il materiale testuale indispensabile che può poi supportare le analisi, le argomentazioni e, infine, l’eventuale giudizio. Ma i dettagli possono anche servire per parlare di altro, poiché un qualsiasi testo è pur sempre connesso, per vie imperscrutabili, con il Testo universale.

      Tanto per anticipare il finale della mia analisi, a me è parso, per dirla in estrema sintesi, che con questo suo film Nanni Moretti abbia deciso di affrontare, con una prospettiva dall’interno, proprio il tema, senz’altro di attualità, della morte del Cinema. Moretti, finalmente, dice «qualcosa di sinistra», non sulla sinistra che purtroppo abbiamo, ma proprio sul Cinema.

      – 3. Allora partiamo pazientemente dal testo. Solo così potremo accertare se io e il mio lettore abbiamo visto lo stesso film. Moretti è notoriamente un simpatico egocentrico e non poteva che partire da sé stesso, questa volta, in particolare, dal suo stesso mestiere di Autore cinematografico (“regista” qui mi parrebbe riduttivo, perché ci sono tanti cani che sono “registi”). In quest’ultimo film si parla quasi esclusivamente del Cinema. Si tratta di un film sicuramente autoreferenziale, un film dove il Cinema viene usato per riflettere su se stesso. Si può anche pensare che, al punto di crisi cui il Cinema è arrivato, questo sia ormai un esercizio piuttosto inutile, un perfetto autoinganno, ma tant’è. Moretti ha scelto così. E per me ha fatto bene, poiché la sua riflessione è tutt’altro che banale.

      Il filone narrativo principale, che cerca con qualche fatica di tenere insieme tutto l’arduo coacervo de Il sol dell’avvenire, emerge solo poco per volta dalle vicende di cui sono protagonisti Giovanni (impersonato dallo stesso Moretti) e Paola (Margherita Buy). Si tratta di vicende che occupano sia il campo professionale sia il campo della vita privata dei protagonisti, in un intreccio denso e volutamente inestricabile. Diciamo che la dimensione privata farà fatica a emergere, ma poi si scoprirà essere forse la dimensione principale. I due sono una coppia non più giovane e sono marito e moglie. Lui fa il regista e lei la produttrice. Hanno una figlia Emma, che fa la compositrice di musiche per film. Un’impresa casereccia, insomma, tutta incentrata intorno al Cinema.

      Veniamo quasi subito avvisati che quella di Giovanni e Paola è una coppia in crisi. Questo si capisce poiché Paola è insoddisfatta della sua relazione e va dallo psicoanalista, a insaputa di Giovanni. Vorrebbe lasciare Giovanni, ma non ne è capace. Giovanni invece, alquanto egocentrico, sembra tutto contento del suo rapporto con Paola, cita spesso il loro lungo matrimonio e la loro collaborazione di quarant’anni nel campo professionale. Paola, infatti, ha prodotto tutti i film di Giovanni. Solo ultimamente, probabilmente proprio in relazione alla crisi coniugale, Paola si è risolta a produrre, con l’appoggio finanziario di un gruppo coreano, un film con Giuseppe (Giuseppe Scoditti), un giovane regista all’inizio della sua carriera. Giovanni è completamente concentrato sul suo film che si titolerà Il sol dell’avvenire e su una serie di molteplici altri progetti. Scoprirà tardi e male i problemi di Paola nei suoi confronti.

      Entrambi poi scoprono, in maniera quasi casuale, che la loro figlia Emma si è innamorata di Jerzy, a quanto pare console polacco, un uomo molto più anziano e maturo di lei, sebbene persona simpatica e di notevole cultura. La vicenda di Emma, oltre a riproporre la nota questione dei difficili rapporti intergenerazionali, costituisce anche la sottolineatura di una certa difficoltà relazionale che si respira nella famiglia di Giovanni e Paola.[6] Emma, avendo avuto un padre artista che si mostra bizzarro e problematico, non avendo avuto cioè un vero padre, evidentemente ha cercato un sostituto. E pare averlo trovato.

      Giovanni, che fa il creativo, è presentato come un personaggio egocentrico, secondo lo schema morettiano classico. Paola gli rimprovererà di averla sempre considerata in termini soltanto utilitaristici e ammetterà di avere in fondo sempre accettato questo ruolo. Anche se ora (dopo quarant’anni!) non intende più continuare così. Allo psicoanalista dice che lei e Giovanni parlano di tutto, tranne che di loro due. I due sembrano perfettamente in sintonia sul piano culturale e professionale ma del tutto incapaci di discutere del loro rapporto affettivo. Su sollecitazione esplicita dello psicoanalista, lei dichiara con fermezza di non voler affrontare l’argomento della loro vita sessuale.

      – 4. Accanto al filone principale dei rapporti interpersonali, abbiamo poi una schiera di numerosi film nel film che si accavallano. E che sono spesso mostrati allo spettatore con un montaggio vertiginoso, tanto da lasciare interdetti. Proviamo intanto a vedere sommariamente quali film ci sono all’interno del filone narrativo principale.

      C’è intanto il film più evidente, quello che Giovanni si accinge a girare e che investe subito lo spettatore, di cui sappiamo il titolo: Il sol dell’avvenire. Si tratta di un film che apparentemente riguarda la storia del PCI nel 1956, nel frangente dei fatti di Ungheria. Diciamo subito che questo film, nel corso degli eventi subirà disavventure varie e sarà infine modificato, soprattutto nel finale previsto dal copione. Il film è prodotto da Paola ed è cofinanziato da Pierre, un produttore francese piuttosto superficiale che ammira senza riserve, in modo addirittura untuoso e servile, il lavoro autoriale di Giovanni. Nel corso degli avvenimenti, Pierre metterà gravemente a repentaglio la stessa lavorazione del film.

      Poi c’è il film (il cui titolo non è esplicitato) diretto dal giovane regista Giuseppe, prodotto sempre da Paola, con una coproduzione coreana. Si tratta, eccezionalmente, della prima produzione di Paola con un regista diverso dal marito. Una rottura dunque nelle consuetudini ultradecennali della coppia. Il film sarebbe – si dice – una riproposizione shakespeariana del conflitto amletico tra il padre e il figlio. In realtà comprendiamo ben presto che si tratta di un film di tipo splatter, piuttosto demenziale. Il giovane regista viene mostrato come un creativo esaltato dalle scene di violenza gratuita che abbondano nel suo film. Insomma, si tratta dell’esatta antitesi del Cinema di Giovanni, che rifiuta invece la violenza gratuita, che si rammarica di fare un solo film ogni cinque anni, che fa girare una scena anche 20 volte. Mentre per Giuseppe è sempre «Buona la prima!». Giuseppe e Giovanni sono evidentemente due modelli di Cinema che si collocano uno all’opposto dell’altro. La scelta di Paola di produrre il film di Giuseppe ha senz’altro qualche relazione con la sua crisi coniugale e con l’intenzione di divorziare, ma ciò non viene esplicitato più di tanto.

      – 5. Ci sono poi almeno due accenni, vaghi ma ricorrenti, ad altri film che il creativo Giovanni ha in progetto di realizzare. Come quello che Giovanni ha già in fase di scrittura, quello che dovrebbe titolarsi Il nuotatore, in cui, alla lettera, un nuotatore dovrebbe tornare a casa, passando da una piscina all’altra. Tratto – si dice – da un racconto di John Cheever. Un film decisamente bizzarro a proposito del quale in una scena ci si domanda se nella storia del nuotatore che salta di vasca in vasca sia più in questione lo spazio oppure il tempo. Se riguardi un futuro utopico o distopico.

      Oppure quello, a quanto pare solo in fase di pura immaginazione, ma con due personaggi già perfettamente definiti e vividi nella mente del regista. I quali ogni tanto si prendono il loro spazio. Il film dovrebbe essere incentrato su cinquant’anni di vita di una coppia, e dovrebbe avere «tante canzoni italiane». Alcune parti del film immaginato irrompono e vengono mostrate al pubblico in varie occasioni. Questo nel progetto doveva essere un film d’amore, ma evidentemente, anche solo nel percorso immaginativo, sfuggirà di mano al regista poiché i due protagonisti alla fine si lasciano.[7] Tuttavia Giovanni, in un tentativo estremo di salvare la storia d’amore, immaginerà anche un secondo finale, dove i due attori appariranno in un flash, in un prato, ridenti e felici con due bambini piccoli, mentre fanno la danza dei dervisci sulle note di Battiato. Giovanni sembra avere la propensione a riflettere sulle relazioni di coppia solo attraverso la scrittura dei suoi film. Sembra ossessionato dalle relazioni, eppure incapace di capirle e di governarle. Perfino gli elefanti, usati in scena, pare abbiano problemi a lavorare insieme sul set. A un certo punto «la loro familiarizzazione è fallita», dice Arianna, l’aiuto regista.

      Insomma, progetti, idee, tentazioni di scrittura che Giovanni esibisce morettianamente, col suo solito egocentrismo autoriale, a partire dalle sue ossessioni profonde. Oltre a questi film di cui si parla esplicitamente, ci sono tante altre citazioni cinematografiche più o meno occasionali, unite a molte canzoni che, di quando in quando, irrompono, più o meno a proposito. Tutti questi film e tutti gli altri materiali si mescolano continuamente e interagiscono con le tappe di lavorazione del film principale in cui Giovanni è impegnato che è Il sol dell’avvenire, quello sul PCI del 1956. Insomma, siamo di fronte a un gran minestrone. Di tutto e di più. E ciò contribuisce a fare del film un’opera non facilmente fruibile. A volte lo spettatore fa fatica a seguire le diverse repentine soluzioni di continuità. Pezzi di vita personale della coppia Giovanni/ Paola e della figlia, che si intrecciano costantemente con i pezzi dei film in lavorazione o in progetto. Cinema e vita per davvero. Fino all’esasperazione.

      – 6. Giovanni è tutto concentrato sul suo lavoro creativo e procede nella lavorazione del suo film, inconsapevole di ciò che lo attende. Lo stile che usa sul set è quello cui Moretti ci ha abituati: egocentrico, maniacale, dispotico. Potremmo dire dittatoriale, tanto per evocare una delle tematiche del suo stesso film. Ma vediamo il film più in dettaglio. In apertura, lo spettatore incappa nella lavorazione da parte di Giovanni del film sul PCI del 1956. Siamo a Roma. I titoli di testa si aprono con la scritta Il Sol dell’avvenire sul muro, seguita poi dall’inaugurazione dell’arrivo della luce elettrica al Quarticciolo, il quartiere romano dove è ambientata la storia. Si capisce che a promuovere l’impresa dell’elettrificazione sia stata la locale Sezione Gramsci del PCI, guidata da Ennio Mastrogiovanni (Silvio Orlando) e dalla sua collaboratrice Vera Novelli (Barbora Bobuľová).

      Diverse recensioni presentano Ennio e Vera come marito e moglie. Anche Wikipedia lo sostiene. Tuttavia nel testo del film non c’è proprio nulla che lo dica esplicitamente o che lo suggerisca implicitamente. C’è in effetti una scena in cui Vera prende le misure a Ennio per una giacca nuova. Qui i due si ritrovano sullo sfondo di un ambiente domestico e non nel solito ufficio della sede di partito. Ma siamo già stati avvertiti che Vera, di mestiere, fa la sarta, dunque la situazione non può essere invocata come segno certo di vita coniugale. Giovanni poi, nel dirigere la scena, tende a negare qualsiasi relazione affettiva tra i due e rimbrotta l’attrice che interpreta Vera per essere troppo seduttiva. Quel che deve emergere, evidentemente, non è una eventuale vita privata dei due ma solo la loro stoica attività di militanza politica. L’attrice che interpreta Vera, sul set, abbastanza chiaramente tende invece a ricamare su un’ipotetica attrazione tra i due. Nel corso degli sviluppi del film saranno i due attori (per capirci, Orlando e la Bobuľová) a manifestare progressivamente un’attrazione reciproca, ma in quanto attori sul set, ben oltre la rigida estraneità richiesta dai loro due personaggi.

      Che i due siano o meno marito e moglie, non sfugge comunque allo spettatore che il sodalizio di militanza politica tra Vera e Ennio è esattamente analogo al sodalizio di militanza cinematografica tra Giovanni e Paola. Un sodalizio che tendenzialmente esclude la vita privata.

      Che si stia girando un film lo spettatore lo capisce poco per volta, nel passaggio continuo tra le scene girate e il lavoro di troupe. In particolare, durante un briefing con i suoi collaboratori, Giovanni è costretto a spiegare ai più giovani gli aspetti storici più elementari che costoro ignorano del tutto. Ebbene sì, in Italia c’erano i comunisti! Giovanni viene presentato come un esperto di quell’epoca, quello che sa quel che accadeva, tanto da poterci fare un film sopra con una certa sicurezza. Ma, come vedremo, non bisogna credere del tutto a questa impressione. Giovanni comunque è dipinto un po’ come il testimone di un’altra epoca che i giovani odierni non sanno più neppure immaginare. Testimone anche di un modello di impegno politico come quello dei comunisti italiani di allora, oggi impensabile. Insomma, Moretti sente il bisogno di proporci, attraverso il lavoro di Giovanni, un viaggio nel tempo. Vedremo con quale scopo.

      – 7. Lo spettatore è indotto a interrogarsi più e più volte su cosa abbia in mente Giovanni nel girare il suo film. Apparentemente sembrerebbe voler essere un film storico, intorno alle vicende di una sezione romana del PCI, nel frangente drammatico dell’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956. Lo spettatore tuttavia si accorge ben presto che non si tratta di un film storico. Il che si chiarisce poco a poco, soprattutto di fronte alla disinvoltura del regista proprio rispetto ai fatti e ai documenti storici.

      Apparentemente Giovanni mostra attenzione per la ricostruzione esatta degli ambienti. Un tormentone ad esempio è quello degli oggetti di scena “fuori tempo” che Giovanni rintraccia e di cui rimprovera Diego, il tecnico di scena. Poi si chiarirà l’origine di questi oggetti vaganti. Ma l’ossessione per la documentazione storica si trova sempre in bilico tra il vero e il falso. Le etichette autentiche delle acque minerali del tempo non piacciono a Giovanni, tanto da volersene inventare una: l’Acqua Rosa, in omaggio a Rosa Luxemburg.[8] Il titolo originale de l’Unità che annuncia l’invasione non va bene perché è troppo lungo, dunque si può liberamente accorciare, cioè falsificare. La foto di Stalin, la cui presenza è del tutto verosimile nella ricostruzione di una sezione del PCI di quell’epoca, si può stracciare «perché Stalin è un dittatore», e così via. Avremo poi modo di discutere anche del finale del film, che, sul piano storico, stravolge completamente gli avvenimenti.

      Nel film che Giovanni sta girando, si fa senz’altro molto uso della storia ma non si può proprio dire che si tratti di un film storico. Certo, ci sono anche citazioni storiche puntuali, soprattutto sul costume dell’epoca. Ad esempio, l’importanza del giornale di partito, l’Unità, il rito condotto da Ennio dell’intervista a coloro che chiedono l’iscrizione al Partito, il controllo asfissiante sulle abitudini sessuali personali degli iscritti, il pressante controllo ideologico. Tuttavia tutto ciò costituisce più che altro uno sfondo, ed è ben lungi dal costituire il centro del film. La ricostruzione di costume evidentemente è solo un mezzo per altro.

      – 8. L’attrice interprete di Vera, in seguito a uno degli innumerevoli battibecchi con Giovanni, pone il problema e ipotizza che si tratti di un film d’amore travestito da film politico. I rapporti tra Giovanni e questa attrice sono sempre piuttosto tesi. In questo quadro si colloca la sua insofferenza per il fatto che lei indossi i sabot, le ciabatte. Giovanni viene mostrato discutere seriamente con Paola se licenziare l’attrice che considera disobbediente e inopportuna, con tutte le sue domande sul film, con le sue idee sul personaggio e poi, con le ciabatte. Pur di cacciarla, è disposto a rigirare il materiale già realizzato con un’altra attrice.

      Tra l’attrice che interpreta Vera e Giovanni si instaurerà una vera e propria dialettica, non solo incentrata sulla natura del film ma soprattutto sull’autonomia dell’attore nei confronti del copione. Su questo argomento viene tirato in ballo lo stile di regia di Cassavetes, disposto a un lungo lavoro di discussione con i suoi attori. Giovanni, stizzito, ci tiene a precisare che il suo stile sta all’opposto di Cassavetes. Si tratta di una questione evidentemente di qualche rilevanza per Moretti e che serpeggia un po’ per tutto il film. Tutti i tentativi da parte degli attori di dire la loro sul copione tuttavia sono cassati. Solo verso la fine, con una specie di ribaltone, la rielaborazione del finale del film sarà il frutto di una specie di adombrata riscrittura collettiva.[9]

      – 9. Poco a poco si chiarisce che non solo si tratta di un film su una storia d’amore (e poi, vedremo, di altro ancora) ma anche che Giovanni, nella scrittura del film, sta usando inconsapevolmente una serie di meccanismi proiettivi. Giovanni evidentemente proietta nei suoi personaggi elementi della sua vita privata dei quali non è del tutto consapevole o intorno ai quali tende a rimuovere. Vera è abbastanza chiaramente la trasfigurazione di Paola, che forse, nelle intenzioni di Giovanni, dovrebbe essere tutta dedita alla causa, senza una vita privata e che dovrebbe reprimere la sua sensualità. Una figura completamente idealizzata, fino a divenire irreale. L’attrice che interpreta Vera tende invece costantemente a rompere questo schema, irritando Giovanni. La scena in cui Vera, verso la fine del film, restituisce la tessera costituisce, in effetti, l’analogo di un divorzio. Quando si girerà la scena della restituzione della tessera, dove il copione prevede un tentativo articolato di chiarificazione tra i due, Giovanni reagisce negativamente, si mostra allarmato e contrariato. Dice che la scena fa schifo e così taglia via ogni dialogo, ogni tentativo di spiegazione e impone il semplice gesto della consegna del documento. Subito dopo – trovata tipicamente morettiana – parte la danza dei dervisci, con sottofondo di Battiato, che poco a poco contagia tutta la troupe nello studio.

      – 10. Se Vera è la trasfigurazione di Paola, allora il dirigente politico Ennio funge perfettamente da alter ego di Giovanni. Lo suggerisce anche il cognome scelto, Mastrogiovanni. Anche di Ennio nulla si dice di personale. La sua dedizione alla causa è totale, come la sua imbrigliatura dell’affettività e della sessualità. Lo vediamo addirittura esercitare il controllo sulla moralità sessuale dei suoi collaboratori. Un perfetto militante di partito di quegli anni, apparentemente tutto d’un pezzo. Veniamo informati del fatto che Ennio ha un certo peso nel PCI poiché è anche nientemeno che redattore de l’Unità, dunque assai vicino alla Direzione romana del PCI. Insomma, il tipico intellettuale militante comunista degli anni Cinquanta. Grazie a questa sua posizione, Ennio può promuovere le iniziative amministrative e politiche della sezione del Quarticciolo. Può invitare addirittura Togliatti alle sue iniziative. Può decidere cosa si deve pubblicare sul giornale. C’è una componente di tacito fanatismo nella figura di Ennio in cui evidentemente Giovanni proietta il suo stesso fanatismo autoriale.

      Evidentemente, per Giovanni, nella relazione di coppia, le parole non servono. Anzi, sono pericolose. È evidente che Giovanni, inconsciamente, proietta nei due protagonisti del film che sta facendo la sua situazione irrisolta con Paola. Il suo bisogno di comunicare si risolve volentieri nei gesti, nella musica, nella danza. Tutto va bene purché rimanga confinato nel non verbale. Il film che Giovanni sta dunque girando appare dunque sempre più come un gigantesco meccanismo proiettivo della sua stessa vicenda personale. Ci sentiamo allora autorizzati a domandarci se anche secondo Moretti questo non sia proprio il senso della scrittura filmica in generale.

      – 11. Una trovata sicuramente efficace è quella che permette a Giovanni la connessione tra Budapest 1956 e la sezione romana del PCI. Si tratta dell’arrivo, proprio su invito della Sezione Gramsci del Quarticciolo, del circo ungherese Budavari, proprio nei giorni in cui avverrà l’invasione della Ungheria e la conseguente rivolta di Budapest. L’arrivo dà luogo a fermenti di solidarietà e a festeggiamenti vari con i compagni ungheresi. Qui Moretti ne approfitta per giocare con le memorie felliniane, sue e dei suoi spettatori. Alla prima dello spettacolo del circo si diverte con tendoni, pedane, musiche da circo, cavalli, acrobati e clown. Alla serata inaugurale del Circo è anche presente Togliatti,[10] che però s’intravvede soltanto e che Giovanni, discutendo con Arianna, non vuol mettere in scena dettagliatamente. A un certo punto della serata però, Togliatti e i suoi accompagnatori (sempre mostrati in ombra) si alzano di scatto e abbandonano lo spettacolo di corsa, come colti da una notizia sconvolgente. Alla fine della serata tutti allora si precipitano in un appartamento vicino, dove hanno la televisione, per sapere cosa è successo. Le immagini sono spietate. I carri armati sovietici sono entrati a Budapest ed è iniziata la repressione. I titoli de l’Unità poi rendono chiaro che la Direzione del PCI ha condannato duramente la rivolta di Budapest e ha appoggiato l’intervento dei carri armati.

      Tutto ciò produce la costernazione dei compagni ungheresi del Budavari, ma provoca anche una lacerazione interna tra i militanti della sezione. E produce la spaccatura tra la coppia militante Ennio/ Vera. Vengono così alla luce le differenze accuratamente celate dal rigorismo della vita di partito. Ennio si rivela qui come il dirigente inflessibile e ligio alle direttive, mentre Vera, aperta e solidale, prende posizione per i rivoltosi. Vera combatte valorosamente la sua battaglia per la libertà e si farà promotrice di una petizione con una raccolta di firme a sostegno degli insorti.[11] L’appello con le firme doveva essere destinato alla pubblicazione sull’Unità. Ennio tuttavia, ligio alla consegna del partito, rifiuterà di pubblicare la petizione sul giornale. Tutto ciò porterà Vera a riconsegnare la tessera, atto che, probabilmente, implica anche una vera e propria rottura nel campo dei loro rapporti personali. Ma di ciò nulla si deve mostrare.

      Moretti dunque, attraverso le scene girate da Giovanni, ci fa vedere, pur talvolta con qualche stravolgimento, quello che serve a intendere, in termini davvero elementari, la questione del 1956 anche dal lato storico. Tuttavia, a questo punto, quella che poteva anche sembrare l’avvio di una riflessione politica sul comunismo viene in un certo senso sospesa. Giovanni qui, di fronte alla crisi della militanza che sopravviene nei suoi due personaggi, comincia a essere sempre più impegnato da questioni personali. Avanzano sempre più i segni di una crisi della sua stessa militanza professionale, la militanza cinematografica. I segni cioè di una crisi dell’Autore e del suo Cinema. Insieme, prendono sempre più spazio le questioni sempre più problematiche riguardanti la lavorazione del film. Questioni che hanno a che fare con il lato economico della produzione, ma anche con il significato del film.

      – 12. Dapprima il confronto tra Giovanni e Paola avverrà sul piano dei loro rapporti professionali e non su quello dei loro rapporti personali, che restano sempre rigorosamente nel non detto. Giovanni non pensa neppure che ci sia qualcosa da discutere, mentre Paola continua a non essere capace di dire a Giovanni quello che davvero pensa e vuole. Cioè la separazione. Un primo confronto drammatico avverrà sul piano delle scelte etiche ed estetiche coinvolte nel nuovo film prodotto da Paola, insieme con i coreani. Ed è di questo che converrà ora occuparci. Di questo film non ci è detto neppure il titolo. Sappiamo solo che il giovane regista Giuseppe aveva esordito con un film intitolato Orchi. Il che è tutto un programma. A Giovanni, in giro per Roma, era già capitato di trovarsi sul set di questo film dove si riprendeva la scena di una sparatoria, con un Giuseppe dietro la macchina da presa, esaltato come uno psicopatico, a mimare le mitragliate sghignazzando. In un altro luogo del film si dice, en passant, che sul set di Giuseppe si stava girando una scena con bambini disciolti nell’acido. Ora Giovanni capita, con Paola, sul set dove si sta girando, con una certa aria di festa, proprio l’ultima scena del film. Si tratta di un’esecuzione mediante un colpo di pistola in fronte, con molto sangue sparpagliato, dove un esecutore in piedi punta una pistola contro una vittima inginocchiata. Non sappiamo chi siano e non conosciamo la storia che c’è dietro.

      Giovanni interviene bruscamente e interrompe la scena con un’accusa pesante a Giuseppe: «La scena che stai girando fa male al Cinema, lo capisci? Fa male alle persone, allo Spirito. Fa male a te che la giri e a noi che la guardiamo!». Inizia così un lungo monologo sulla questione, che potremmo catalogare sotto la rubrica di cinema e violenza. Si tratta di una parte davvero interessante ed efficace, anche se apparentemente priva di legami con la lavorazione de Il sol dell’avvenire su cui lo spettatore era stato indotto a concentrarsi in precedenza. Giovanni tiene tutti in sospeso per tutta la notte – così ci vien detto – in cui si esibisce in una filippica ininterrotta contro la violenza nel cinema. Si tratta di un’orazione che ha davvero dei punti notevoli. In ciò, come aveva già fatto Woody Allen con McLuhan,[12] chiama in supporto della sua tesi illustri personaggi come l’architetto Renzo Piano, Corrado Augias, Chiara Valerio, che in veste di matematica spiega, dal canto suo, «la geometria del lupo e dell’agnello». Cerca anche di interpellare Scorsese per telefono. Rivolto a Giuseppe, che cerca confusamente di giustificare il proprio operato, dice: «Il fatto è che a te la violenza proprio piace, ne sei affascinato». Ancora: «Tutti sono in preda da anni di un incantesimo. Poi una mattina vi sveglierete e incomincerete a piangere perché vi renderete conto di quello che avete combinato». Stupendo poi, a mio modesto avviso, il monologo di Giovanni sull’episodio Non uccidere del Decalogo di Kieslowsky. La troupe e tutti i presenti sono ammutoliti. Sembrano tuttavia colpiti e incapaci di reagire. Paola cerca di convincere Giovanni a smetterla e a permettere di girare l’ultima scena del film. Solo all’alba, dopo la consegna dei cornetti da parte del venditore di passaggio, all’esecutore esausto è permesso far partire il colpo di pistola, ma il tutto si vede in lontananza, dietro le spalle di Giovanni che si sta allontanando.

      Sempre nel contesto del lungo discorso sulla violenza, Giovanni rivolto a Paola, sul finire, aveva detto: «Nella vita, due o tre principi bisogna pure averceli, no?». Paola irritata aveva risposto che quel tipo di film lì li fanno tutti e li vedono tutti. E Giovanni amareggiato: «Tu non eri come tutti!». Qui risuona evidentemente il richiamo al mondo perduto del PCI del 1956, quando la fedeltà ai principi, quali che fossero, poteva anche dare un senso alla vita, poteva determinare destini e rapporti tra le persone. Qui è abbastanza chiaro che non c’è in gioco solo una polemica contro l’uso della violenza nel cinema, bensì anche una presa di posizione contro la svolta commerciale del Cinema, la tendenza alla produzione seriale di film che rincorrono i bassi gusti del grande pubblico, scritti a tavolino da equipe sbrigative e girati da registi altrettanto sbrigativi. Insomma, una polemica contro il Cinema che adotta lo stile delle serie televisive. Una polemica contro il Cinema che ha messo da parte l’Autore. Contro il tipo di Cinema cui Paola colpevolmente avrebbe aperto le porte, cercando sotto sotto la propria personale liberazione da Giovanni.

      – 13. Possiamo a questo punto tentare di accennare una risposta appena un po’ più complessa alla domanda: che c’entrano il PCI e l’Ungheria con la violenza e con la morte del cinema? Per capire questo punto essenziale dobbiamo cercare di ricostruire i termini di quella che deve essere stata la riflessione morettiana – a dire il vero per i miei gusti un poco confusa – sulla storia recente del cinema italiano.[13] Quella riflessione che può averlo condotto a connettere l’Ungheria del 1956 con i film splatter dei giorni nostri e con le serie televisive. Si tratta certo qui di supposizioni, ma dotate di qualche fondamento in base a ciò che Moretti ci ha mostrato finora.

      Il Cinema d’Autore italiano è stato quasi sempre un Cinema di sinistra. E questo è un fatto. La genesi di questo Cinema sta nel neorealismo del secondo dopoguerra, nel rapporto tra politica e cultura, così com’era stato impostato proprio da Togliatti. E talvolta anche polemicamente contestato. Si ricordi il famoso dibattito tra Togliatti e Vittorini. Per quel mondo, che comunque agiva nel solco del sol dell’avvenire annunciato dall’Unione Sovietica, il 1956 è stato effettivamente un momento di grave crisi, di disorientamento, di riflessione. Abbiamo già citato il Manifesto dei 101.[14] Molti intellettuali, in quel frangente, hanno rinunciato alla militanza politica. Si sono scrollati di dosso l’occhiuto controllo del Partito. Ne è testimonianza il dibattito, aperto proprio nel 1956 sulla rivista Cinema Nuovo.[15] L’avvio del dibattito fu promosso da un articolo di Renzo Renzi che si intitolava «Sciolti dal “giuramento”».[16] Tuttavia – e questo è il punto cruciale che forse interessa a Moretti – quegli intellettuali che si erano allora emancipati dal Partito non hanno mai rinunciato all’impegno. Dopo la rottura del 1956, il cinema autoriale ha continuato a sviluppare un suo impegno militante. Non più sotto le ormai truci bandiere rosse ma sotto il vessillo dell’impegno autoriale libero. Questo vale per l’Italia, ma anche per le più importanti cinematografie straniere. Sembra dire Moretti che, anche quando, come nel suo caso, ha sviluppato un cinema davvero molto personale, con i tratti di egocentrismo che egli stesso ha sempre esibito, il suo Cinema non ha mai rinunciato all’impegno. A costo di esibire anche maldestramente la propria dimensione più intima e personale, a costo di fare un film ogni cinque anni, a costo di comportarsi sul set come un dittatore autoritario: «Nella vita, due o tre valori bisogna pure averceli, no?».

      Per Moretti allora, di fronte all’andazzo odierno del cinema commerciale, di fronte alle imposizioni del mercato, di fronte alla progressiva corruzione dei gusti del pubblico, si tratta di tornare a interrogarsi sul senso dell’impegno dell’Autore. A interrogarsi cioè intorno al rapporto tra politica e cultura, tra intellettuali e potere. Tra l’opera artistica, la tecnologia e il mercato. E a interrogarsi sulle conseguenze sociali e culturali di tutto ciò. Interpretato in questo modo, quello di Moretti (per il tramite di Giovanni) si configura come un vero e proprio appello. Un Manifesto, se vogliamo. Una chiamata a scegliere urgentemente da che parte stare, giacché non è possibile stare a metà, proprio come non era possibile stare a metà nel 1956: «[…] una mattina vi sveglierete e incomincerete a piangere perché vi renderete conto di quello che avete combinato».

      – 14. Ma riprendiamo il corso del filone narrativo principale. Intanto per Giovanni si tratta di prendere atto del fatto che la lavorazione del suo film è messa a repentaglio da un evento imprevedibile: l’arresto di Pierre da parte della Guardia di Finanza per reati fiscali. Il duro peso delle incombenze materiali si fa sentire. Si scopre che Pierre era già ricercato fin dall’inizio della lavorazione del film e per questo si nascondeva proprio negli studi. Era lui il disseminatore degli oggetti “fuori epoca” e dei cartoni delle pizze che facevano impazzire Giovanni e di cui egli rimproverava il povero Diego.

      Pierre, che esce di scena in maniera goffa e ingloriosa, aveva comunque già offerto a Giovanni una soluzione per la continuazione del film. Rivolgersi a quelli di Netflix, che avrebbero potuto essere interessati al suo film. L’incontro con gli esponenti di Netflix si tiene effettivamente ed è risolto in forma caricaturale e non abbisogna di alcuna spiegazione particolare. Il dialogo tragicomico che avviene tra le due parti è fatto apposta per evidenziare la loro distanza lunare. Da un lato Giovanni, che spiega come San Michele aveva un gallo dei Fratelli Taviani potesse essere, insieme, un film politico e poetico. Dall’altro quelli di Netflix che spiegano a che punto del film (cioè, dopo 2 minuti!) lo spettatore medio decide se continuare a guardare o meno. Il copione di Giovanni viene rifiutato perché sostanzialmente non soddisfa i canoni del cinema commerciale e perché il contenuto deve essere suscettibile di essere compreso universalmente, visto che Netflix è diffuso in ben «190 Paesi». In estrema sintesi, poi, secondo Netflix nel copione manca il momento «What the fuck!».

      Sarà, ma proprio durante il colloquio con gli esponenti di Netflix viene comunicata allo spettatore una informazione che costituisce un colpo di scena, un vero e proprio What the fuck!, finora accuratamente celato, intorno al quale prenderà forma tutta l’ultima parte del film. Dice Giovanni: «San Michele aveva un gallo […] era un bellissimo film e finiva con il suicidio del protagonista, proprio come il mio!». Si tratta dunque qui nientemeno che del suicidio di Ennio. Insomma, apprendiamo qui che il “film d’amore” di Giovanni ha un finale tragico. Era piuttosto un film d’amore e di morte! Questo fatto effettivamente è in grado di unificare le due parti apparentemente sconnesse del filone principale. Cominciamo a capirci qualcosa!

      – 15. Intanto, dopo il monologo sulla violenza e il relativo scontro, Paola ha trovato il coraggio di esplicitare la propria intenzione di separarsi e si trasferisce nell’appartamento che ha affittato da tempo proprio in vista della separazione. Giovanni va a dormire a casa della figlia Emma. Dove Moretti ha modo di mettere a segno alcune ulteriori osservazioni di tipo generazionale, discutendo di dipendenza, di sonniferi e antidepressivi. Giovanni continua a non capire i motivi della separazione e continua a chiedere a Paola di ripensarci. Paola mantiene la sua decisione, ma nello stesso tempo offre a Giovanni una soluzione per la continuazione del film. Grazie alla mediazione di Paola, il copione del film viene fatto leggere ai coreani. Sorprendentemente, i coreani ne sono molto colpiti e decidono su due piedi di finanziarlo, subentrando così allo sciagurato Pierre. Qui la portavoce dei coreani spiega accuratamente, in un modo che più chiaro non si può, il senso del copione appena letto: «La sceneggiatura è stata davvero apprezzata. Soprattutto il finale, così drammatico, senza speranza. È un film sulla morte dell’arte, sulla morte dei comunismi, sulla morte dell’amore e della morale. È proprio un film sulla fine di tutto quanto!». Giovanni risponde con un laconico: «Certo!».

      I coreani allora non fanno solo film splatter.[17] O forse un film “sulla fine di tutto” è la logica conseguenza del trionfo dello splatter? Dobbiamo dare credito a Giovanni e ritenere che questa chiave di lettura sia anche la chiave condivisa dallo stesso Moretti? Un Moretti così didascalico (e ideologico) da mettere nel film un’esplicita traccia per la corretta lettura? Oppure Moretti tenta ancora di mascherarsi e di sfuggire a qualsiasi definizione? La svolta suscita nuovi interrogativi.

      – 16. Grazie all’intervento dei produttori coreani, si riprende comunque a girare il film. Tuttavia, al momento dell’ultima scena del film, il finale «drammatico e senza speranza», cioè il suicidio di Ennio, le cose si complicano. Sulla scena, Giovanni, per spiegare a Ennio come recitare l’impiccagione, gli dà questa dritta, con la sua voce strascicata: «Pensa a quello che disse Calvino: Cesare Pavese si è ammazzato perché noi imparassimo a vivere. Pensaci, poi però dimenticalo!». Poi, quasi come per una coazione inconscia, Giovanni, nella sua foga di mostrare come fare, caccia la testa dentro il cappio e se lo stringe al collo. Diventa chiaro che qui si tratta proprio del suicidio dell’Autore, sospeso tra la realtà e la fiction. Gli astanti guardano la scena angosciati. Paola è attonita. Forse per la prima volta Paola capisce il dramma di Giovanni, messo per iscritto da mesi nel copione, ma mai veramente discusso. Forse per la prima volta Giovanni è riuscito davvero a spiegarsi, come ama fare, senza parole, e a contagiare tutti.

      In quel momento tuttavia si ha una specie di catarsi. Più banalmente, a Giovanni si accende la classica lampadina. Giovanni si toglie il cappio e decide che quel suicidio non doveva più far parte del film. Insomma, rifiuta il finale che aveva previsto, così necessario nell’economia del copione e così ammirato dai coreani. Si noti che in precedenza aveva detto, en passant, che l’intero film lo aveva scritto solo dopo che gli era venuto in mente il finale. Era stato dunque il finale tragico, il suicidio, il motore dell’intera scrittura del film. Senza quel finale, che senso può ancora avere quel film?

      Qui comunque appare ancor più chiaro come sia proprio Ennio, lo stalinista riluttante, l’alter ego di Giovanni. Colui che doveva essere destinato al suicidio per un irriducibile conflitto tra sé e il mondo. Se riteniamo – come credo sia giusto pensare – che per Moretti il film altro non debba essere se non una sorta di autoanalisi, una presa di coscienza attraverso la scrittura, qui Giovanni si rende finalmente conto che il film che sta girando altro non è se non il pretesto per mettere in scena la propria crisi, non tanto politica quanto esistenziale e artistica. Del tutto speculare alla decisione di Paola di andare in analisi per riuscire a separarsi da Giovanni.

      – 17. Successivamente a questo moto di rifiuto del finale tragico, tutta la troupe, compresi i produttori, si ritrova riunita attorno al tavolo, in una specie di ricevimento alla ambasciata polacca, ospiti di Jerzy, dove, tra l’altro la figlia di Giovanni annuncia l’intenzione di sposarsi proprio con Jerzy. Jerzy assume così sempre più la figura del padre maturo. Qui Giovanni dichiara che il finale del film non gli piace più, di non voler mai più vedere quel cappio. A questo punto tra i convitati si sviluppa una specie di concitato brainstorming cui partecipano tutti appassionatamente (attori, collaboratori, produttori coreani inclusi,…) il cui risultato sarà un radicale cambiamento di finale. Giovanni ascolta il brusio e pensa tra sé: «La storia non si fa con i “se”. E chi l’ha detto? Io invece la voglio fare proprio con i “se”!». Il suo “se” è grosso come una montagna ed è, purtroppo per noi, del tutto irrealistico e antistorico. Tanto da lasciare forse un po’ di amaro in bocca allo spettatore che è avvivato fin qui. Comunque val la penna di seguire fino in fondo il discorso di Giovanni.

      Subito parte il nuovo finale, fatto vedere al pubblico in diretta. I sottoscrittori della petizione promossa da Vera a favore della rivolta ungherese si ritrovano sotto la Direzione del PCI (più o meno una storica ricostruzione delle Botteghe Oscure) e inscenano una manifestazione. Tra la folla, violando la logica temporale della narrazione, si trovano anche Giovanni e Paola, forse finalmente riconciliati. Dalla piazza s’intravvedono i dirigenti comunisti, Togliatti in primis, confabulare dietro le finestre del primo piano. Poco dopo viene fatto uscire un numero de l’Unità che ha come titolo un clamoroso e sorprendente: «Unione Sovietica addio!».[18] Le prime copie del giornale sono diffuse e di lì, col supporto della banda musicale, degli elefanti, degli artisti del circo Budavari, parte un corteo – in stile da circo equestre sempre decisamente felliniano – che si dipana per le vie di Roma. Un corteo che evoca figurativamente il Terzo Stato di Pelizza da Volpedo. Si tratta di un corteo un po’ al di là dello spazio e del tempo, dove compaiono tutti i protagonisti, non solo del film principale ma anche dei diversi altri film di cui si parla nel film, cui si aggiungono addirittura anche molti attori e protagonisti di precedenti film di Moretti. Sono compresi anche Togliatti e i produttori coreani. Alla fine – ed è questa la chiusura del film – compare un cartello, su sfondo rosso, che recita così: «Da quel giorno il Partito Comunista Italiano si liberò dell’egemonia sovietica, realizzando in Italia l’utopia comunista di Karl Marx e Friedrich Engels, che ancora oggi ci rende tanto felici».[19] Gulp!

      – 18. Moretti, che nel finale subentra a Giovanni o, se vogliamo, si unifica con Giovanni, invece di suicidarsi, attraverso la sfilata dei protagonisti dei suoi film precedenti, rivendica qui il proprio lavoro autoriale, compreso il suo egocentrismo vagamente staliniano, la sua difficoltà ad affrontare i sentimenti e le relazioni interpersonali, rivendica la causa del Cinema contro la spazzatura mediatica dilagante. Rivendica un Cinema totale che si intreccia con la vita. Un intreccio così autentico da farsi psicoanalisi per chi scrive i copioni. Noi personalmente non condividiamo proprio la fissazione morettiana per la psicoanalisi, ma non possiamo che rispettarla.

      Decisamente problematica per noi, oltre la citazione dell’utopia marx-engelsiana realizzata, è poi la presenza, in questo corteo, di un gigantesco ritratto di Trotsky, che ridacchia benevolo. Ci dispiace, ma qui non riusciamo proprio a seguire. Come già non avevamo capito la battuta sulla Luxemburg. Nell’allestimento della sezione, all’inizio, per Giovanni, Stalin non andava bene, ma Lenin, certo non meno responsabile di Stalin nelle vicende del comunismo sovietico, era stato lasciato in bella mostra. Trotsky non era migliore degli altri due, semplicemente è stato lo sconfitto dalle lotte interne. Oltretutto è stato uno dei principali perpetratori del massacro di Kronstadt del 1921. Le battute sul «pasticcere trotskista» in un precedente film di Moretti e la riproposizione, da tormentone, in questo corteo finale, della figura di Trotsky lasciano molte domande aperte, soprattutto sulla cultura storica e filosofica di base del nostro Moretti. Qui la superficialità è davvero impressionante. Ma nessuno è perfetto.

      – 19. Moretti vuol comunque salvare Ennio (alter ego di Giovanni) e Vera (alter ego di Paola), i quali si vedono, finalmente, felicemente abbracciati, non si sa se come personaggi o, più probabilmente, come attori, visto il loro progressivo innamoramento durante la lavorazione del film, a cavalcioni di un elefante, uno dei quattro elefanti in corteo, resi evidentemente disponibili dalla onnipotente produzione coreana e, anche loro “familiarizzati”, divenuti ora socievoli e disponibili a lavorare insieme. L’auto analisi di Giovanni attraverso il film, dopo essere passata per l’ipotesi drammatica del suicidio, si compie dunque con una fuga fantastica, una specie di evasione dalla storia, dal tempo, con la costruzione di una comunità illusoria. Forse la comunità illusoria di coloro che credono ancora al cinema autoriale, nonostante Netflix. Non più la «fine di tutto», come stava scritto nel copione originario, ma l’alba fantastica del mondo nuovo. Un finale un poco allucinatorio dunque, un finale senz’altro consolatorio, ahimè dal sapore un po’ velleitario e un po’ fasullo, che Moretti tuttavia offre al suo pubblico. Pubblico che Moretti conosce bene e sa non essere avvezzo alle storie troppo drammatiche. Un finale scomodo comunque, senz’altro non suscettibile di essere «diffuso in 190 Paesi», come richiesto dai rappresentanti di Netflix. Forse oggi neanche suscettibile di essere diffuso al Quarticciolo.

      – 20. Non nascondiamocelo. Il finale, comunque lo si rigiri, sembra per lo più, allo spettatore, pasticciato e deludente. Non all’altezza.[20] Finale da opera aperta ai limiti dell’indecifrabilità. Una proclamazione del potere assoluto dell’Autore, oppure il riconoscimento di un esaurimento dell’Autore stesso? Estrema maturità o estrema senescenza? E poi, l’intreccio tra Cinema e vita, messo così sembra di una banalità sconcertante. Come si può pensare di combattere Netflix con simili trovate?

      L’unica spiegazione che sono riuscito a darmi, per sollevare appena un po’ Moretti da questa débâcle, è la seguente. Si badi bene, non è certo che questa spiegazione sia stata mai effettivamente nelle intenzioni di Moretti, ma senz’altro, a mio modesto avviso, emerge con qualche plausibilità dal suo film. Torniamo a Giovanni, che con ogni probabilità rischia ancora di essere la chiave di tutto e vediamo in generale come si comporta, come lavora. È immaturo, pasticcione, capriccioso, irresoluto. A ogni nuovo film deve fare il rito di guardare Lola con tutta la famiglia, nei momenti di difficoltà invoca la mamma, dichiara di prendere gli antidepressivi. Sul lavoro è terribilmente inefficiente, visto che fa un film ogni cinque anni. Il film che Giovanni gira sotto i nostri occhi è un’opera erratica, indecisa, dall’incerta collocazione tra i generi, soggetta a mille condizionamenti, dalla vita privata dell’Autore ai diktat dei conti economici. Un’opera perfino indecisa riguardo al finale e al suo significato generale. Dalla figura di Giovanni, così com’è delineata, e dal suo film, così come viene mostrato nel suo farsi e nella sua inconclusione, sembra emergere l’intenzione di un vero e proprio elogio della imperfezione. Un’imperfezione che è tipica della vita, delle relazioni interpersonali, degli Autori, dei produttori. Ma anche della storia.

      Netflix (qui pars pro toto), a rovescio, non ha il retroterra umano troppo umano dell’Autore solitario, del free rider. Non subisce il peso dei condizionamenti più disparati. È una macchina del consenso che produce e distribuisce merce «in 190 Paesi». E’ uno standard cui ci si deve adeguare per stare dentro al meccanismo produttivo e distributivo.  Gli autori di Netflix calcolano minuto per minuto quale meccanismo narrativo sia preferibile  inserire per accontentare il pubblico. È possibilissimo poi che, di questo passo, gli autori di Netflix possano perfino essere sostituiti dall’intelligenza artificiale. Sicuramente una AI potrebbe produrre storie più efficaci di qualsiasi autore o collettivo di autori. Perché la AI rappresenta il collettivo autoriale assoluto, quello che emerge automaticamente dal Testo universale.

      Secondo Moretti – e questo discorso emerge di fatto dal testo – invece  l’Autore solitario, il free rider potrà avere anche mille difetti, potrà anche essere enormemente imperfetto, ma sarà sempre meglio di Netflix, semplicemente perché: «Nella vita, due o tre valori bisogna pure averceli, no?». Gli intellettuali del 1956 avevano di fronte la macchina comunista in tutte le sue manifestazioni locali e mondiali. Gli intellettuali di oggi hanno di fronte una macchina ben più temibile. Di fronte alla «fine di tutto quanto» l’unica speranza di reagire, di restare umani, è quella di fare un ricorso intelligente alla nostra imperfezione. E di imperfezione Moretti se ne intende.

Giuseppe Rinaldi  (21/09/2023)

Sito web: https://finestrerotte.blogspot.com/

OPERE CITATE

1981 Aristarco, Guido, Sciolti dal giuramento. Il dibattito critico-ideologico sul cinema negli anni Cinquanta, Dedalo, Bari.

1990 Eco, Umberto, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano.

NOTE

[1] Ho cominciato a scrivere questo piccolo saggio l’08/09/2023, tanto per collocarlo rispetto alle uscite dei commenti e delle analisi altrui.

[2] Chiedo scusa se per caso mi fosse sfuggita qualche importante controversia critica. Non mi capita più tanto di leggere la critica cinematografica.

[3] L’espressione critica postmoderna è ovviamente una contraddizione in termini.

[4] Di opera aperta ha parlato Umberto Eco. Il quale era tuttavia ben consapevole dei pericoli connessi alla pretesa di un’interpretazione infinita. Cfr. Eco 1990.

[5] Sento qui ruggire i ritualisti fondamentalisti antispoiler.

[6] Giovanni, che fa un film ogni cinque anni, in occasione della partenza delle riprese del nuovo film vuole imporre a tutta la famiglia il rituale della visione di Lola, con tanto di poncho da Ecce Bombo, gelato e quant’altro. Ma rimane ben presto da solo. Mormora tra sé: «Questo film andrà male, lo sento!».

[7] Giovanni compare come una specie di Cupido che incita Lui a baciare Lei mentre sono al cinema. I due però poi si lasciano, sorprendentemente dopo una dettagliata spiegazione da parte di Lei, di fronte a un Lui che palesemente è inadeguato e non sa cosa dire (anzi, lo stesso Giovanni gli ingiunge di non dire niente). È tuttavia l’unica parte del film dove le relazioni di coppia sono esaminate e spiegate con una certa cura e con una certa articolazione nell’analisi dei sentimenti.

[8] Qui abbiamo una prima violenza alla storia. Cosa c’entri la Luxemburg con il PCI del 1956 è davvero difficile da capire. Farà il paio con le citazioni di Trotsky che compaiono nel film.

[9] Questa faccenda non è occasionale e/o pretestuosa come potrebbe sembrare, poiché la scrittura collettiva è proprio la tecnica che usano i grandi network del Cinema per produrre i loro contenuti. Cioè proprio il tipo di cinema contro cui polemizza Moretti. È il tipo di scrittura che sta demolendo la figura stessa dell’Autore. Qui Moretti non dice, ma sicuramente accenna.

[10] La presenza di Togliatti in una simile occasione, dove si manifestava solidarietà con l’Ungheria, stride e chiede vendetta di fronte al tribunale della scienza storica. La storiografia ha ormai appurato in modo incontrovertibile che Togliatti fu tra coloro che chiesero a Mosca proprio di procedere sollecitamente con l’invasione dell’Ungheria. Togliatti, non contento dell’esito, fu tra coloro che appoggiarono poi la condanna a morte di Imre Nagy (il padre ispiratore della rivolta ungherese, per chi non lo sapesse) e del generale Maléter (l’eroico difensore di Budapest). Solo che Togliatti – è tutto documentato – chiese che l’esecuzione avvenisse solo dopo le elezioni italiane del 25 maggio 1958, perché il Migliore aveva paura di sputtanarsi con l’opinione pubblica italiana e di perdere voti. Se Moretti si fosse minimamente documentato, avrebbe evitato certe macroscopiche incongruenze. Ma al pubblico e alla critica queste cose non interessano. In ogni caso, la hybris autoriale non giustifica il travisamento dei dati e dei fatti storici. Il rischio è sempre quello di sconfinare nel bullshit. Proprio perché il pubblico odierno non sa nulla dell’Ungheria del 1956, diffondere versioni stravolte e/o edulcorate di quella storia rischia di mettere Moretti un po’ sullo stesso piano di Netflix.

[11] Forse questa è un’allusione al famoso “Manifesto dei 101” che fu stilato da un centinaio di personaggi di primo piano della politica e della cultura di sinistra in appoggio alla rivolta ungherese e che l’Unità rifiutò di pubblicare. Il testo è riportato in una nota più sotto.

[12] La scena si trova in Io e Annie (1977).

[13] Moretti avrebbe potuto anche trattare della storia del cinema a livello internazionale, nel periodo della Guerra Fredda. Ma non ce la fa. E ha fatto bene a limitarsi al cinema italiano.

[14] Forse è il caso di riportare, per chi non lo conosca, il testo di quel Manifesto dei 101, che è piuttosto breve: «Ai compagni del Partito Comunista Italiano. Ai lavoratori italiani. Agli uomini di buona volontà. La rivolta del popolo ungherese contro il regime staliniano ha suscitato nel mondo intero un’ondata di simpatia e di solidarietà. Noi, intellettuali comunisti italiani, sentiamo il dovere di esprimere la nostra ferma approvazione a questa rivolta, che è stata una manifestazione di coraggio e di libertà da parte di un popolo che ha lottato per la propria indipendenza e per il socialismo. L’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe sovietiche è un atto di violenza e di sopraffazione che non può essere giustificato. Esso è un tradimento dei principi del socialismo e della solidarietà internazionale. Noi denunciamo questa aggressione e ci dissociamo dalla linea del Partito Comunista Italiano, che ha accettato passivamente l’invasione dell’Ungheria. Crediamo che la via del socialismo passa attraverso la democrazia e la partecipazione delle masse alla vita politica e sociale. Noi ci impegniamo a continuare a lottare per la costruzione di un socialismo autenticamente democratico e progressista. Roma, 29 ottobre 1956». Seguono le firme. È stata lievemente modificata la spaziatura e la punteggiatura, per ragioni di spazio.

[15] Si veda – per chi fosse interessato – la ricostruzione documentata di quel lontano dibattito in Aristarco 1981.

[16] Il “giuramento” cui si allude nel titolo non è in realtà il giuramento di fede comunista, bensì un film stalinista osannato dalla critica filosovietica dell’epoca. Ovviamente, c’era un gioco di parole voluto.

[17] In effetti, il Cinema coreano ha recentemente portato alla ribalta alcuni notevoli Autori.

[18] Qui lo stridore con la storia documentatamente accertata si fa davvero forte, rispetto a quanto effettivamente avvenuto. Abbiamo già citato lo storico Manifesto dei 101. La repressione della rivolta ungherese causò effettivamente una spaccatura profonda nella sinistra italiana. Il PSI prese tuttavia apertamente posizione a favore degli insorti. Tranne una sua minoranza interna, i cosiddetti “carristi”, i sostenitori dei carri armati, che poi, nel 1964 lasceranno il partito e andranno a fondare lo PSIUP. Anche la CGIL prese posizione a favore degli operai ungheresi insorti. Non era dunque davvero così impossibile a quell’epoca condannare l’Unione Sovietica. E molti lo fecero. Bastava non avere la mente prigioniera tipica dei comunisti allineati.

[19] Non è facile decifrare il tono di questa scritta. Potrebbe essere un tono ironico ma così screditerebbe tutto il nuovo finale. Più facile che sia un tentativo di sintonia con il carattere utopico del nuovo finale, quello realizzato attraverso la storia scritta con i “se”. In realtà, “se” Togliatti avesse preso le distanze dall’Unione Sovietica nel 1956 non sarebbe cambiato un gran che. Si sarebbero risparmiate, certo, molte lacerazioni interne alla sinistra italiana, non si sarebbe vanificato, com’è invece avvenuto, buona parte del patrimonio storico del movimento operaio italiano e, forse, in questo Paese avremmo oggi una democrazia un po’ più solida. Dubito tuttavia che ciò ci avrebbe preservato dai postcomunisti, dai postmoderni, da Netflix e dalla morte del Cinema.

[20] Ci sentiremmo di sostenere che il vero finale, quello che doveva essere mantenuto a tutti i costi, era quello del suicidio di Ennio. Anche se avrebbe richiesto un maggior lavoro sul personaggio che nel film di Giovanni non viene neppure tentato. Volendo mantenere il parallelo tra Ennio e Giovanni, si sarebbe potuto usare qualche escamotage per mettere in scena, accanto a quella di Ennio nel film, un’impiccagione parallela dell’Autore del film (Giovanni). A Moretti non sarebbero mancate le risorse per una simile scrittura. Siamo qui in presenza, forse, di una abbastanza palese mancanza di coraggio da parte di Moretti, o magari di una concessione (anche lui!) ai gusti del pubblico.

 

 

 

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