Macchiavelli è stato sicuramente uno dei più importanti autori e filosofi del Rinascimento.
Sono indimenticabili le sue creazioni, quali “De Principatibus”, ovvero il Principe, oppure “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio”, che sono delle considerazioni politiche e storiche che ricorreranno anche nei secoli seguenti (vedi Hobbes nel “Leviatano”).
Sono delle opere che si possono leggere piacevolmente ancora oggi e ce la dicono lunga su questo servitore di Firenze, specie nella sua fase repubblicana. I Medici non accolsero benevolmente questa figura così eterodossa quanto creativa.
Ma, a livello popolare, si ricorda forse di più “La Mandragola”, che ai primi del ‘500 ebbe un grande successo e rappresentò per l’eternità personaggi quali Callimaco, Nicia e la moglie Lucrezia, avendo come intriganti deuteragonisti Ligurio, Fra Timoteo e Sostrata, la madre di Lucrezia.
Conosciamo bene la trama della commedia: quello che si evince alla fine è il fatto che la morale cristiana viene violata, il Male sembra trionfare e tutti i coprotagonisti appaiono ben volenterosi nell’imbastire l’inganno che vedrà Callimaco giacere con Lucrezia sotto lo sguardo compiacente (di necessità) del marito Nicia.
Una violazione patente della morale cristiana, una forte affermazione del nuovo motto: “il fine giustifica i mezzi”, che dal duca Valentino sembra spostarsi su una platea popolare, dedita alle mormorazioni ed a una compiacente visione del peccato.
Ma, attenzione, sta per arrivare il ruvido frate sassone Martin Lutero, che imporrà alla Chiesa una Riforma destinata a spaccare per il futuro la Cristianità. Ed il ritorno al Cristianesimo delle origini, puro e duro, si preannuncia come la riconferma di una morale meno indulgente, più adatta ad una lettura fedele della Bibbia.
Sono pochissimi gli anni che trascorrono fra la stesura de “La Mandragora” e le tesi di Lutero, esposte sulla porta della cattedrale di Wittenberg, credo circa tredici anni, non di più, ma denotano quel cambiamento totale di atteggiamento fra i personaggi di Macchiavelli e il bisogno fondamentale di una riforma religiosa presente in tutta Europa.
Che diranno dunque i nipotini del Macchiavelli a livello popolare? Che bisogna occuparsi dei fatti propri e talora impicciarsi dei fatti altrui se vi è il tornaconto.
Questo sembra essere il messaggio, nudo e crudo, che ci perviene da “La Mandragora” a livello popolare.
Non è molto variato in questi cinquecento anni.
Certo va bene la casetta, l’orticello, il cricetino, il cagnolino…
Ma, obbiettivamente, dove sta il Dàimon?
A questo punto, forse, Macchiavelli scuoterebbe il capo.
P.S. La doppia consonante “c” nel cognome è chiaramente voluta
Giorgio Penzo
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